EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

La solitudine di un digiunatore

di Gianfranco Pecchinenda

La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine che è la mia debolezza (Pier Paolo Pasolini)
Ma senti un po’, disse il custode, perché non ne puoi fare a meno?
Perché io, disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come
per un bacio proprio all’orecchio del custode, non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse (Un digiunatore, Franz Kafka)

 

Il corpo del digiunatore: Husserl e Kafka

Gli esseri umani sono gli organismi il cui comportamento istintuale è maggiormente soggetto all’influenza dell’ambiente circostante. Uno dei grandi lasciti delle scienze sociali del diciannovesimo e del ventesimo secolo è stato probabilmente proprio quello di aver dimostrato che, per comprendere l’essere umano, la cultura è più determinante della biologia. E che anzi, a volerla dire tutta, è la natura stessa dell’umano a essere praticamente inscindibile dal suo carattere essenzialmente sociale.

Tuttavia ciò non significa che la biologia e l’ereditarietà dei caratteri debbano essere considerati ininfluenti: la dilagante diffusione delle neuroscienze legata ai progressi nelle tecnologie a supporto della ricerca sul cervello, hanno fornito l’impulso forse determinate affinché anche nelle scienze sociali si cominciasse a riproporre l’idea che lo studio del corpo (cervello compreso) umano (della sua biologia, ma anche della sua fisiologia) debba essere considerato imprescindibile per formulare ipotesi scientifiche sulla nascita e la diffusione di istituzioni, tecnologie, modelli culturali e, più in generale, dei comportamenti collettivi.

Il corpo, come ogni realtà umana, è però un oggetto di studio che resiste a definizioni troppo riduzionistiche, a meno di non voler cedere a semplificazioni talvolta banali. Per sfuggire a un tale pericolo, il metodo fenomenologico, arricchito da eventuali intuizioni artistiche, è in genere il miglior antidoto di cui le scienze umane e sociali sono riuscite a dotarsi.

Husserl sosteneva a tal proposito che c’è un corpo che noi utilizziamo, che noi muoviamo, che agisce nell’ambiente seguendo le nostre intenzioni, la nostra volontà; è un corpo che vive e che ci appartiene. È il nostro corpo.

C’è però al contempo anche un altro corpo, che non ci appartiene, quanto piuttosto noi apparteniamo a lui, ne dipendiamo, ne siamo oggetto: un corpo che segue intenzioni e volontà che noi ignoriamo, che ci si impongono: è un corpo che si ammala, che si consuma, che invecchia e che condiziona le nostre intenzioni allo stesso modo in cui lo condizionano gli altri organismi viventi e gli altri oggetti presenti nell’ambiente. Husserl definiva questi due corpi rispettivamente con i termini Leib e Korper.

Kafka è prima di tutto un grande artista e, in quanto tale, rivela spesso il suo genio attraverso la costruzione di storie in cui agiscono dei personaggi a loro volta geniali.

Il genio al quale intendo riferirmi in queste righe è un digiunatore, protagonista di un breve racconto omonimo dello scrittore praghese.

Il corpo del digiunatore, così come si manifesterà nel corso della narrazione, è un Korper che s’indebolisce, dimagrisce, si ammala e infine muore. Il suo Leib, tuttavia, non sembra necessariamente seguire gli stessi percorsi. Se accettassimo acriticamente la nostra tendenza a vedere nel Korper materiale un indicatore della realtà oggettiva, e nel Leib immateriale la realtà soggettiva, potremmo dire che in questo suo piccolo capolavoro Kafka riesce a mettere in evidenza tutta l’assurdità di una tale visione dicotomica della realtà. In tal modo rischieremmo però di fare un torto al creatore di questo suo straordinario personaggio, vero e proprio emblema della realtà kafkiana. D’altra parte, è innegabile che la capacità di separarsi, di estraniarsi, dalla cosiddetta realtà è ciò che costantemente caratterizza ogni vero artista, ogni autentico genio.

Eccessi di realtà

Prima di procedere vorrei però brevemente provare a definire cosa intendo per realtà kafkiana. Prendiamo tre individui che osservano un uomo rinchiuso in una gabbia: il signor x è un avvocato; il signor y è un medico; il signor z è un commerciante. Il primo vede nell’uomo ingabbiato un criminale, eventualmente da assistere giuridicamente, che sta scontando una pena; il secondo vede nello stesso uomo un essere dal fisico sofferente, eventualmente da assistere sanitariamente; il terzo vede nell’uomo in questione un potenziale cliente che potrebbe aver bisogno della sua merce e si interroga sul modo in cui potrebbe eventualmente vendergliela. Tutti loro, ovviamente, penseranno anche, più o meno distrattamente, che si tratta di una curiosa e preoccupante manifestazione di una pratica culturale quantomeno bizzarra o arretrata.

