di Federica Biolzi
La resilienza è una risorsa individuale: uno strumento che possiamo trovare e ritrovare in noi nei momenti più difficili. Il Covid ci ha messo alla prova, forse ci ha un po’ cambiati, ci ha reso più o meno consapevoli di aver attraversato una traumatizzazione collettiva, individuale e sociale, alla quale ognuno di noi ha risposto con la propria personalità, con la capacità di star soli. Clara Mucci in Riparare il futuro (Cortina Editore) ci aiuta a fare il punto della situazione per inquadrare la nostra resilienza di fronte alle sfide più inaspettate della vita, partendo dalle nostre stesse risorse.
-Resilienza è un termine sempre più presente nel vocabolario e, se non proprio di uso comune, si sta facendo strada anche nel linguaggio non scientifico. Si tratta di una parola che, come lei ci ricorda, è stata presa in prestito dalla fisica. Ma cosa significa resilienza, l’essere resilienti?
-Vuol dire poter usare risorse nascoste, spesso sconosciute al soggetto stesso, per riparare ferite passate e presenti, e per rispondere con nuove capacità alle sfide presentate dall’ambiente, sia ambiente umano che naturale, cioè difficoltà che ci mettono alla prova. La resilienza è una qualità o un complesso di caratteristiche biopsichiche che vanno indagate a livello individuale, collettivo e la cui spiegazione ultima è intergenerazionale. Inoltre, la resilienza può essere implementata attraverso pratiche che, come ho spiegato in Riparare il futuro, non sono solo di origine innata ma possono essere costruite socialmente, relazionalmente.
-La resilienza è legata, in un filo non sempre chiaramente visibile, ad aspetti traumatici. I traumi peggiori, occorre ammetterlo, vengono proprio dalla mano umana, alcuni sono ovvi altri meno. Quali sono i traumi più gravi e come riconoscerli?
-Essere resilienti significa proprio saper rispondere a traumi, catastrofi e difficoltà potenzialmente distruttive con inaspettata forza, creatività, salute, originalità nei comportamenti e mostrando una capacità inusitata di resistenza al male e alla malattia. Vuol dire riemergere da grave esposizione a esperienze estreme, di vita o di morte, con sorprendente capacità di recupero e vitalità. La prima domanda da porsi è perché alcuni soggetti soccombono fisicamente e psicologicamente a circostanze avverse, e altri, nonostante ne siano usciti in parte danneggiati, recuperano salute e adattabilità, capacità psicologiche cognitive e relazionali? Sono differenze biologiche? Psicologiche? Dipende dal tipo di traumatizzazione? Sono caratteristiche del soggetto innate? Acquisite? Epigenetiche? Cioè in parte dovute al tipo di trauma e in parte a come il soggetto si è sviluppato in un ambiente che ha predisposto il soggetto a reazioni di straordinario adattamento a circostanze avverse? E allora quali sono queste esperienze primarie positive che predispongono a migliore resilienza? Vedremo come la connessione tra epigenetica e attaccamento sicuro con un caregiver sia la prima caratteristica che gli studi evidenziano come base per creare resilienza a circostanze avverse in futuro. Ma prima ancora di parlare di epigenetica e di attaccamento sicuro dell’individuo (che vuol dire aver sviluppato fiducia nell’ambiente e nelle relazioni primarie, fiducia che poi viene trasmessa implicitamente, cioè involontariamente nelle generazioni future) dobbiamo distinguere tra diversi tipi di traumatizzazione.
-Quali sono? Come si differenziano?
