EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

La trasformazione provoca sofferenza: una vita da expat. Intervista a Francesca Rigotti

 

di Gianfranco  Brevetto

 

Francesca Rigotti, filosofa e saggista, insegna all’Università della Svizzera Italiana ed è stata docente all’Università di Göttingen e di Zurigo. Il suo nuovo libro affronta il tema dell’emigrazione, del profondo significato di questa esperienza al di là di ogni banalizzazione offerta dalle cronache. Con lei ne abbiamo piacevolmente dialogato, ponendole qualche domanda.

– Nel suo libro lei fa convivere l’esperienza dei migranti con quella sua personale, costretta, per motivi d’amore e di lavoro, a spostarsi. Che cosa l’ha indotta a mettersi in gioco in prima persona?

– Mi sono messa in gioco anche altre volte, nei miei scritti, ma mai in maniera così aperta come questa volta. E’ perché quello che vedo intorno a me, soprattutto quando sono in Italia, mi colpisce come una frusta e mi porta a reagire e a parlare. Vede, nella mia esperienza di espatrio/migrazione, nessuno mi ha mai trattato in maniera diversa perché non ero cittadina di quel paese. In Germania, in cui vivevo e in parte ancora vivo, nessuno mi ha mai chiesto la cittadinanza, che è rimasta italiana fino ad oggi, per erogarmi trattamenti sanitari equi, assegni familiari, sussidi di disoccupazione. Mai ho udito dire “lei no, lei non può far domanda all’università, non può partecipare a un concorso, o qualsiasi altra cosa, perché  non è tedesca”.  Immaginando che cosa si possa provare nel sentirsi dire “tu no perché non sei italiana”, ho deciso di prendere anche io la parola in questo dibattito.

– Lei introduce, nella sua analisi un termine, quello di expat. Qual è la differenza tra emigrato e expat?

– Detto in soldoni, l’expat è abbiente, ha i documenti in regola, un posto di lavoro che lo aspetta, spesso anche la casa e la scuola per i figli e  conosce l’inglese che è quasi sempre la lingua di lavoro di queste persone. L’emigrato – ma oggi si preferisce dire migrante – è povero anche se istruito, i documenti non sempre li ha, il lavoro se lo deve cercare e la lingua del posto la deve imparare, e non è facile. E poi nessuno gli vuol bene, come scrive il poeta risorgimentale Giuseppe Giusti in “Sant’Ambrogio”: “Povera gente, lontana da’ suoi! In un paese qui che le vuol male”.

– In cosa consiste la terza cultura di cui è portatore l’expat? Come si costruisce, partendo dalla sensazione di non “sentirsi più nulla”? 

– Nel paese della sua destinazione l’expat, ingenuo o arrogante che sia, crede di acquisire una seconda cultura, quella appunto locale, che sommerà alla sua, la prima. Invece non sa che ne sta creando una terza, la cultura dell’expat; quella in cui all’inizio si sente di non essere nulla e nessuno e poi pian piano, se va bene, ci si ricostruisce; eppure, più uno/a conosce il paese nuovo e vi si adatta, più comprende che non ci sarà ritorno, non ci sarà mai ritorno pieno, perché il soggiorno ti avrà modificato. Quando Ulisse torna a Itaca, nessuno lo riconosce, e anche l’eroe fatica a riconoscere luoghi e persone.
– Lei entra in un ambito di strettissima attualità: alla semplice opposizione tra noi/loro si è sostituito lo slogan prima noi, che è di per sé semplice ed efficace. Come nasce e quali sono le conseguenze del primanostrismo?