Ecco quindi tre uomini e tre realtà diverse (gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito), in cui le parole più oggettive quali uomo, gabbia, corpo, catene, punizione assumono per ognuno di loro connotazioni soggettive differenti. Le esigenze dell’esistenza soggettiva sono in genere così forti da ridurre la cosiddetta esistenza oggettiva a un guscio vuoto. L’unico modo per provare a dare un senso al concetto di realtà oggettiva, sarebbe a questo punto quello di mescolare quanti più mondi individuali possibili ed estrarne una goccia del prodotto da inserire nella nostra provetta da ricercatori.

In essa potremmo tuttavia avvertire una particella di follia, o di totale, stupenda assurdità, se un tizio, osservando quella stessa scena (o anche soltanto immaginandola), decidesse di scrivere un racconto proprio prendendo spunto da quell’esempio.

Ecco, direi che il contributo (enorme e insostituibile) di Kafka a ogni eventuale ricerca sull’esistenza umana è proprio di questo tipo: fornirci ciò che eccede dalla percezione ordinaria della realtà, fornendoci indicazioni per incamminarci negli assurdi e oscuri meandri che si celano al di là alle nostre più solide certezze.

La tana e la gabbia

In tal senso possiamo cominciare innanzitutto dicendo che il digiunatore – così come la talpa de La tana, o lo scarafaggio de La metamorfosi – è protagonista non tanto di una storia con un incipit e un epilogo, quanto di una raffinata descrizione dell’esistenza umana in cui viene appunto messa in luce tutta l’assurdità che si nasconde dietro agli enormi sforzi compiuti dagli esseri umani per realizzare un mondo razionale, ordinato e prevedibile.

Si tratta di sforzi, innanzitutto, che invece di regalare all’uomo la libertà e la sicurezza sperate, finiscono per costringerlo in una gabbia dalla quale egli stesso finirà per non desiderare più uscire.

Ma procediamo con ordine.

La frase che apre il testo è emblematica di un determinato sapore nostalgico con cui Kafka intende avvolgere la sua storia:

In questi ultimi decenni – egli scrive – l’interesse per i digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni digiuno aumentava l’interesse per il pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia…

C’era una volta, insomma. C’era stato un tempo in cui essere “un digiunatore”, significava ricoprire un ruolo sociale di una certa importanza.

A partire da questa prima riflessione, il nostro racconto può essere schematizzato facendo riferimento ad alcuni nuclei tematici.

Il ruolo del corpo

Kafka ci ricorda innanzitutto, laddove ce ne fosse bisogno, che gli esseri umani esistono solo se hanno un ruolo. Il che, in altri termini, significa avere una riconoscibilità sociale che costituisce gran parte (per non dire la totalità) della nostra vita quotidiana e del nostro destino. Già: parte del ruolo è anche il destino.

Il ruolo è una gabbia che però è anche una fonte di libertà: avere un ruolo significa fornire la propria vita di un significato socialmente accettato. Significa essere parte integrante di un tutto che ti comprende e ti integra in sé. Perdere il proprio ruolo, smarrirsi, può provocare una lacerazione a volte insanabile. La vita insegna che spesso può bastare un solo istante affinché si produca una frattura e niente sia più come prima.

E questo è quanto la prima parte (o quella che io considero la prima parte) del racconto, mette in scena:

Oltre al digiunatore, si presentano sul nostro palcoscenico[1] i guardiani della gabbia, gli spettatori consueti e mutevoli, rispetto ai quali il protagonista è sempre più insensibile con il passare del tempo. E c’è poi l’impresario, che ha imposto un limite massimo di quaranta giorni al digiuno che è possibile osservare. Tutti gli altri protagonisti, comunque, altro non sono se non la mediocrità che inconsapevolmente ruota intorno al nostro genio.

Ed è questo un altro dei temi-chiave di questa parte del racconto:

il digiunatore prova a ribellarsi, egli è sempre più insoddisfatto dei confini imposti alla sua libertà, ovvero del divieto di potersi fregiare della gloria di continuare a digiunare oltre i limiti che gli vengono dati: egli voleva diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi, ma superare se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate.

Tuttavia l’impresario lo obbligava a mangiare e allora… la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre.

La gabbia dell’abitudine

Poi le cose cambiano. Il ruolo del digiunatore perde, con il trascorrere del tempo e la consuetudinarietà, la sua rilevanza sociale. Il pubblico si abitua a tutto. Lo spettatore si annoia. Cosa doveva fare il digiunatore? … per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo.

Nell’ambito di questo suo nuovo mondo, però, la gabbia del digiunatore non sarà più collocata “nel mezzo della pista”, come un numero sensazionale, ma nei pressi delle stalle in cui vivevano gli altri animali, ai margini della realtà del circo stesso. In questo nuovo luogo gli spettatori avranno occasione di vedere il digiunatore solo nel corso delle pause tra uno spettacolo e l’altro, quando si affolleranno verso le stalle per osservare le bestie. In quelle occasioni era quasi inevitabile che il pubblico passasse davanti al digiunatore e si soffermasse davanti a lui.