-Come ho sempre intuito a livello clinico (si veda Trauma e perdono, Mucci, 2014) e come le nostre più recenti ricerche scientifiche dimostrano, (Scalabrini et al., 2024) c’è una chiara differenza tra le difficoltà dovute a violenza da mano umana, sia a livello individuale, cioè traumi dovuti ad abusi, maltrattamento, stupro, che a livello collettivo (come guerra, genocidio, stermini di massa) e i traumi invece dovuti a catastrofi naturali, come tsunami, esondazioni, terremoti, che, ed è questo il punto essenziale, NON provocano dissociazione negli individui e colpiscono zone diverse del cervello. La dissociazione è una sconnessione grave dei livelli di coscienza, che troviamo in tutte le forme gravi di patologia (dai cosiddetti disturbi gravi di personalità, borderline e narcisistici, in cui l’esame di realtà è conservato, ai disturbi psicotici, in cui c’è compromissione dell’esame di realtà). Avere le prove che solo i traumi in cui c’è violenza da mano umana provocano le forme più gravi di patologia psicologica è molto importante da tenere a mente, perché vuol dire che a livello psicologico e biologico la mente sente la violenza e l’abuso come maggiormente lesivi, distruttivi, disintegranti della coesione della personalità e dell’esame di realtà. E a livello sociale, come pratiche da realizzare e portare avanti, vuol dire che dovremmo porre più attenzione alle traumatizzazioni da mano umana, come abuso, stupro tortura, guerra e genocidio, che appunto dipendono dall’essere umano, e non dalla Natura, cioè sono forme di violenza ed esposizione ad estremo pericolo EVITABILI, a cui noi umani dovremmo stare più attenti. (il che. Non vuol dire che non dobbiamo porre la massima attenzione al fatto che stiamo causando con il nostro comportamento irresponsabile anche traumatizzazioni dovuti a catastrofi naturali, anche queste in parte evitabili).
Costruire quindi società resilienti è possibile, se iniziamo a porci il problema della violenza dalla nascita, dalla violenza famigliare, dalle violenze nelle coppie e nei gruppi, nelle scuole, nelle istituzioni, ai livelli più ampli e collettivi che implicano stati, nazioni, collettività. Questo vuol dire che resilienti NON SI NASCE NECESSARIAMENTE, ma possiamo diventarlo se curiamo da molto presto, o prima possibile, le relazioni in cui c’è potenziale violenza, dalla famiglia allo stato alle masse, e ci operiamo per la realizzazione di buone relazioni, cura, amore, protezione, a tutti i livelli. Perfino dalla nascita, o addirittura prima ancora della nascita, prima ancora che il nuovo individuo sia creato.
-Come favorire queste buone relazioni?
-Se gli individui nascono e vivono in relazioni sane, amorose, sensibili, di cura, introiettano capacità relazioni, cognitive, emotive e fisiche in cui viene implementata a livello neurobiologico la regolazione affettiva, cioè una capacità di regolare stati emotivi, controllare gli impulsi, organizzare gli stimoli, controllare le situazioni influenzandole in senso positivo e -(cosa che non è di base solo genetica ma epigenetica, cioè dipende da come si è stati accuditi ed allevati)-, maggiore capacità di sintonizzazione con l’esterno, l’ambiente, gli individui, i figli, gli animali, la Natura e le relazioni in genere.
La prima forma di trauma da “mano umana”, infatti, anche in assenza di vero maltrattamento e violenza, è, nei genitori, la incapacità di sintonizzarsi con i bisogni altrui, a cominciare dai bisogni psicofisiologici ed emotivo-affettivi del proprio bambino; ma solo il genitore che ha avuto a sua volta un accudimento sensibile e attento sviluppa la sicurezza dell’attaccamento, che implementa la capacità di regolazione affettiva e porta a comportarsi con sensibilità e attenzione nella cura dei propri piccoli. Quindi “non ce l’abbiamo con le madri” ma con la solitudine o le difficoltà non intercettata in tempo che tante madri e padri esperimentano da soli, perché pensiamo che accudire sia naturale, che la nostra sicurezza o meno di attaccamento sia irrilevante, e che traumi passati non abbiano alcun effetto sul presente e sulle future relazioni che incontriamo, a partire dai nostri figli. L’insicurezza, la solitudine, il lutto o la malattia nel genitore formano la prima catena di trasmissione intergenerazionale, diventando anche la prima forma di trasmissione traumatica, che causa nel bambino e poi nell’adulto futuro, (in mancanza di relazioni future che siano riparative), forme di insicurezza dell’attaccamento, che verranno poi ripetute con la generazione successiva, se non riparate. Il secondo importante momento di riattivazione degli effetti della traumatizzazione interpersonale con i suoi effetti di disregolazione affettiva è l’adolescenza, il momento in cui il giovane individuo in formazione sperimenta sè stesso, il suo corpo, la sua identità nelle relazioni non solo primarie coi propri caregivers ma ora con gli altri, con gli amici, con le prime istituzioni che incontra. L’adolescenza offre la seconda grande occasione di diventare individui maturi e sicuri nelle relazioni, riaprendo e offrendo a possibili riparazioni eventuali deficit o difficoltà incontrate, oppure porterà ad evidenziare le zone di difficoltà su cui sarebbe opportuno lavorare subito (perché è il momento in cui affiorano le patologie più serie). Per chiarezza, l’attaccamento insicuro può essere di tipo ansioso-preoccupato oppure insicuro-evitante; vi è inoltre una forma di attaccamento cosiddetto disorganizzato, in cui molto probabilmente vi sono stati maltrattamento e violenza. Tutte queste forme di insicurezza o disorganizzazione dell’attaccamento creano scarsa autostima, mancata regolazione affettiva, possibili disturbi nella identità, nel controllo degli impulsi e nella personalità, potenzialmente tramandati intergenerazionalmente, perché il bambino impara certe dinamiche nella pratica e nella esperienza della relazione col genitore e con tutte le altre, se ci sono altre figure di accudimento (quindi potrebbero esserci anche interventi esterni positivi, che vanno considerati come fonte di ulteriori forme di futura resilienza).
