EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

La svolta relazionale in Gregory Bateson

 

di Franco Giorgi

 

Introduzione

 

Nell’anno 1956 Gregory Bateson ed i colleghi di Palo Alto pubblicarono un lavoro su Behavioral Science (Bateson et al., 1956) in cui proponevano di interpretare la genesi della schizofrenia in termini relazionali. La tesi centrale del lavoro si fondava sul riconoscimento della discontinuità che talvolta si viene a creare in un processo di comunicazione. In tali circostanze uno dei due interlocutori può di fatto sperimentare l’incapacità di discriminare tra messaggi espressi secondo tipologie logiche diverse – di livello letterale e/o metaforico. Nell’impossibilità di risolvere la contraddizione, l’individuo è allora indotto a subire il conflitto in termini di doppio legame. Questo designa una situazione nella quale non è possibile per l’individuo chiedere di esplicitare la veridicità dell’uno o dell’altro dei due messaggi, né tanto meno di sottrarsi ai vincoli della stessa comunicazione. Per quanto situazioni del genere possano verificarsi nelle relazioni normali, nella persona schizofrenica i livelli di espressione metaforica e letterale sono di fatto confusi, per cui, in assenza di una loro potenziale distinzione, egli tenderà a difendersi in modo paranoico o catatonico. Nelle intenzioni degli autori l’analisi dei livelli logici attraverso cui si esplica la comunicazione e la concettualizzazione delle contraddizioni che la stessa comunicazione può generare doveva fornire una chiave interpretativa per giustificare e comprendere la genesi della schizofrenia. Tuttavia, negli anni a seguire la teoria del doppio legame suscitò molte critiche, soprattutto da parte di coloro che, avendola intesa come contributo alla spiegazione eziologica della schizofrenia, si sarebbero aspettati una convalida di natura empirica della sua stessa insorgenza (Abeles, 1976). Altre critiche, più filosoficamente fondate, rimarcavano la tendenza di Bateson a descrivere il mondo biologico come dotato di una mente eco-sistemica in grado di opporsi al cambiamento in modo contestualmente dipendente, piuttosto che assumere una propria ontologia in forma sistemica. Da questo punto di vista il tentativo di Bateson di interpretare le creature viventi in funzione della sola struttura “mentale” che le connette fu interpretato da molti psicoterapeuti come rispondente al solo aspetto epistemologico della relazione comunicativa. In altre parole, la teoria batesoniana della schizofrenia peccava, secondo loro, di una mancanza fondamentale: la dimensione ontologica su cui fondare le diverse tipologiche logiche che caratterizzano la comunicazione (Dell, 1986).

Nel tentativo di rispondere a queste critiche gli stessi autori (Bateson et al., 1962) fecero notare che il doppio legame è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per spiegare l’eziologia della schizofrenia perché non è riconducibile agli elementi caratteriali delle persone coinvolte, ma alla relazione conflittuale che si genera tra le categorie e le classi logiche che sono espresse nel corso del processo di comunicazione. In tempi più recenti, Harries-Jones (2016) ha ugualmente osservato che, nell’interpretazione batesoniana, la struttura che connette non è equiparabile ai soli messaggi che sono scambiati nella comunicazione, ma coincide con la stessa relazione che, a seconda delle circostanze, diviene luogo di influenze contrastanti tra livelli logici diversi.

Tuttavia, nonostante le critiche sollevate da più parti, e il contrasto generatosi tra sostenitori e detrattori, la teoria del doppio legame può ancor oggi essere considerata valida sia sul piano storico che su quello teorico, prima ancora che su quello più strettamente terapeutico. Secondo Gibney (2006), Bateson ha avuto il merito di demistificare alcuni dei nodi irrisolvibili che si generano nell’ambito del processo comunicativo e di offrire una chiara spiegazione di come concetti psicoanalitici quali la negazione e la scissione contribuiscono al processo di identificazione proiettiva.