Il digiunatore vivrà questa nuova situazione, questo suo rinnovato ruolo, con una certa perplessità. Ha la sensazione che il suo pubblico si divida in due gruppi, quello dei curiosi, che provano a soffermarsi davanti alla sua gabbia, e quello degli indifferenti, ovvero di coloro per i quali la sua gabbia rappresenta soltanto un ostacolo sulla via che conduce alle stalle dove poter osservare le altre bestie.

Estranei dentro

L’essere umano che sa, che è consapevole di essere anche un animale, dovrebbe sentirsi libero di poter manifestare i propri istinti, la propria libertà: anche quella di affrontare le conseguenze più estreme della sua libertà di scelta. Proprio come fa il digiunatore.

La società, d’altro canto, non può lasciarlo libero fino a quel punto, tanto che, di fronte ai ripetuti tentativi di ribellione del digiunatore, l’impresario fa ricorso a una punizione: …scusava il digiunatore di fronte al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente spiegabile a chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza. Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui.

Nessuno – sembra volerci suggerire Kafka – può sfuggire al proprio destino: solo restando rinchiuso nella propria cella il digiunatore è certo di poter manifestare la propria libertà. Nel momento in cui mettesse un piede fuori, rinunciando alle sue catene, si ritroverebbe costretto a sottomettersi alle regole imposte dal suo rappresentante istituzionale, dal garante dell’ordine sociale prestabilito. Il digiunatore è, insomma, paradossalmente libero di poter esercitare il proprio ruolo di recluso, una libertà che presuppone la piena consapevolezza di uno status che conduce all’obbedienza assoluta e all’annichilimento del proprio bagaglio istintuale. Si tratta di un privilegio riservato alla specie linguistica: una specie che parla, ma anche una specie che tace. Una specie che, oltre a ribellarsi come qualunque altro animale, sa imparare anche ad obbedire!

Dalla tana alla tomba

E giungiamo così alla terza parte del racconto.

Anche in qualità di semplice ostacolo al raggiungimento delle altre gabbie, la presenza del digiunatore diventa sempre più insignificante. Soprattutto – fa notare Kafka – egli diventa sempre più estraneo a quel mondo. Si provi a spiegare a qualcuno l’arte del digiuno! – esclama il narratore. Ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva… ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno si curava più di lui.

E qui, da par suo, il racconto sembra riportarci al tema iniziale:

Una volta perso un ruolo, diventa impossibile ritrovarlo. Si diventa dei reietti. Si precipita in una posizione di non-luogo, in una condizione di non-tempo. Pur continuando a vivere tra gli altri, ci si sente sprofondare da un’altra parte, ci si sente sfasati, desincronizzati. Estranei.

Mentre la condizione psicologica appare essere quella di una sospensione, ci si rende conto che il tempo cronologico è andato avanti e continua a procedere per la sua strada, portandosi con sé il tuo destino; ovvero le aspettative che gli altri, quelli che facevano parte del tuo mondo, condividevano con te. Come se qualcuno, qualcos’altro, indossasse il tuo ruolo disincarnato, e continuasse ad andarsene in giro compiendo quello che doveva essere il tuo destino.

E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che l’indifferenza e un’innata malignità avevano potuto inventare; poiché non era il digiunatore ad ingannare – egli lavorava onestamente – ma il mondo lo frodava del premio che si meritava.

A questo punto, non resta che l’inevitabile, triste epilogo:

Un giorno i custodi, mentre ripuliscono la gabbia, intravedono sotto la paglia il corpo quasi esanime del digiunatore. “Quando deciderai a smettere?” gli chiedono. “Perché sono costretto a digiunare” risponde il digiunatore; perché … non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri. “Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare”.

E ora fate ordine! – esclama infine il custode – e il digiunatore fu sotterrato insieme alla paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera.

La questione è dunque risolta!

Qualcuno, o qualcos’altro, indosserà d’ora in avanti il ruolo disincarnato del digiunatore e continuerà ad andarsene in giro, di gabbia in gabbia, appropriandosi di quello che fino a poco prima era stato il suo destino.

Nell’apparente confusione del nostro mondo misterioso, sembra volerci dire Kafka, gli individui si adattano così bene a un tale sistema, e i sistemi tra loro e all’insieme, che, facendosi da parte, una persona si espone al rischio terribile di perdere per sempre il proprio posto, per diventare qualcos’altro.

In questa situazione di spaesamento gli occhi, le orecchie, il naso… tutti i nostri organi di senso, insomma, cominciano a essere diretti sempre più verso l’interno. Si diventa sordi (e/o ciechi, muti, etc.) nei confronti del mondo esterno. Ci assale una tentazione di insensatezza. Il corpo si rivela estraneo. Un bisogno di vedere come sarebbe il mondo senza di noi. Capiamo quello che abbiamo sempre saputo e non abbiamo mai voluto vedere: l’assurda verità che non siamo necessari a nessuno. Proprio a nessuno!

La pantera assume finalmente il suo posto nel mondo: … quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via.

 

 

[1] Esiste una straordinaria versione teatrale tratta dal racconto kafkiano, messa in scena dal regista lituano Eimuntas Nekrošius.

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