-Lei accenna, tra l’altro, anche a una possibile correlazione tra attaccamenti disorganizzati e forme di difficoltà di identificazione sessuale e di genere
-Ho anche il dubbio che vi sia questo tipo di correlazione con il proprio corpo biologico, problema che sembra di grande attualità specie nei giovani adulti e negli adolescenti. Ho accennato a queste dinamiche in Corpi Borderline quando parlo di “diffusione dell’identità sessuale” (Mucci, 2014, Cortina).
La prima forma di protezione contro traumi futuri quindi è la sicurezza dell’attaccamento appresa nelle relazioni primarie, che regola automaticamente tutti i livelli di corpo-mente-cervello, perché qualcuno lo ha fatto con noi quando eravamo molto piccoli. Questo vuol dire che dovremmo iniziare a lavorare proprio con le famiglie o addirittura con le madri a rischio e le coppie prima ancora che abbiano un figlio, affinché possano essere sicuri e non proiettare in loro parti scisse, non elaborate, e creare disregolazione affettiva. Come diceva John Bowlby, il primo teorico dell’attaccamento, psicoanalista per tanto tempo mal visto dalla psicoanalisi, che non riteneva le dinamiche dell’attaccamento abbastanza profonde perché non coincidevano con l’inconscio rimosso di Freud: se una nazione vuole occuparsi del benessere dei suoi cittadini, deve prima di tutto occuparsi della madre dei bambini e delle famiglie, e di tutti i luoghi in cui si formano relazioni di attaccamento. Tra queste metterei tutte le relazioni che il bambino incontra socialmente al di fuori e al di là della famiglia; ogni luogo in cui vi sia attaccamento e relazione può diventare un luogo di attaccamento, di apprendimento di regolazione affettiva e di crescita e autostima, incluse la scuola, i centri sportivi e altri luoghi di aggregazione sociale, ovviamente, a patto che vi si pratichino cura, attenzione alla relazione e alla crescita dell’altro, con sensibilità. La psicoanalisi per tanto tempo ha solo accettato e compreso l’inconscio alla maniera di Freud, come inconscio rimosso, mentre oggi vi è una considerazione più ampia dell’inconscio, ampiamente condivisa da neuroscienziati, studiosi dell’attaccamento e cognitivisti, tra gli altri, in cui si pensa all’inconscio come forme primarie di modulazione affettiva che possiamo sintetizzare come “inconscio non rimosso”, alla maniera di Mauro Mancia (Mancia 2006) o di Allan Schore (2019), che definiscono quelle forme primarie legate ai primissimi anni di vita (specie i primi due, tre anni) in cui si incidono nel cervello le forme relazionali dell’accudimento. Queste imprimono all’essere umano in formazione un condizionamento neurobiopsicologico di cui non siamo consapevoli, e di cui non serbiamo memoria esplicita, ma ne subiamo le conseguenze, e influisce sui comportamenti, sulle scelte, sulle reazioni sociali e interpersonali; sono forme di apprendimento epigenetico cioè appunto formate dalle prime relazioni ambientali, che predispongono a quelle matrici inconsce cioè inconsapevoli di relazione interpersonale e di regolazione affettiva che Bowlby chiamava Modelli Operativi Interni e io propongo di chiamare modelli operativi “impliciti” (cioè legati alla memoria implicita, di base amigdala, nel sistema limbico, la parte più emotiva di elaborazione delle memorie primarie, quella che non usa parole e viene sentita solo nel corpo). La memoria implicita infatti contiene le nostre memorie dei primi anni di vita, a matrice relazionale, ed è legata alle esperienze reali di accudimento (non solo legate alle rappresentazioni successive che avremo di quelle relazioni), i cui problemi affiorano chiaramente nella patologia e nei sintomi. Queste esperienze primarie positive o negative predispongono ad atteggiamenti cognitivi, affettivi, emozionali e comportamentali regolati appunto in modo non consapevole, ma non nel senso del rimosso freudiano, ma nel senso di impressioni e forme di percezione primitive che rimangono attive nel sistema del corpo e nelle memorie somatiche e sono facilmente rievocate da stimoli ambientali sotto soglia. Queste forme primitive regolano gusti, visioni sensazioni risposte somatiche ed emozionali autonome che condizionano la vita dei soggetti. E queste forme implicite sono preposte alla futura capacità di regolazione e adattamento più o meno funzionale/disfunzionale, per cui nel caso della esposizione a traumi futuri (sia da mano umana che da catastrofe naturale) si avrà una migliore o peggiore capacità di risposta, resistenza, in una parola, RESILIENZA.
