EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

La presenza come costrutto pedagogico di inclusione. Il caso di Matteo

di Susi Panchetti

L’esperienza: aspetto pratico della progettazione educativa

Le esperienze, che qui sono oggetto di narrazione, si riferiscono entrambe ad un obiettivo educativo collegato a sostenere, sviluppare ed educare la motricità fine dei bambini di 18/24 mesi. La scelta delle attività inerenti quest’obiettivo ricade sul tavolo dei “travasi” (tavolo-contenitore a cassetta con farina ed oggetti vari) e quella pittorica, che per i bimbi piccoli consiste nel lasciare tracce su di un foglio.

L’attività dei travasi si sviluppa con frequenza bisettimanale, mentre quella pittorica una volta a settimana. Entrambe le attività risultano proposte a partire dal mese di novembre fino al termine dell’anno educativo.

L’esperienza al nido d’infanzia, prima di essere proposta, viene progettata e veicolata verso un obiettivo, in virtù del quale si caratterizza il contesto, si individuano i bambini, le attività, i mezzi ed i tempi, si descrivono le procedure di verifica e quelle di documentazione per esplicitare se e come è stato raggiunto l’obiettivo.

Per agevolare forme di apprendimento esperienziale il contesto formativo viene ripensato, partendo dal fatto che è spazio di apprendimento individualistico di conoscenze già strutturate, con lo scopo di giungere a luoghi di esperienza visti come comunità di pratiche. Un po’ come quando nella vita quotidiana si impara facendo ed agendo insieme agli altri, realizzando quello che viene definito apprendimento periferico. Infatti, come dice Luigina Mortari nella sua opera “Aver cura della vita della mente”: “Tutto ciò in concreto si verifica quando si coinvolgono i soggetti in modo progressivo e quindi all’inizio si ha una partecipazione marginale, detta appunto periferica” (p. 41).

All’interno della progettazione occorre considerare anche quei fattori ambientali che possono rappresentare barriere o facilitatori (così definiti dall’ICF). Allo scopo di inserire elementi facilitatori vengono individuati due bambini, di circa 24 mesi, capaci di verbalizzare frasi semplici riconducibili alla frase sintattica-primitiva.

Creato il piccolo gruppo di 3-4 bambini al suo interno viene incluso Matteo (nome di fantasia per la privacy, età 20 mesi), dato che i soggetti portatori di fragilità – come afferma Gianfranco Bandini – devono essere considerati a pieno titolo ”protagonisti della propria crescita”, (p. 144):

Matteo presenta una lieve disabilità motoria al piede e mano sinistri (conseguenza inattesa dell’intervento al cuore), fase linguistica con gesti deittici e normale sviluppo cognitivo.

Quando questo bambino è entrato al nido esprimeva con lo sguardo (già dai primi momenti) il suo sentirsi tutt’uno fra sé e l’ambiente e non percepiva barriere: ogni momento della sua presenza diventava un’occasione per imparare, cogliere ed accogliere se stesso nel rapporto con l’altro, prescindendo dalla sua fragilità motoria.

Educare ed integrare il bambino diversamente abile implica porre al centro dell’azione educativa la relazione, la cura della sua crescita nel rispetto delle sue potenzialità, che rimandano all’espressione di un alto valore democratico, quello dell’inclusione sociale di tutte le persone: inclusione che può attuarsi esclusivamente con la presenza fisica degli individui.

L’attività al tavolo dei travasi

E’ il primo giorno programmato per l’attività. Il gruppo dei bimbi si avvicina al tavolo dei travasi e, stando in piedi, volge il loro sguardo prima sulla farina e poi sui compagni. E’ uno sguardo che si manifesta a metà fra stupore e timore.

Davanti ai loro occhi vedono imbuti, contenitori e bicchierini di vari colori e dimensioni, cucchiai e setacci che rappresentano accattivanti stimoli insieme alla farina di mais. I bimbi si guardano l’un l’altro cercando di capire chi-cosa avrebbero potuto/dovuto fare.