Scopo di questo breve lavoro è di riesaminare la teoria del doppio legame di Gregory Bateson con l’obiettivo di valutare criticamente le intenzioni degli autori che l’hanno proposta nonché le critiche dei molti psicoterapeuti che l’hanno avversata. A nostro avviso sono quindi da porre a confronto la comunicazione, come tale, con l’aspettativa di fondare ontologicamente il rapporto intersoggettivo sui meccanismi psicodinamici della reciprocità. In quanto parte di un processo relazionale, la comunicazione si associa necessariamente alle inevitabili insidie sottese alla mancata corrispondenza dialogica. In altre parole, da una parte si tratta di giustificare la significatività della relazione a prescindere dagli elementi di condivisione e/o di contrasto che contribuiscono a definire il contesto della comunicazione e dall’altra di spiegare le ragioni prime ed ultime del venirsi a definire di interazioni comunicative anomale nell’ambito cognitivo comportamentale. Il confronto è quindi tra la significatività della relazione e il meccanismo che la sostiene, tra ciò che gli interlocutori percepiscono come significativo nella contingenza della relazione e ciò che, a causa di psicopatologie congenite, li induce invece alla reciproca incomprensione.

 

Il primato della relazione

 

Secondo Bateson il mondo delle relazioni si fonda sulla percezione delle differenze. E, in quanto tali, le differenze sono astratte perché percepibili solamente come segni e non come cose, cioè come entità fisicamente separabili e distinguibili. Le differenze sono allora tali da consentire la costruzione di mappe a partire dalla sola conoscenza del territorio esplorato. A sua volta, l’utilizzo di una mappa consente di orientarsi e di agire in un territorio, ma non certo di ricostruirlo per intero a causa dell’unidirezionalità della loro relazione. La differenza tra la proposta batesoniana che concepisce la mente come principio esplicativo relazionale sulla base di una epistemologia cibernetica delle differenze e i suoi detrattori sta tutta qui. Quest’ultimi, come del resto tutta la tradizione scientifico-sperimentale fondata sulla evidence-based-practice, vede, osserva e studia il mondo delle cose in quanto parte della realtà percepibile in modo esclusivamente diadico. In questi termini ogni accadimento del mondo fisico è spiegabile e attribuibile soltanto alle proprietà degli interagenti in funzione dei rapporti causali che intercorrono tra loro. Ogni evento sarà perciò causato solo da forze e urti ed i risultanti effetti saranno verificabili in termini di cambiamento della traiettoria e/o di conservazione della quantità di moto. Al contrario se la realtà viene percepita in modo relazionale, ogni accadimento è significativo in virtù degli effetti che la persistenza o meno della stessa relazione può produrre sui correlati. In questo caso ogni processo che coinvolge i correlati è causato dalle sole distinzioni e differenze da loro percepite. Ciò che si vuol sostenere qui è che la significatività di una relazione è verificabile soltanto a posteriori in funzione dei vantaggi selettivi che essa conferisce alla persistenza degli stessi correlati. In altre parole, c’è un potenziale vantaggio selettivo che i correlati acquisiscono solo in quanto parti di un intero maggiore. Le implicazioni derivabili da queste diverse impostazioni concettuali sono molteplici. In primo luogo, se la relazione è soltanto descritta e spiegata per mezzo di proposizioni causali il processo cui dà luogo è necessariamente determinato e non sono pertanto concepibili alternative al suo decorso temporale: in poche parole, non avrebbe potuto essere altrimenti. Questo è quanto accade nel mondo degli oggetti e delle leggi fisiche che ne regolano gli accadimenti, ciò che Bateson (1972) avrebbe riferito con il termine di pleroma. Per contrasto, la relazione esperita nel mondo dei viventi può diventare significativa solo se vissuta come scelta tra alternative selettivamente non equivalenti. La capacità di scegliere presuppone infatti che al vivente siano offerte più alternative e che, di queste, soltanto una si manifesti a posteriori come la più produttiva. Se questo modo di porre il confronto tra mondo oggettuale (pleroma) e mondo dei viventi (creatura) ha una qualche attinenza con la significatività della relazione, possiamo allora concludere che là dove la relazione è soltanto spiegata, di fatto viene ad essere vincolata ad un unico percorso causale in mancanza di alternative. Là dove invece il contesto è tale da offrire più alternative, la relazione diviene significativa in quanto percepita dall’interlocutore come scelta emergente tra tutte quelle potenzialmente disponibili: cioè a dire avrebbe potuto essere altrimenti e ciò con tutto il carico di risentimenti e aspettative che l’emergere del possibile lascia intravedere.