-Molto chiaro e anche affascinante, ma da dove iniziare?
-Non sono meccanismi magici ma molto concreti: alla base della resilienza, dice il neuroscienzato Jaak Panksepp, ci sono fiducia e speranza; e la fiducia e la speranza, sottolineerei, si formano non solo geneticamente, perché “siamo nati cosi”, ma perché il corpo-mente e quindi il nostro comportamento successivo ha sperimentato emozioni e relazioni positive, per cui “ricorda” le risposte di funzionamento precedenti, con le emozioni positive (o negative) ad esso legate. Rispetto a situazioni estreme, un corpo-mente sicuro risponde senza eccessivo stress, ansia e attivazione di sistemi di controllo influenzando quindi in positivo una risposta che riduca il miglior funzionamento in senso salvifico e positivo, evitando che il sistema si blocchi, si paralizzi o tutto il sistema venga invaso da cortisolo e stress continuativo in eccesso. Ancora peggio, un sistema già dissociato, con parti scisse, che non coordina in senso integrativo, con poco esame di realtà, o perfino con distruttività continuata e cronica, non attiverà risposte di recupero, fuga, attivazione di vie di fuga intelligente: e quando il momento traumatico sarà passato, sarà più incline a forme di rielaborazione costanti e ripetizione continue del meccanismo traumatico, con riattivazioni del trauma, per cui avrà più difficoltà a riprendere la vita, restando troppo a lungo in una forma fisica e mentale di disagio, di vittimismo, o anche di aggressività, rivalsa e violenza, che non solo non fanno bene alla società ma non fanno bene neanche al corpo stesso del soggetto, che con condizioni continuative di stress nell’organismo si ammala e alla lunga è disfunzionale.
Le generazioni traumatiche della Shoah (che si studiano di più di altre forme di traumi estremi collettivi perché permettono lo studio di tre o quattro generazioni rispetto a traumi massicci collettivi da mano umana) mostrano bene come la prima generazione si ammali soprattutto di depressione, disturbi psicosomatici, dolori articolari e muscolo-scheletrici, ansia e insonnia, mentre la seconda cerca forme di riparazione per sè e per la prima, spesso diventando medico, psicologo, infermiere o insomma occupandosi del male degli altri, e la terza è quella che porta il conto (se non è riparato prima) ed è più facilmente quella che eredita affettivamente il carico intergenerazionale, anche livello immunologico e neuropsicologico. Anche su questo esistono migliaia di studi, in parte da me indicati, sulla neurobiologia delle generazioni successive a quelle vittime di traumi, specie appunto vittime di traumi da mano umana, dall’abuso alla violenza, alla guerra, allo sterminio. La riparazione che possiamo mettere in atto verso queste generazioni traumatiche è in realtà la chiave della capacità di risposta e di riparazione attiva che chiamiamo resilienza, la capacità di reagire meglio a traumi a cui siamo esposti.
-Nel suo circostanziato volume, a fronte di un’esistenza soggetta ed esposta a traumi anche gravi, lei oppone la capacità tutta umana di andare oltre e di adattarsi a esperienze anche estreme. È un messaggio in apparenza positivo, ma si stratta solo di adattamento o ci conduce oltre?
