EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

La sinfonia incantatrice della scena. Intervista a Antonio Attisani

di Federica Biolzi

Il teatro è da sempre parte dell’essere umano. Sin dall’antichità e nelle sue diverse forme, ha dato un senso alla nostra espressività, rappresentandoci nei diversi momenti storici. Nel libro La tenda, teatro e conoscenza, edito da Jaca Book, Percorsi Mechrì, Carlo Sini e Antonio Attisani s’interrogano sull’importanza di quest’arte, dove il professionista dovrebbe saper praticare ciò che unisce, ed al tempo stesso separa, il teatro dalla vita. Generare conoscenza mediante l’azione, creando una sintonia che Sini paragona  all’accordo di ognuno con se stesso, con gli altri, con la città. Per sfociare in un’idea condivisa di economia politica del sapere teatrale e  di una disciplina scientifica della felicità.

Il libro-dialogo con il professor Sini ci permette, in questo particolare momento, di fare alcune importanti riflessioni sul teatro. Lei conosce approfonditamente quest’arte nelle sue varie formulazioni e varietà, da anni ne percorre le tematiche e le contraddizioni. Perché oggi il teatro è ancora centrale e, oserei dire, indispensabile, per comprendere quello che ci circonda?

 –Il teatro è “ancora centrale e, oserei dire, indispensabile” per chi lo considera tale, ma la maggior parte degli esseri umani ignora questa idea. Carlo Sini è un filosofo atipico, assai più avanti, nel mondo intero, della stragrande maggioranza dei suoi colleghi: il suo pensiero non funziona come la meccanica classica né è semplicemente dialettico; a me sembra procedere come la fisica quantistica, soprattutto relativamente ai concetti di relazionalismo e indederminismo, o come suggerisce il monaco buddhista Nāgārjuna, che sostituisce l’identità e le cose con le “relazioni causali”. Quando l’ho conosciuto, circa vent’anni fa, Sini da una parte riteneva, in coerenza con la sua esperienza personale, che il teatro fosse – diciamolo sommariamente – la drammaturgia e la messinscena degli autori da parte dei registi, però al tempo stesso le cose che insegnava e scriveva sul corpo, sulla voce, sulla mousike e sull’insieme delle arti dinamiche riguardavano eccome il teatro e la sua funzione nel nostro mondo. Da allora ci siamo frequentati, siamo dialoganti e condividiamo un percorso laboratoriale di pensiero, naturalmente assieme a tutti coloro che partecipano ai lavori della nostra associazione, Mechrì. Il libro da cui stiamo prendendo spunto è il più recente frutto della nostra amicizia (sottolineo: amicizia, non complicità).

Ebbene, per noi, e pochi altri ovviamente, il teatro non è l’istituzione né l’avanguardia, non è l’illustrazione delle idee proprie o dell’autore ma una forma di vita, composizione più che il composto, tecnologia in costante cambiamento più che oggetto, strumento più che musica, “corpo insegnante” che interagisce con il corpo storico. Da ciò consegue che pensare al teatro come a qualcosa che consenta di “comprendere quello che ci circonda” suona per noi un po’ riduttivo. Il teatro è prima di tutto lavoro su se stessi e un lavoro su se stessi condiviso con il pubblico ha necessariamente a che fare, come dice Sini, con i nostri dintorni. Quindi aiuta anche a comprendere quello che ci circonda.

– Tra le varie visitazioni a cui fa cenno nel libro, vi è un’indicazione particolarmente interessante, quella del teatro come filosofia fisica. Ci può chiarire il significato e le implicazioni di questa filofisica in ambito teatrale?

–  È un’idea, questa, che ho proposto per la prima volta nel 1978, in un libro intitolato Teatro come differenza. Con il gergo di allora, segnalavo la differenza tra tutte le “intenzioni” che presiedono al teatro e ciò che manifesta in scena il “corpo in transito” dell’attore. Essendo stato attore professionista e poi operatore teatrale a vario titolo, prima di passare all’insegnamento, ho dedicato a questo tema molto tempo. Per sintetizzare il cambio di passo che da sempre propongo, possiamo rifarci anche al punto di partenza enunciato con precisione da Jean-Luc Nancy: «Non bisognerebbe dire pertanto che il culto precede il teatro e lo genera, bensì che il corpo-teatro precede tutti i culti e tutte le scene. La teatralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione» (J.-L. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010, p. 36).

Naturalmente, specie dopo l’incontro con Carlo Sini e Florinda Cambria, la riflessione si è sviluppata in diverse direzioni. Oggi potremmo dire in sintesi che il teatro è il modo più compiuto di fare la conoscenza invece di limitarsi a dirla. Naturalmente per realizzare questo obiettivo bisogna liberarsi della zavorra di tanti luoghi comuni, anzitutto dell’idea che il teatro coincida con le sue attuali forme istituzionali. Queste sono soltanto una delle sue manifestazioni storiche, dominate dal dire, dalla prescrizione ideologica, che considerano la scena un luogo delle idee illustrate ecc. La convinzione che la conoscenza sia un fenomeno fisico è molto antica. Confucio diceva: «Mai dare una spada a chi non sa danzare». La filofisica non è un’invenzione mia o di Sini, è soltanto un modo di riconoscere un bisogno, magari un bisogno non saputo ma a nostro avviso attuale e universale.