Matteo leggermente più distante dal gruppo osserva con attenzione, sguardo puntato su uno dei bimbi che sa parlare. Egli per lui rappresenta il suo modeling, il suo passe partout per l’apprendimento esperienziale affinché attraverso l’osservazione del comportamento altrui possa emularlo.

Si inizia, il primo bambino, che si decide a toccare questo immenso mare giallo, immerge tutte e due le mani sotto la farina, mentre parlotta fra sé e sé, prendendone una manciata e la getta in aria. Poi inarca le spalle e spalanca gli occhi in segno di meraviglia: la percezione tattile e la sensazione ricevuta lo stimolano piacevolmente. Manifesta soddisfazione mentre chiama “neni teo” (che sta per “vieni Matteo”). Alcuni bimbi lo emulano, l’educatrice li guarda e sorride.

Matteo rimane fermo dietro un bimbo come a proteggersi. In quel momento egli manifesta il suo bisogno di rassicurazione.

Si tratta del bisogno che si sviluppa nella prima relazione della diade  madre/bambino e che trova la sua definizione nella teoria di attaccamento di John Bowlby. Egli sostiene che il bambino è competente perché ricerca fin dalla nascita la vicinanza ed il contatto fisico con il suo caregiver.

Dopo qualche minuto, altri bimbi toccano la farina e ritirano indietro le mani, facendo dentro e fuori in quella polvere gialla; c’è un brusio di voci e uno di loro esulta “oh! “.

L’educatrice volge lo sguardo su Matteo e poi sul bimbo che ha esultato: sorridendo gli ripete l’esclamazione, facendogli da specchio. In quel momento, quando gli occhi del bambino incontrano quelli dell’educatrice, che gli rimanda il valore attribuito al contatto con la farina, egli aggiusta le proprie emozioni monitorando le reazioni dell’adulto che gliele rispecchia.

Le prime interessanti informazioni sulle caratteristiche psicologiche infantili si evincono dal modo di approcciarsi ai materiali come la farina: di fronte ad essa il bambino può inibirsi, osservando a distanza o, avvicinarsi e servirsi, magari senza distinguere un oggetto dall’altro e rovesciare tutto, spargerla sul pavimento, manifestare paura.

Osservando questi comportamenti, l’educatrice è in grado di distinguere le scene agite d’impulso, costituite da immagini passive e difensive, poiché mancanti di un certo ritmo. Tale ritmo, invece, si individua quando il movimento è soppesato e ritmato, quasi a trovare un adeguamento “per prova ed errore” in relazione a “qualcosa” che internamente rispecchia un’immagine attiva.

Ecco come “Le diverse modalità di contatto – scrive Cecilia Codignola in Osservare l’infanzia – sono i testimoni esterni del confronto con l’emozione” (Bellacicco, p. 151).

Conseguenza alla percezione sensoriale tattile è l’attivazione delle strutture e funzioni mentali del bambino: i neuroni a specchio entrano in azione, lo sguardo di Matteo si rivolge verso quel tavolo così attraente, si avvicina e appoggia la sua mano destra sulla farina.

L’educatrice osserva che lui usa questa mano tante altre volte, mentre guarda i bambini che giocano usandole entrambe.

E’ allora che il bimbo di fronte a Matteo, chiamandolo, lo sollecita a travasare la farina dal tavolo dentro l’imbuto, ma lui fa cenno di no con la testa.

Questo rifiuto rimanda che, per adesso, lui non vuole usare quella mano dimostrando (la competenza) che quella motricità non lo gratifica. In effetti, al momento, il palmo della mano aperto e la presa a pinza (con pollice e indice) non si verificano.

In tale contesto, è fondamentale rispettare i suoi tempi di sviluppo e di recupero soprattutto per due motivi: primo per non costringerlo a sperimentare situazioni che non è ancora in grado di fronteggiare ed anche per non sottovalutare la sua capacità.

Ogni bambino ha un proprio ritmo di sviluppo ed ha bisogno del suo tempo per sperimentare, elaborare ed attribuire significato alle esperienze. E’ necessario quindi che chi si occupa di loro, garantisca interazioni di cura, esplorazione e gioco in tutta tranquillità, calibrandole sulle competenze osservate e creando la zona di sviluppo prossimale. Come spiegato da Vygotskij si tratta di individuare cosa il bimbo non mostra ancora di saper fare e che, se stimolato e supportato, sarebbe in grado di raggiungere.