-Devo dire oggi sempre di più esistono studi che più che analizzare la risposta traumatica in negativo (quindi stress, malattie, traumi psicologici, disturbi vari psichici e mentali di derivazione traumatica) sottolineano e studiano la resilienza dei soggetti che fronteggiamo traumi gravi. Ovvero è diventato quasi un po’ di moda, dopo tutta la massa di studi sui traumi e quanto il trauma relazionale influisca negativamente sulla saluta, sulla collettività, ecc., andare a indagare appunto le risposte “resilienti”, forse anche per una forma di…protezione rispetto a un certo catastrofismo generale che parla in continuazione di distruzione planetaria, di catastrofe naturale e climatica, di guerre ed efferatezze le cui conseguenze saranno difficili da lavare negli anni, e molte generazioni ne porteranno il peso. A maggior ragione quindi si sente il bisogno di evidenziare le situazioni quasi poco comprensibili di straordinarie risposte resilienti a situazioni estreme: appunto, il bambino maltrattato e abusato o abbandonato che diventa uno scrittore o un musicista o un pittore di straordinarie qualità; il sopravvissuto all’Olocausto che non solo non rifiuta di risposarsi e creare una nuova famiglia (come è successo a molti) ma impiega tutte le sue risorse anche fisiche alla rinascita, alla crescita della attività lavorativa e personale; oppure si tratta di individui particolarmente intelligenti e dotati. Tutto questo è vero ed è possibile, e mostra non solo una capacità di adattamento straordinaria (dovuta a risorse precedenti, ad attaccamenti sicuri, modalità regolatorie ereditate emotivamente e neurobiologicamente), ma è vero che le elaborazioni traumatiche possono portare a costruire nuovi sistemi di senso, di significato, di spiritualità e comprensione del destino umano.
-Ci aiuti a capire meglio…
-Non lo dico solo nel senso masochistico del termine ma nel senso appunto di elaborare la perdita, la morte, la distruzione che si è provati per fare una modalità di espressione di sé, del pensiero, di spiegazione del senso della vita a disposizione degli altri, una missione per gli altri e quindi anche una forma ablativa e altruistico-sociale, un modo per contribuire socialmente e relazionalmente al funzionamento della società, come molte vite con un passato traumatico mostrano quando fanno del proprio lavoro una missione sociale. La profondità della elaborazione traumatica, quando non è stata totalmente devastante, ha spesso creato arte, musica, poesia, pensiero, sistemi di aiuto nella società, capacità di ridistribuire il senso ritrovato attraverso l’attività per gli altri, come credo molti psicoanalisti o psicologi o medici facciano: e lo stesso principio di elaborazione del trauma (inconsapevole, ma grazie a buone esperienze successive, e ritrovamento di forme di speranza e amore) aiuta ad elaborare successivamente le proprie esperienze traumatiche e ne fa una ricchezza individuale e sociale. In generale non so se sia un messaggio positivo, ma è incredibile quanto amore, quanta bellezza, quanta ricchezza sia stata creata dagli esseri umani proprio grazie a quello che io chiamo “al di là” del trauma con forme sociali di contributo alla vita, alla salvezza, all’arte che continuamente vengono rivelate nelle vite di persone che hanno aiutato gli altri, scoperto qualcosa, trovato soluzioni a problemi e inventato qualcosa di simbolicamente straordinario e unico, come fosse un tratto tipico della nostra umanità superiore (cioè tipiche del nostro sviluppo delle zone superiori del cervello, solo umane). Questo non è un invito alla traumatizzazione, ma anzi al trattare con cura e con speranza e fiducia qualunque situazione sia stata traumatica, occupandocene prima possibile e diventando “testimoni” e interpreti della sofferenza attorno a noi (quello che io chiamo formare una “comunità di testimonianza”. E’ per questo che la riparazione che indico, perché si vada al di là del trauma, è nell’incontro terapeutico con un altro che faccia da testimone, fisico, corporeo, mentale, spirituale, della vicenda traumatica che ci è capitata, e consiste in questa rinascita di un io-tu in cui la verità viene ricostruita e accettata (perché spesso il trauma da mano umana è difficile da ricordare, proprio perché distrugge la nostra capacità di memoria in quanto troppo atroce per conservare la nostra umanità, motivo per cui spesso non si ricorda o si dissocia o si nega, non è accaduto a me (ma a una parte di me), “non è vero”, non è successo, non sono sicuro.