Per approfondire ancor di più il concetto di significatività della relazione basti ricordare quanto lo stesso Bateson (1972) sostenesse a proposito del numero zero. Nel mondo delle cose, il numero zero definisce una semplice assenza di effetti in un contesto che è sostanzialmente invariante. Nel mondo vivente, invece, il numero zero equivale ad una mancata relazione che, per sua natura, deve essere pensata in un contesto ridondante e flessibile. Ciò comporta che la mancanza per il vivente non equivale ad una semplice privazione, ma coincide invece con l’instaurarsi di una disfunzione adattativa che è messa in atto nel tentativo di ripristinare la condizione di equilibrio compromessa. In ultima analisi, la significatività di una relazione è strettamente correlata con la capacità del ricevente di recepirla in conformità alle proprie aspettative in quanto anticipabili e riconoscibili come parti integranti del proprio repertorio di risposta e come espressione dello stesso codice di appartenenza.

In questa ottica, Bateson (1972) sostiene, la mente umana non ha accesso alla conoscenza della cosa in sé, ma solo alle idee che emergono dalla percezione delle differenze e quindi delle differenze che fanno differenze. Ne consegue allora che le modalità con cui la mente regola l’accesso all’esperibile presuppone la categorizzazione di eventi e di accadimenti secondo gerarchie tipologiche diverse, in base alle quali è la stessa percezione della differenza che consente al processo mentale di distinguere un livello dall’altro. È all’interno di questa impostazione concettuale che possiamo allora comprendere quale impatto possano avere paradossi e contraddizioni nell’elaborazione di un corretto processo di categorizzazione. Il rischio è che l’esperienza del paradosso possa non essere assimilabile, né tanto meno integrabile nel contesto delle proprie abitudini, con la conseguente generazione di una risentita incompatibilità tra livelli diversi della stessa gerarchia tipologica. Per esempio, affrontare il paradosso con la logica stringente del «se… allora» equivale a porre la mente nel contesto atemporale del mondo della pura causalità che, per sua natura, è privo dei processi di caratterizzazione tipologica del vivente. È come se la mente, per astrazione, arrivasse a concepire un «sé» in assenza di relazioni (Bateson, 1976). Sul piano concettuale ciò equivarrebbe a commettere una fallacia di reificazione – fallacy of misplaced concreteness – e trattare un processo di trasformazione come se fosse equivalente a un’entità fisicamente separabile e distinguibile (Whitehead, 1925).

Quando Bateson (1997) invoca la necessità di guardare alla natura nel suo aspetto unitario con la mente sta di fatto proponendo una sintesi poetica, piuttosto che meccanica. In questa ottica il libro della natura dovrebbe allora essere letto nella sua forma simbolica – ciò che Bateson chiamava “Sillogismi in erba”- piuttosto che in modo logico-deduttivo. Il sillogismo in erba – gli uomini muoiono – l’erba muore – gli uomini sono erba – si contrappone infatti al sillogismo di aristotelica memoria – tutti gli uomini sono mortali – Socrate è uomo – dunque Socrate è mortale – in quanto in esso la conclusione e le relative premesse non vengono più pensate come formalmente connesse, ma semplicemente percepite come strumenti metaforici.

La collocazione di un messaggio all’interno di un circuito metaforico presuppone da parte del soggetto di sapere non solo che cosa stia apprendendo, ma anche come di fatto lo ha appreso in relazione al contesto che lo definisce. Dal punto di vista epistemologico ciò coincide con la percezione di un messaggio nella sua relazione con il processo di apprendimento di cui è parte. Come fa giustamente notare Harries-Jones (2010), ogni eventuale contraddizione esperita in queste condizioni sarebbe di fatto risolta se la relazione messaggio/processo, o se si vuole di contenuto/contesto, fosse percepita come l’equivalente di un intero universale, in cui la stringenza locale del «se… allora» potesse trasformarsi nel più ampio e metaforico «come… se».