Le successive esperienze al tavolo dei travasi documentano che i bambini hanno accolto l’attività, acquisendo graduale abilità nella motricità fine con conseguente capacità di travasare la farina senza che finisse sul pavimento.

In questo contesto, pian piano, negoziando i conflitti (che all’inizio vedevano “strappare” i giochi dalla mano dei compagni), si sono sviluppate relazioni tali da raggiungere poi lo scambio intenzionale dei giochi.

Le prime volte Matteo rimane ad osservare sia i bambini che l’attività proposta fino a quando, riuscendo a gestire le sue emozioni di timore e timidezza, manifesta di essere pronto per avvicinarsi ai compagni ed al gioco.

Nell’esplorazione raggiunge il gioco parallelo: gioco nel quale sembra che i bimbi stiano giocando insieme ma ognuno porta avanti il proprio gioco. Il bambino a questa età è ancora in una fase egocentrica; si potrebbe dire che gioca in autonomia accanto all’altro con propri mezzi e strumenti.

L’attività pittorica

La seconda attività proposta al gruppo dei bimbi consiste nel pitturare con pennarelli (maxi punta) sopra un grande foglio bianco che copre tutto il tavolo. I bambini si dispongono intorno al tavolo e siedono, poi il loro sguardo si dirige verso i pennarelli che sono nel contenitore.

Allungano il braccio e li estraggono e, dopo aver tolto il tappo, li impugnano. Qualcuno di loro si cimenta a colorare il foglio facendo dei segni, qualcuno altro lo testa su di sé colorandosi le mani.

Matteo li osserva, aspetta pazientemente che alcuni di loro li abbiano usati ed appoggiati sul tavolo e, solo in quel momento, prende dal tavolo i pennarelli scegliendo quelli con la punta visibile senza il tappo.

Così facendo anche lui lascia la sua traccia sul foglio e supera la prova per la quale togliere il tappo occorre l’abilità di saper coordinare entrambe le mani.

Questa esperienza educa i bambini a mettere in atto la componente corporea e l’uso del movimento. Non si tratta soltanto della mano che afferra il pennarello, perché attraverso quell’azione insieme a sguardo, gestualità nello spazio, postura e mimica, passa la comunicazione verbale fatta di suoni, accenti, respirazione, tono della voce.

Il linguaggio corporeo è collegato direttamente al vissuto emozionale. La vita affettiva si esprime prima tramite la via fisica, poi con quella simbolica del linguaggio, della scrittura e dei segni.

Nello specifico per Matteo c’è un significato aggiunto: lo sviluppo di un pensiero divergente che, trovando una soluzione che è altra ed a lui congeniale, gli ha permesso di raggiungere quell’obiettivo in presenza di ostacoli per lui apparentemente insormontabili.

Come sostiene Jerome Bruner ne “La cultura dell’educazione”, all’interno del contesto educativo non si devono ricompensare solo le risposte ritenute corrette, perché in questo caso i bambini tenderanno a non cercare nuove soluzioni per paura di sbagliare. Per trovare nuove soluzioni ad un problema e fare il salto immaginativo bisogna che il bambino si senta libero di sbagliare: solo così potrà trovare una risposta diversa da quella convenzionale.

Conclusioni

Dopo alcuni mesi, nei primi giorni di maggio, da parte di Matteo si verificano due eventi significativi dal punto di vista della traiettoria dello sviluppo.

Quella mattina al tavolo dei travasi ci sono alcuni bambini di età eterogenea, con due bimbi di 18 mesi.

Matteo si avvicina al bordo e allunga le braccia verso la farina, prende con la mano destra un bicchierino e se lo sposta accuratamente nell’altra mano. Poi, di nuovo con quella destra, recupera dal tavolo un cucchiaio.

Che emozione vedere la farina scendere dal cucchiaio dentro al bicchierino!