Da questo primo anello di verità umana e relazionale, da questo io-tu rinasce un noi (funzione sociale della mente per cui siamo stati predisposti, questo sì, evoluzionisticamente e geneticamente, a patto che siano le giuste condizioni di crescita), una capacità di rinnovato incontro, aiuto e fiducia verso l’altro, la vita, l’esistenza, quando si era persa la speranza e la voglia di vivere. Non dobbiamo dimenticare che il trauma estremo, il male estremo, spesso porta al suicidio, cosa di cui ci si occupa fino a un certo punto, e che viene un po’ eclissata dietro la sua enigmaticità e misteriosità soggettiva. Del suicidio spesso sappiamo poco o nulla, perché nessuno è riuscito ad entrare nelle zone altamente traumatiche o di azzeramento dell’esistenza che in quell’individuo hanno ucciso la vita, la fiducia e la speranza.
-Parliamo ora di trauma attraverso le dinamiche intergenerazionali. Lei sostiene che l’attaccamento sicuro del bambino (almeno tra uno dei genitori e il bambino) funziona da protezione rispetto a traumi futuri. Questo responsabilizza molto chi si trova a sostenere il ruolo genitoriale. Come poter favorire questo attaccamento virtuoso nella relazione tra madre, padre e bambino?
-Come abbiamo detto, un genitore sicuro con il bambino lo ascolta, lo guida con sensibilità e consapevolezza, non lo spaventa, non ne è spaventato, né è eccessivamente preoccupato e agitato. Come sostengono Main e Hesse (1990), il bambino spaventato da un genitore, ha un genitore a sua volta spaventato da quel bambino, dalle sue emozioni forti, dalla sua rabbia, dalle sue reazioni impulsive incontrollate, da momenti di rifiuto, e risponde con ansia e aggressività a queste sollecitazioni forti, che non sa come calmare, perché nessuno ha calmato a suo tempo le sue ed è oggi pieno di ansia, rabbia, violenza, aggressività, insicurezza. La regolazione affettiva e l’attaccamento sicuro per poterle comunicare al bambino dobbiamo averle a nostra volta interiorizzate; quindi è vero, è una grande responsabilità avere un bambino piccolo, per questo occorrono almeno due caregiver disponibili e attenti; e per questo sarebbe bene che laddove la madre (in primis) ma anche il padre o l’altro genitore provenissero da lutti, storie traumatiche, violenze, carenze, o anche da genitori che sono stati narcisisticamente presenti (o economicamente presenti) ma non emotivamente presenti, quindi chiedono al figlio di rispecchiare i loro bisogni più che i bisogni del bambino), quando comincia a esserci una consapevolezza di questo sarebbe bene iniziare a fare una breve terapia per esprimere ansie, paure, fantasmi, angosce, prima possibile. Ci sono donne incinte che non vogliono parlare del bambino per scaramanzia prima che nasca, perché hanno una forma di pensiero magico persecutorio per cui devono proteggere questo nascituro da eventi esterni negativi incontrollabili; si cominciano ad elaborare le paure, le fantasie, le ossessioni, i timori anche riguardo al proprio corpo, al ruolo genitoriale, alla capacità di farcela o non farcela (ad essere buoni genitori) o iniziare appena possibile un lavoro di consapevolezza sullo spostamento dell’attenzione dal bambino immaginato o temuto o fantasticato al bambino reale con i suoi attuali bisogni, sarebbe necessario, intervenendo prima possibile proprio per l’importanza dell’agire tempestivamente nei momenti critici di formazione (perfino del feto) che sono i più delicati. Mi viene detto che ci sono madri che lasciano il proprio bambino davanti al televisore sette ore al giorno. Iniziare un discorso sui bisogni affettivi ed emotivi di questo bambino e sulle necessità e sulla assenza affettiva della madre (che magari soffre a sua volta dell’assenza di un altro significativo nella sua vita e si è formata nella solitudine e nella anaffettività), sarebbe il primo punto di partenza. Oppure donne incinte che si sentono “grasse” e che vedono la loro figura deformata dalla gravidanza con grave rifiuto della forma fisica in gravidanza, andrebbero aiutate a vedere che cosa temono o quali aspettative hanno. Ci sono giovani donne che pensano di poter avere un figlio senza cambiare in nessun modo, né il loro ciclo del sonno, né lo stile di vita, né la loro disponibilità al lavoro e non vedono l’ora una volta liberatesi dalla gravidanza, di tornare al computer e alla loro vita.