Quello dell’attore è un mestiere particolare. L’impersonificazione, l’interpretazione di più ruoli, o come dir si voglia, è da sempre considerata un’attività in un certo senso sovversiva, spesso tollerata o repressa apertamente dai vari poteri. Cosa c’è in questo particolare rapporto tra teatro, rappresentazione, produzione di conoscenza e potere?

 –Tutto ciò rimanda alla questione imperativa del trans delle discipline. Se  accettiamo l’idea che non si può essere attori senza essere poeti, dovremmo anche ammettere che uno studioso incapace di “attualizzare” è soltanto un chiosatore e un indegno percettore di salario. Il fatto di esprimersi sulla pagina o in un’aula universitaria non è un limite, perché anche la professionalità dello studioso dovrebbe consistere nella capacità di proiettare la conoscenza di sé, la psicomachia, nel socio-dramma degli ‘spettatori’, laddove ciò che importa non è la Verità ma la sincerità, anzi la crudeltà che rende d’interesse pubblico le vicende reali e immaginarie di un individuo. Il teatro è quindi, come ogni lavoro, un’attività contro natura, o, se vogliamo dirlo in modo più rassicurante, ha innanzitutto lo scopo del superamento degli automatismi.

– Nel titolo del libro vi è un richiamo alla tenda. Essa ha sempre un significato molto importante in ambito teatrale ma anche, per la nostra cultura, in ambito religioso. La rimozione della separazione del sancta sanctorum è una degli obiettivi del cristianesimo come, l’abbattimento della quarta parete è uno delle felici intuizioni pirandelliane. Quali sono le implicazioni di questo disvelamento?

–  La quarta parete del nobilissimo teatro naturalistico borghese! Nel Novecento era una convenzione da superare, ma nei teatri popolari di tutto il mondo non è mai esistita, mentre è sempre esistita la tenda o qualche altro segno di frontiera tra  il teatro e la vita quotidiana. L’apertura-chiusura è la fisicità della ri-velazione, di quella percezione intensificata, di quel tempo concentrato che si crea in scena: l’evento teatrale è fitto di tuoni e fulmini dietro i quali, per un istante, si intravede ciò che è impercettibile nella modalità quotidiana, ciò che la muove e ne costituisce l’essenza. Dunque se la quarta parete non c’è più, questa soglia tra la vita feriale e il luogo del rito, dell’azione precisa e trasformante sarà sempre la designazione del teatro. In italiano ha il nome bellissimo di boccascena. Tutto, passando da quella bocca artificiale, da dentro a fuori e da fuori a dentro, si trasforma e trasforma.

Ancora una domanda che avevo in mente dall’inizio di questo prezioso dialogo. Mia figlia è un’adolescente, quali sono le cose che dovrei dirle per farle comprendere l’importanza di andare e di fare teatro? 

–   Domanda difficilissima, questa, che richiede molte risposte, tutte collegate ai temi che abbiamo sfiorato sinora. Quando uno studente mi chiedeva come si impara a fare teatro gli rispondevo di lasciar perdere le scuole e passare qualche anno a fianco di un artista che ammirava. In classe, invece, raccontavo a tutti come Carmelo Bene dicesse che per fare l’attore devi essere bello, sano, ricco e già bravo, e poi cercavamo di capire il senso profondo di questa geniale provocazione. Qui ho accennato al fatto che l’educazione teatrale dovrebbe riguardare tutti e dall’infanzia. Sono idee molto lontane da quelle correnti. Che dire allora ad un giovanissimo? Che sarebbe molto interessante per lei o lui mettersi alla prova, approfittando di ciò che talvolta offre l’istituzione scolastica oppure cercando una scuola di teatro. È vero che molte di queste non si segnalano per l’alta qualità, ma ho constatato che spesso si impara qualcosa anche malgrado la qualità degli insegnanti, che sono soltanto uno degli elementi costitutivi dell’insegnamento.

In generale, si dovrebbe cominciare con il rendersi conto che la disciplina teatrale non segna soltanto la strada per diventare attori professionisti ma è indispensabile per diventare cittadini creativi, “compositori transdisciplinari”, come abbiamo detto, e quindi riflettere sul perché e sul come il teatro dovrebbe essere al centro del processo educativo, oppure su come il suo compimento, secondo Aristotele, sia un piacere-sapere che va dal godimento alla felicità, oppure ancora, se vogliamo, su quanto diceva Bertolt Brecht, ovvero che «tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte: quella di vivere». E infine, magari, tornare al libretto da cui siamo partiti, nel quale una coscienza nuova spinge Sini a ricordarci che “l’arte dinamica compie ‘incantamenti’ e da questo incantesimo della musica nasce la sinfonia (altra paroletta straordinaria, nel suo senso originario), cioè ‘l’accordo di ognuno con se stesso, con gli altri, con la città’”.[1] Da questo sentimento potrebbe scaturire un’idea condivisa di economia politica del sapere teatrale e persino di una disciplina scientifica della felicità.

 

 

[1] C. Sini in La tenda cit., p. 87.

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Carlo Sini, Antonio Attisani

La tenda Teatro e conoscenza

Jaca Book – Percorsi Mechrì, 2021

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