La significatività di questa transizione cognitiva è dimostrata dallo stesso impatto che la percezione dei messaggi può avere sulla relazione comunicativa. È inevitabile che, in ogni processo di comunicazione, ciascun partecipante viva l’immediatezza dell’accaduto con l’intento di orientare la propria aspettativa entro i margini – aperti o chiusi che siano – di ciò che può ancora accadere, verso cioè quello spazio di possibilità che è ancora da definirsi. Interpretato nella prospettiva semiotica questo spazio del possibile sta ad indicare come qualunque relazione possa ulteriormente evolvere verso la creazione di nuovi significati e rendere attuale, e pertanto causalmente efficace, ciò che altrimenti sarebbe semplicemente rimasto allo stato potenziale. Per un organismo che apprende attraverso la comunicazione verbale l’esplorazione di questo spazio presuppone la possibilità di fissare le proprie ridondanze con le regolarità del mondo esterno e di catturare perciò tutti quegli aspetti che si dimostrino rilevanti per la costruzione di un percorso di esperienza (Favareau, 2015a). All’interno di questo percorso svolge un ruolo chiave la possibilità di esplorare alternative aperte ad un futuro indeterminato e, conseguentemente, di attribuire un senso a tutte quelle potenziali relazioni nelle quali poter essere coinvolti. In pratica, ciò equivale aprirsi ad un adiacente possibile che è già di per sé suscettibile di evolvere per semplice auto-organizzazione (Kauffmann, 1993). Tuttavia, quando la relazione è vissuta in questa aspettativa, l’adiacente possibile non definisce soltanto una semplice eventualità oggettiva, ma rappresenta, al contrario, un effettivo obiettivo, il così detto prossimo rilevante (Favareau, 2015b) verso cui il soggetto è naturalmente orientato. Questa apertura segna una transizione da un mondo inteso come prevedibile a uno semioticamente fondato che, per sua natura, apre l’opportunità del fruibile alla creatività dell’inatteso (Giorgi, 2017).

 

Il doppio legame

 

Possiamo adesso prendere quest’ultima riflessione come punto di partenza e chiederci in che misura una visione metaforica della relazione possa aiutarci a comprendere il contesto entro cui la teoria del doppio legame rivela tutta la sua significatività senza che, per questo, necessiti di essere spiegata nella sua presunta o pretesa logicità. Bisogna prender atto che, a partire dalla filosofia naturale aristotelica sino alla odierna impostazione scientifica, la struttura del ens reale è stata sempre intesa come un’esistenza indipendente dalla mente che la pensa, per cui sostanze e proprietà sono state concepite come universali e non come flatus vocis. In questo senso, tutta la filosofia occidentale può essere accreditata per aver introdotto nel pensiero umano l’idea che la realtà sia semplicemente ciò che esiste indipendentemente dalla relazione che può intrattenere con l’osservatore o per come può apparire alla sua esperienza (Deely, 2001). D’altra parte, questa stessa tesi realistica si è accompagnata a più riprese con la concezione secondo cui le cose fisiche del mondo altro non sono che apparenze sensoriali della mente che ricadono entro la cerchia della nostra esperienza (Wilson, 1999). In sostanza, quindi, nella storia del pensiero filosofico si sono confrontate da sempre due diverse concezioni: quella secondo cui le cose reali esistono indipendentemente dalla mente che le pensa, e l’altra secondo cui soggetti e predicati hanno un’esistenza propria limitatamente alla mente di chi li pensa.

Se la relazione è interpretata nei termini di concezioni filosofiche che vedono il mondo mentale separato e distinto da quello esterno, la significatività della comunicazione intersoggettiva e delle sue varianti tipologiche non potrà mai emergere e, conseguentemente non potrà mai essere vagliata sul piano terapeutico. Nell’ottica di una tale separazione, l’idea non agisce in quanto interfaccia di mediazione, ma come oggetto di conoscenza di per sé al punto che è lo stesso atto intenzionale ad essere ridotto ai soli fattori che lo esplicano sul piano naturalistico. In queste condizioni la relazione è semplicemente ridotta ad un’interazione di tipo diadico. Con l’intento di enuclearne i fattori causali ed i relativi effetti sul comportamento si cercheranno allora solo quelle condizioni genetiche e/o caratteriali che predispongono i soggetti ad una categorizzazione aberrante, a prescindere dalla loro contestualizzazione nel qui ed ora della comunicazione.