E’ talmente concentrato sul travaso che rimane a giocare una decina di minuti. Gli si legge in viso la soddisfazione: gli occhi socchiusi, le fossette nelle guance mentre accenna quel sorrisetto pieno di gioia continuando a travasare.

Quando un bambino impara con curiosità e gioia, quell’apprendimento si fisserà nella sua memoria insieme alla curiosità ed alla gioia. Il fatto che nella sua memoria rimanga traccia di quell’emozione positiva, consente di innescare quel meccanismo di ricerca che dice: “poiché provo soddisfazione intensa, quindi ne cerco ancora” (Lucangeli, p. 16).

A distanza di pochi giorni si verifica l’evento inerente la pittura.

Egli è seduto con altri bimbi e sul tavolo c’è il barattolo con i pennarelli. Ognuno di loro estrae dal contenitore un pennarello.

Anche Matteo ne estrae uno tappato, lo prende con la destra, se lo sposta lentamente nella mano sinistra e poi, afferrando il tappo con la destra, tira forte e… lo stappa!

A quella lieta premessa seguirono altri traguardi di tappe motorie.

Quei due momenti furono siglati da una sequela di fotografie che fossero in grado di restituire alla famiglia l’evoluzione raggiunta.

Viene spontaneo chiedersi, se quel bambino non avesse potuto beneficiare della presenza, come sarebbe riuscito a sviluppare quelle abilità e raggiungere quelle tappe?

Progressi che per lui hanno rappresentato l’avvio del percorso evolutivo nell’area della motricità fine, all’interno della quale si sviluppano, durante gli anni della scuola dell’infanzia, le abilità di base grafo-motorie, necessarie ai successivi apprendimenti della letto-scrittura.

Quale significato e quale senso hanno generato l’essere in presenza?

L’esperienza soggettiva determina i cambiamenti: ricevere uno stimolo, un premio, un’informazione ovvero una frustrazione oppure, nel caso del sorriso dell’educatrice, un rinforzo, sono tutte azioni che generano relazioni interpersonali tipiche della relazione educativa.

E’ stato attraverso l’elemento della presenza che il suo Io ha potuto cogliere (nell’interazione) le potenzialità nascoste e riconoscersi indipendentemente da ciò che provava, non curandosi del tutore al piede sinistro né che la mano sinistra non riuscisse ad aprire il palmo e distendere le dita.

La relazione esiste anche da parte di ciascuno con se stesso. “Tra l’io che si è e il sé che si diventa. L’io può (e deve) essere attore di questo processo” (Boffo, p. IX).

Infine, riflettendo sull’atteggiamento dell’educatrice che sostiene la naturale curiosità dei bambini e che esorta la loro attitudine investigatrice, Edgar Morin ne “La testa ben fatta” lo definisce  entusiasmo educativo e mette in evidenza quanto sia importante passare dall’interpretazione per giungere alla conoscenza (p. 50). Interpretazione che può assumere la caratteristica di un errore o di un successo.

La percezione rimanda un vissuto distinto per ogni soggetto proprio perché ciascuno avverte sensazioni in maniera diversa.

Ci sono quindi infinite soggettività, ma l’esperienza è unica e la si può vivere solo tramite la presenza.

Riferimenti bibliografici

G. Bandini (a cura di, 2010), Noi-Loro. Storia e attualità della relazione educativa fra adulti e bambini, Firenze University Press, Firenze.

D. Bellacicco (a cura di, 1995), Osservare l’infanzia, Introduzione alle metodologie osservative in psicologia dello sviluppo, Bulzoni editore, Roma.

V. Boffo (2011), Relazioni educative: tra comunicazione e cura, Apogeo srl, Milano.

J. Bowlby (1989), Un base sicura, Raffaello Cortina editore, Milano.

J. Bruner (2015), La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano.

D. Lucangeli (2019), Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, Erickson, Trento.

E. Morin (2000), La testa ben fatta, Raffaello Cortina editore, Milano.

L. Mortari (2013), Aver cura della vita della mente, Carocci editore, Roma.

L. S. Vygotskij (2019), Pensiero e linguaggio, Gius.Laterza e Figlio, Bari-Roma.

 

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