-Si tratta, se ho ben compreso, di arrivare a dei compromessi?
-Per carità non stiamo dicendo che la madre da sola deve passivamente e vittimisticamente annullarsi come veniva detto implicitamente o esplicitamente alle nostre nonne, ma una realistica presa di visione dei bisogni di un essere piccolo in formazione è necessaria. Come è necessario ricordarsi che il bambino è il mammifero che ha più bisogno di aiuto per la formazione del suo sistema nervoso e del suo cervello; un cavallino si mette in piedi quasi subito appena nato, all’essere umano serve un anno circa, e almeno due per parlare. Direi che chi si preoccupa troppo della responsabilità di essere genitore è perché ha un autentico senso della responsabilità umana della crescita del soggetto e di quanto questo dipenda da un altro soggetto per molti anni. “Il se nasce dall’altro”, io dico sempre: nessuno si forma e cresce e diventa quello per cui è predisposto senza l’aiuto di un altro umano, (anche non il proprio genitore biologico purché sia disponibile, prodigo di cure e attento). Mentre chi non si preoccupa, forse, farebbe meglio a preoccuparsi della responsabilità che la creazione di un’altra vita umana porta con sè. Non credo sia esagerato. Penso che oggi, se pensiamo alla massa dei ragazzi adolescenti che hanno bisogno di aiuto, e sono paurosamente distruttivi, dovremmo pensare alla massa di genitori che sono a loro volta assenti, dissociati, alessitimici, disregolati, traumatizzati, in preda a dipendenze, (alimentari, droghe, alcol o altre sostanze inclusa la dipendenza da internet) oppure sono depressi e suicidari in una società sempre più sconnessa, alienata rispetto ai valori umani e sociali.
– Allora chi deve farsene carico?
-La cura della società è la prima responsabilità, se vogliamo figli, generazioni future e noi stessi resilienti. E la terapia a volte deve intervenire. Oggi la prima causa di morte degli adolescenti è o il suicidio o il disturbo alimentare, insieme ad incidenti, che spesso sono suicidi mancati. Forse fermarsi un attimo a riflettere sul dove sta andando una società che è sempre di corsa, compulsiva, ossessiva, disattenta, mancante di valori e di senso del significato profondo dell’esistenza, disconnessa anche magari perché la principale connessione che ha non è neanche più con un famigliare o vicino di casa ma è con il proprio cellulare, con la rete e le relazioni virtuali. Negli Usa ci sono ragazzi che si riferiscono ad “amici” virtuali come fossero reali, cioè usano un “bot” come si dice in gergo, diminutivo di robot per definire la loro relazione principale con un altro, con cui per definizione non c’è scambio relazionale corporeo vero, affettivo, empatico, io per l’altro. Il nostro cervello ha bisogno di sguardo, cura e relazioni corporee reali per crescere e per funzionare al meglio.
Per questo, le pratiche che promuovono resilienza a mio parere sono attaccamento e cura dei piccoli, riparazione traumatica, quando necessario, per risanare la catena di violenze intergenerazionali e sociali, testimonianza come pratica nella società e nella terapia per la ricostruzione della verità che evidentemente è stata rimossa o dissociata, e connectedness, termine che usavo già in “Trauma e perdono” per definire le relazioni fondamentali che permettono la vita, la crescita e l’umano in genere. Solo gli esseri umani hanno aree frontali sviluppate che portano a controllo sano, a regolazione degli impulsi, a etica, considerazione dell’altro, empatia, spiritualità e creatività superiori, ma perché queste zone alte del cervello si attivino c’è bisogno di una crescita psicologica e affettiva sana, regolata relazionalmente, con tocco, sguardo, tenerezza, cura, attenzione e sensibilità e presenza continuativa vera, affidabile, non virtuale, non un schermo del cellulare o del computer. Le nostre generazioni stanno perdendo l’uso delle aree frontali, diceva Panksepp già dagli anni ‘90, con mancanza di connessione tra le zone limbiche iperattivate e il controllo delle aree superiori, di controllo, con iperstimolazione da strumenti elettronici e anche da diete non adatte (spesso ipercaloriche e ricche di zuccheri, ma senza vero apporto nutritivo) che non viene placata da riflessione, sviluppo di pensiero metaforico, simbolico, volto a considerare empaticamente la presenza e i diritti dell’altro, quindi dell’etica. Molto pericoloso direi. Quindi, sarebbe bene che la società, tutte le società, si facessero un esame di coscienza rispetto agli obiettivi umani da raggiungere, e quanto “umani” e sostenibili questi obiettivi siano, incluso la cura dell’ambiente senza la quale non possiamo vivere.