– Semplice e efficace e all’apparenza “naturale”, lo slogan che grida “prima noi”! Che cosa  di più ovvio, umano si potrebbe dire, che proteggere i nostri familiari, compaesani, concittadini, quelli come noi? Lo affermava Cicerone, lo ripeteva Gesù di Nazareth (ama il tuo prossimo, cioè il tuo vicino, quello della tua tribù). Nel libro cerco di spiegare come questo argomento abbia probabilmente radici biologiche (la protezione della propria stirpe) ma anche implicazioni filosofiche, e come entrambe siano fondate sulla (falsa) analogia tra patria e genitorialità, cittadini e  figli. E’ un’analogia che non regge, come non regge l’idea che la patria sia qualcosa di speciale e di sacro, che la si debba amare e ad essa ci si debba sacrificare. Nessuno sceglie di nascere in un paese, e la mancanza di scelta annulla l’obbligo. Chi invece esalta l’analogia e la segue letteralmente, non avrà fatto che erigere una barriera, elevare un nuovo muro tra “noi” e “voi/loro”. Chi governa sfruttando l’analogia per i suoi scopi sovran-populisti ne approfitta per mettere “i nostri” contro gli altri, secondo l’antico principio del “divide et impera”. Per dirla ancora una volta con quello spirito geniale che fu Giuseppe Giusti, ancora in “Sant’Ambrogio”, tutto quest’odio istillato e coltivato ad arte “giova a chi regna dividendo, e teme/popoli avversi affratellati insieme”.

– I muri che si possono ergere, come lei ha efficacemente descritto, non sono solo quelli materiali. Eppure anche questi ultimi sembrano essere tornati di moda. Perché ne abbiamo bisogno? Dobbiamo imparare a convivere con loro nel prossimo futuro?

– Ne abbiamo veramente bisogno? Di muri per non far entrare le persone, barricandoci nelle nostre fortezze e certezze, lividi per la  paura e il rancore, tutti tesi a non contaminare la nostra presunta purezza cultural-religiosa? Ma chi vorrebbe vivere in un ambiente così? Nemmeno il più accanito sovran-populista, ne sono convinta! 

– Un altro tema da lei messo in evidenza è quello dell’identità che muta, si trasforma e rischia di naufragare nel corso dei percorsi migratori. Le radici, la forza di queste radici è garanzia anche di una capacità di adattarsi, di attivare meccanismi di resilienza?

– Non amo il termine resilienza, mi sembra un concetto chic, tanto alla moda, come è tanto alla moda puntare, nella pubblicità, su persone che sembrano essersi adattate a situazioni di grande deprivazione fisica. Temo questi meccanismi, come temo anche i meccanismi che ci prospetta il transumanesimo, in cui i corpi non verranno più soltanto riparati, quanto ma aumentati, potenziati. Chissà se in qualche parte del mondo, mi chiedo,  stanno già amputando le gambe a bambini sani per applicarvi protesi alla Pistorius che facciano superare loro le prestazioni atletiche  dei normodotati?! Ma sto uscendo dal tema. Rispondo che sì, l’identità del migrante muta e la trasformazione provoca sofferenza, come  il cambio della pelle del serpente: e non è detto che se ne esca più freschi e lisci e brillanti; e nemmeno che l’intelligenza stia sempre e solo nell’adattarsi: e se si fosse dimenticato il valore della ribellione? 

– Lei è un’apprezzata filosofa, quali sono gli strumenti, i punti di riferimento che la filosofia ci dà per orientarci di fronte ai grandi movimenti migratori e alla crisi politica, di cui sono una causa forse più ideologica che reale, che dovremo affrontare nel prossimo futuro?

– La ringrazio delle sue parole di apprezzamento ma non ho una soluzione pronta per l´uso. Se non l’invito a leggere testi filosofici importanti, sia recenti, quale Stranieri residenti. Filosofia della migrazione di Donatella De Cesare o Homo sum di Gianfranco Bettini; sia antichi, come le Lettere di Seneca o il Manuale di Epitteto, che insegnano, quelli sì, a rispettare la comune dignità dell’umano.

 

 

Francesca Rigotti

Migranti per caso

Una vita da expat

Raffaello Cortina Editore, 2109

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