EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

La solitudine di Guido

di Silvia Dai Pra’

“Un bellissimo giovane” dai “denti bianchi e perfetti”, vestito “con un’eleganza ricercata”, che teneva “nella destra inguantata un bastone dal manico d’avorio lunghissimo”: Guido Speier ci si presenta così, interrompendo uno dei tanti tentativi di Zeno di dichiararsi ad Ada, nel bel mezzo del capitolo di La coscienza in cui la voce narrante ripercorre la storia del suo matrimonio. 

Guido dimostra subito di possedere ciò di cui, invece, Zeno scarseggia: i capelli, in Guido folti e ricciuti, in Zeno già radi; la lingua, perché “parlava il toscano con grande naturalezza, mentre io e Ada eravamo condannati al nostro dialettaccio”. Ma sarà nel corso della prima visita del nuovo arrivato a casa Malfenti che capiremo che le qualità di Guido non sono finite: è un eccellente violinista, è benestante, è talmente disinvolto da non offendersi per le critiche gratuite che Zeno muove alla sua esibizione musicale. E, soprattutto, Ada stravede per lui. 

Fin dall’ingresso di Guido in scena, il lettore, che già ha avuto ampiamente modo di intuire quanto poco Ada sia attratta da Zeno, vorrebbe gridare al nostro eroe di smetterla, di non rendersi ulteriormente ridicolo: perché, se non era stato capace di ritirarsi di fronte allo scarso interesse di Ada, adesso non può certo mettersi a competere con l’uomo ideale.

Del resto, se lo dirà pure lui: “non sapevo forse ch’ella avrebbe sposato un uomo dopo di averlo vagliato e pesato come se si fosse trattato di concedergli un’onorificenza accademica?” 

E Guido, di fronte a una commissione d’esame, prenderebbe di certo la lode.

Alfonso, Emilio, Zeno – i tre protagonisti dei romanzi sveviani – puntualmente desiderano qualcosa che non riescono a meritarsi: successo letterario, ragazze indifferenti al loro fascino, un talento musicale – e, qualora il destino decida di accontentarli, come accade ad Alfonso quando conquista Annetta, fuggono, perché il mondo dei vincenti non fa per loro, perché sono malati di insoddisfazione, perché sono, per citare un termine da sempre accostato a Svevo, inetti.

L’inetto è colui che non sa raggiungere i propri scopi, è quello che manca l’obiettivo, che spara a lato del bersaglio: se dovessi citare uno dei momenti a me più cari della narrativa sveviana, penserei al corteggiamento di Zeno ad Ada, quando lui tenta di conquistare con battutine e scherzi la ragazza seria, severa, “incapace di amare colui che l’aveva fatta ridere”.

Ma è proprio nel corso della Coscienza che arriva il ribaltamento: la lunga esperienza di vita di Svevo, la sua frequentazione quotidiana col fallimento, col piano B, forse gli hanno suggerito che in realtà le vere figure tragiche non sono gli inetti. Le figure tragiche della Coscienza sono coloro che prendono sul serio la propria perfezione, sono i vincenti, sono la coppia ideale: sono Ada e Guido.

Non c’è dubbio, infatti, che l’infelicità li attenda: aspetta Ada, in primis, perché il perfetto Guido in realtà è un misogino. Non saprà mai starle accanto nei momenti di difficoltà; avrà un’amante, proprio come Zeno, ma, a differenza sua, sarà impermeabile ai sensi di colpa. Continuerà a tenersi Carmen in ufficio, indifferente alle proteste della moglie: e, quando Ada sarà costretta ad andare a Bologna per curarsi, proporrà addirittura che sia Carmen ad occuparsi dei bambini. 

Povera Ada, pensiamo noi lettori, sposata a un individuo che pareva perfetto, e invece si rivela un tipo a noi molto contemporaneo: un narciso tanto affascinante quanto vuoto, un padre che destina un’intera famiglia alla rovina solo per non ammettere di avere sbagliato, un ragazzino che si ostina a “sognare in luogo ove non c’è posto a sogni: la partita doppia!”, un irresponsabile che “rovinava tutti attorno a sé e sorrideva”.

Difficile provare la minima simpatia per un personaggio del genere: eppure, La coscienza di Zeno riesce a farci provare anche questo – un po’ di pietà per questo povero narciso.

Perché Guido era molto amato, ma in realtà gli stessi che lo amavano l’avrebbero visto morto volentieri, almeno a livello inconscio – ma le concatenazioni che portano alla sua morte ci rendono chiaro quanto l’inconscio tiri i fili delle nostre vite. Prima Zeno, senza allarmarsi, gli consiglia il veronal al sodio; poi Ada, quando lui le comunica di avere preso del veronal, aspetta un’ora prima di chiamare il medico, certa com’è che questa sia solo l’ennesima sceneggiata; il caso poi rovescia un temporale su Trieste, la fantesca perde il biglietto che Ada le aveva chiesto di portare al dottore, il medico arriva senza strumenti per fare una lavanda gastrica, Ada, come prima cosa, lo informa che il marito non è nuovo a queste simulazioni.

Col medico che esclama che non dovrebbe essere permesso tentare il suicidio con un tale tempaccio abbiamo il quadro completo: della morte di Guido non importa a nessuno.

Zeno, adesso, può salvare il patrimonio di Ada, dimostrando un’abilità negli affari che nessuno mai gli ha riconosciuto; Ada può proteggere il patrimonio dei suoi figli, che il padre avrebbe certamente rovinato. 

Povero Guido, ci viene da pensare: che voleva manipolare gli altri, senza rendersi conto che l’inconscio è difficile da imbrogliare. Come poteva sapere, lui, il più amato di tutti, che le persone che gli volevano bene, in realtà lo volevano vedere morto?

Con questo ribaltamento, Svevo ci regala il punto più alto della sua narrativa e della sua lunga esperienza di vita: cresciuto com’era in un mondo intriso di positivismo, in un mondo fatto di gente che vince o perde nella lotta, lui ha ormai capito che non vince mai nessuno, in questa vita che non è né bella né brutta, è soltanto originale. 

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