La tesi che qui vogliamo sostenere è che ogni organismo entra in relazione con l’ambiente in cui vive o con i suoi consimili non perché qualcosa dall’esterno penetra al suo interno, ma perché ogni esperienza percettiva che si manifesta in lui è interpretata come segno. Ciò implica che le relazioni mediate dal segno sono percepite dall’organismo in quanto ontologicamente reali e naturalmente fondate. Sono ontologicamente reali perché il segno non sarebbe tale se non fosse esperito nella significatività dei suoi effetti. Sono naturalmente fondate perché filogeneticamente fissate nel patrimonio genetico degli organismi che hanno imparato ad attribuire significati a qualunque regolarità si sia loro manifestata nel corso dell’evoluzione (Hoffmeyer, 2012). C’è quindi una differenza radicale tra idee e concetti da una parte e segni dall’altra: l’idea è soltanto un referente per un mondo altro, mentre il segno significa ciò che per il soggetto è fruibile e sulla base del quale gli è possibile agire. Nell’impostazione semiotica, il segno coincide quindi con una relazione irriducibilmente triadica che si correla a qualcosa di altro indipendentemente dalla natura fisica dell’elemento che la veicola (Peirce, 1958). Non si potrà non notare a questo punto come l’interpretazione semiotica del segno venga di fatto a coincidere con quanto sostenuto da Bateson (1972) circa la struttura che connette, cioè a dire, con la relazione – segno – che emerge in modo del tutto contingente nella mente di un organismo – interpretante – indipendentemente dalla composizione materica degli elementi che la veicolano – oggetto.

Nell’approccio semiotico originalmente attribuito a John Poinsot (vedi Deely, 1985), il segno si presenta come un elemento pre-categoriale nella forma di strumento cognitivo per la formazione e stabilizzazione di una sistema di categorie mentali. In quanto tale precede la separazione tra ens rationis e ens reale e agisce come interfaccia tra ciò che preesiste nel mondo in forma mente-indipendente e ciò che in forma mente-dipendente viene ad iscriversi nell’esperienza (Bains, 2006). Anche in questo caso è da rimarcare come nel suo modello sulla struttura che connette Gregory Bateson avesse già osservato come l’unità di sopravvivenza non dovesse ricercarsi nell’organismo in quanto singolarità, ma piuttosto nella sua capacità di intrattenere relazioni significative con l’ambiente che lo circonda. La genesi del segno è quindi da indentificarsi con la capacità propria di tutti gli organismi viventi di avvalersi di un apparato senso-motorio che consente loro di apprendere e rispondere a tutto ciò che li circonda ad un livello semanticamente più elevato rispetto alla semplice esperienza olfattiva, uditiva o visiva. Il segno si presenta perciò come qualcosa che li riguarda nei termini delle cose da cercare o da evitare, delle cose cioè che appartengono al già noto o a ciò che è intuito ma ancora estraneo all’esperienza, insomma a tutto ciò che sostiene, rafforza o compromette le loro stesse condizioni di sopravvivenza (Deely, 1982). Tornando all’impostazione batesoniana della differenza che fa la differenza, dovrebbe essere allora sufficientemente chiaro a questo punto che, assumendo il segno come veicolo e forma percettibile della differenza, sia lo stesso segno a divenire fonte di informazione per il soggetto che lo interpreta. In questo senso il segno è percepito come un confine che, nel momento in cui distingue e separa, consente altresì di unire. Interpretare un segno in questi termini implica allora valutarne la congruità rispetto al contesto che lo definisce. Nessun messaggio potrebbe infatti essere recepito come significativo se non in riferimento al contesto entro cui è esperito (Catt, 2003).