-Per converso, lei ci mette in guardia dal fatto che la disregolazione affettiva, l’impulsività e la distruttività comportano conseguenze per tutto il resto della vita. Quali e quanti sono gli strumenti a disposizione del terapeuta?
-La terapia che io propongo (come ho indicato attraverso l’esame di vari casi condotti dalla diagnosi alla fine della terapia in “Corpi Borderline” e come ho ulteriormente analizzato in “Riparare il futuro”, per persone con attaccamento insicuro o disorganizzato, di tutte le età, è una terapia che chiamo “testimonianza incarnata” (o embodied witnessing) per curare la disregolazione affettiva ed eventuali formazioni distruttive (come autolesionismi e suicidalità), comportamenti compulsivi (cibo, alcol, sesso, internet) con attacchi al proprio sé sia psicologico e relazionale che corporeo di base psicodinamica e con alcuni fondamenti essenziali psicoanalitici ma integrata con principi di neuroscienze dello sviluppo e attaccamento. Lo scopo di questa terapia vis-à-vis (perché online si perdono molte delle fondamentali potenzialità di regolazione affettiva basate sul corpo, il non verbale, lo sguardo e tutti gli elementi della presenza) è restaurare la possibilità di autoregolazione di cui tutti siamo capaci dopo aver avuto accesso a zone disregolate o dissociate della mente e aver elaborato quelle. E’ una terapia in cui il corpo-mente-cervello del terapeuta è attivamente impegnato si a livello implicito, di emisfero destro (zone limbiche, in-consce, non verbali) che esplicito, cioè conscio, delle zone superiori del cervello, e sia a livello di emisfero sinistro (intenzionali, settoriali, più “razionali”), sempre tenendo conto che destro e sinistro collaborano attivamente insieme se il funzionamento è buono. Come dice Schore, si lavora con maggiore energia nei momenti di disregolazione, nelle finestre dissociate o disregolate, permettendo la rielaborazione e la regolazione di queste zone disregolate della mente che rendono distruttivi i comportamenti e favoriscono il prevalere delle emozioni negative, che sono in pratica una riedizione del traumatico che viene ri-presentata per una nuova elaborazione affettiva, relazionale, a due, dentro la terapia e il nuovo legame che in qualche modo si forma: è solo nella regolazione affettiva a due che viene ripristinata una modalità di cura, una armonia delle parti interne, che permette di abbandonare via via quel passato non più funzionale ma non agendo solo con “controllo” e “comandi” su cosa fare e quando, ma proprio elaborando e comprendono l’origine di quelle parti distruttive e di quella impulsività, la mancanza di controllo, la distruttività con cui però i soggetti si identificano; nei casi più gravi, borderline, come ho spiegato, sono identificazioni con un aggressore interno che è diretto contro le parti del sé ormai identificate con la vittima, quella che è stata passivamente asservita e ha subito la violenza. Rompere questa diade interna vittima-persecutore che è la base della violenza su di sé o sugli altri e del ciclo dell’abuso è la prima responsabilità del terapeuta nel caso di pazienti che presentano trauma da mano umana, una “testimonianza” che non è solo a parole ed astratta filosofia ma diventa concreta interazione e attiva regolazione che si fa per l’altro; da questa diade regolata si può formare una nuova consapevolezza, con vissuti meno distruttivi e forme nuove di responsabilità e capacità sociale di “essere” per il soggetto, che permettono la formazione di una diversa immagine del sé-altro internalizzati, con modalità di agire di questo io-tu che porti a un nuovo noi, per la sopravvivenza dell’umano.
Clara Mucci
Riparare il futuro
Come creare resilienza tra le generazioni
Cortina Editore, 2024