Qualora la relazione segno/contesto venga percepita come contraddittoria non restano che due sole strategie possibili: o disconoscere il contesto e risolvere l’incompatibilità con la logica della negazione e/o rimozione delle tipologie difformi dalle aspettative, o, al contrario, ampliare lo stesso contesto e ricercare tutte quelle condizioni che, per lo meno in linea di principio, possono ripristinare la congruità della relazione compromessa. È fuor di dubbio che nel caso in cui si opti per la rimozione, la scelta non possa che essere determinata, nel senso di essere prevedibile per effetto dell’apparente congruità riacquisita per esclusione. Ma così facendo, la scelta è di fatto privata della possibilità di evolvere verso aspetti potenzialmente più creativi. Nuovi significati possono soltanto emergere se l’incongruità contenuto/contesto è interpretata come segno di una discontinuità tra condizioni riconducibili a processi attribuibili ad una diversa codificazione (De Luca Picione e Freda, 2016). Un messaggio così percepito diviene allora segno di mediazione tra l’esperienza soggettiva e la realtà esterna perché in grado di riflettere una situazione di naturale accoppiamento tra il mondo mente-dipendente e il mondo indipendente dalla mente (Favareau, 2010). Ciò dimostra che la sola logica degli opposti non è sufficiente a risolvere positivamente le contraddizioni che emergono tra messaggi incompatibili e che, per essere risolta creativamente, la contraddizione non deve essere compresa in termini esclusivamente gerarchici. Una gerarchia cognitiva presuppone infatti una subordinazione di ruoli o una tassonomia di valori tale per cui la loro contrapposizione logica porta inevitabilmente alla rimozione del minore di livello o dell’inferiore di valore. Adottando invece l’idea di eterarchia, le contraddizioni vengono ad essere comprese come inevitabili contrasti che, in modo del tutto contingente e imprevedibile, possono emergere all’interno di un’uniformità contestuale. In un rapporto eterarchico, non solo i contenuti dei messaggi e le rispettive proprietà interattive, ma anche le loro diverse impostazioni contestuali, possono contribuire a definire la significatività della relazione. La percezione di messaggi incompatibili può infatti sfociare, da una parte, nell’incapacità di risolverne le contraddizioni – se percepite gerarchicamente – ma dall’altra, far intravedere la possibilità di essere recepiti come opportunità – se percepite eterarchicamente (Bruni e Giorgi, 2015). Quest’ultima conclusione corrisponde a quanto sostenuto da Bateson circa le tipologie logiche della percezione secondo cui le differenze sono classificate su livelli diversi della gerarchia mentale. Tuttavia, nell’impostazione cognitiva di tipo eterarchico sono le stesse difficoltà logiche della percezione contraddittoria che spingono il soggetto ad apprendere a livelli progressivamente sempre più alti, sino a raggiungere la condizione di poter apprendere ad apprendere (Bale, 1992).

 

Conclusione

 

In ultima analisi è lo stesso contesto entro cui una relazione si svolge che può evolvere verso livelli di complessità più elevati. Tolte le interpretazioni non perseguibili per manifesta illogicità, ciò che acquista senso in una relazione è il rapporto contenuto/contesto che il soggetto è in grado di percepire come il più adatto a dar conto di un’obbiettiva congruità. In assenza di una selezione che imponga restrizioni tipologiche, tutti i potenziali adattamenti di questo rapporto vengono ad essere governati da un’uguale probabilità e, come tali, non hanno alcuna possibilità di essere percepiti come differenze significative (Bateson, 1972).

L’acquisizione di una consapevolezza cognitiva del contesto porta il soggetto ad apprendere ad un livello più elevato di percezione rispetto alla pura esperienza sensoriale. In un certo senso, è il contesto che, se percepito come meta-messaggio, consente al soggetto di classificare gli stimoli ambientali in relazione alle proprie capacità sensoriali e/o cognitive. Se questo è vero, ne consegue allora che una relazione a doppio legame viene a crearsi ogni qual volta il soggetto si dimostri incapace di assimilare messaggi contraddittori e, cioè a dire, di trovare contesti più ampi entro cui risolvere la loro apparente contraddittorietà. In queste condizioni, al soggetto è di fatto impedito di uscire dallo stallo e di produrre a sua volta segnali meta-comunicativi di contestazione. È il doppio legame in quanto tale, e la contraddittorietà che lo caratterizza, che vengono allora ad essere recepiti come relazione di tipo logico a se stante, piuttosto che i singoli messaggi espressi all’interno della stessa relazione (Harries-Jones, 2016). Il paradosso che il soggetto schizofrenico si trova ad affrontare si correla allora con la sua stessa incapacità di attribuire significato alla relazione in quanto i confini contestuali della comunicazione sono diventati così sfumati da non consentirgli alcuna demarcazione tra funzioni normative e soggettive. In queste condizioni è molto probabile che non sappia più distinguere la soglia semiotica che si frappone tra l’esigenza di confermarsi nella narrazione del già detto e la paura di non poter accettare l’imprevedibilità del non ancora detto (De Luca Picione e Valsiner, 2017).

 

 

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