EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

L’arrogante è un falsario di se stesso. Intervista a Giuseppe Civitarese

di Federica Biolzi

L’arroganza è una modalità per fronteggiare l’angoscia e tutto ciò che crea insicurezza. Giuseppe Civitarese, nel suo Sull’arroganza, saggio di psicoanalisi (Jaca Book), ci invita a riflettere su un tema che s’impone anche nell’attualità del nostro vivere quotidiano. Vediamo in quali termini.

– Appare di particolare interesse, nel suo bel saggio sull’arroganza, l’approccio psicoanalitico che lei ci propone. Si tratta di un tema, quello dell’arroganza, come da lei messo in evidenza, che non ha all’attivo molta letteratura, eppure, è evidente che ogni giorno, siamo costretti a confrontarci con i suoi eccessi.  Perché tanta arroganza?

Non so se in giro ci sia più o meno espressioni di arroganza che nel passato, anche perché le su espressioni sono multiformi e camaleontiche. Di sicuro c’è che se alla base vediamo nell’arroganza una modalità di fronteggiare l’angoscia, tutto ciò che sul piano sociale concorre a ingenerare insicurezza, inquietudine, paura, può rendere le nostre società più ‘arroganti’. Pandemie, guerre e congiunture economiche negative, oltre che il venir meno di collanti ideologici che nel passato funzionavano da base sicura per gli individui, sollecitano la capacità degli individui di non sentirsi troppo minacciati nella loro identità. Nel libro azzardo una definizione di arroganza come fallimento della dialettica del riconoscimento e grado zero del ‘male’ (della violenza). Al di là di situazioni più legate a cicli economici o politici, un fattore estremamente insidioso e costante che mina il senso di sicurezza degli individui è la penetratività della tecnologia. Nessun regime totalitario del passato ha mai immaginato, neppure nel peggiore degli incubi, di attuare un controllo così capillare della vita degli altri, dei loro corpi e del loro immaginario, e questo nella quasi più totale indifferenza e rassegnazione. Questo potere insieme visibilissimo e occulto, multicentrico e rizomatico, ci lascia sgomenti e inermi. Affrontare il tema della violenza con la lente d’ingrandimento di tutto quello che la psicoanalisi può dire sull’arroganza ha il vantaggio di offrire chiavi di lettura potenzialmente emancipative, che cioè non replichino violenza a violenza, esclusione a esclusione; detto altrimenti, per non finire come Edipo, Antigone, Creonte, Bertin, ecc., e tanti altri personaggi ‘arroganti’ della letteratura. Il paradosso della psicoanalisi è che essa stessa può essere portatrice di una certa arroganza (come ha evidenziato Foucault), e non solo, come pure è, uno dei punti di resistenza più efficaci.

Lei ci indica l’arrogante come un falsario di se stesso. Cosa significa e quali caratteri lo contraddistinguono?

L’arroganza è nella sua essenza una richiesta di riconoscimento rivolta all’altro. Nessun individuo può esistersi da sé. Usando il verbo in modo transitivo, solo gli altri lo possono esistere, cioè farlo sentire reale e autentico. Se però la reazione che normalmente l’arroganza suscita nell’altro è di rigetto, ecco che il soggetto perpetua il rovinoso processo che lo rende sempre più alienato. Contribuisce ad alimentare il suo falso sé e non, per dirla con Winnicott, il vero sé fragile e spaurito rannicchiato in qualche angolo della personalità. È ovvio che se il soggetto lo fa è perché non se ne rende conto. La dialettica del riconoscimento in cui consiste il processo di diventare soggetti si svolge in buona parte sul piano inconscio, non si può controllare in via diretta. Il ‘falsario di se stesso’ è tale perché è intimamente obbligato a esserlo. Ubbidisce a una logica tirannica, che deve essersi insediata assai presto a partire dalle relazioni primarie con l’oggetto. Quando ha ‘capito’ che l’unico modo per stare in contatto con l’oggetto, per non soffrire un catastrofico abbandono, è stato di identificarsi adesivamente con esso, ha anche accettato di rinunciare ai suoi bisogni più autentici. Una personalità siffatta vive in un mondo interno non democratico ma tirannico, e per di più perennemente in regime di guerra. Ha solo una prospettiva inderogabile sulle cose. Non, come scrive Nietzsche, “più affetti, più occhi”, ma una visione fondamentalista delle cose. Com’è ovvio, se questa è la dinamica essenziale dell’arroganza, si esprimerà secondo gradi estremamente variabili nelle persone e a seconda dei momenti di vita. Nessuno potrebbe mai chiamarsi del tutto fuori.

– Il suo interesse per l’argomento, come lei precisa, è iniziato da un suo scritto a commento ad un testo di uno dei maggiori autori della psicoanalisi contemporanea Wilferd R. Bion. Testo che s’intitola appunto l’Arroganza. A questo proposito lei riprende il tema della reazione terapeutica negativa. Ci aiuti a comprendere.

È presto detto. In passato gli analisti tendevano a spiegarsi il cattivo andamento della cura invocando l’azione sottile ma micidiale della pulsione di morte come opposta alla pulsione di vita. Per così dire, il paziente si opponeva a guarire. Aveva questo altro dio a cui sacrificare. Chiamavano questa svolta improvvisa e paradossale ‘reazione terapeutica negativa’. La psicoanalisi contemporanea ha sviluppato strumenti più sensibili per intuire come la relazione terapeutica si sta svolgendo e vede le cose da una prospettiva più interpersonale. Quello che una volta ci appariva come RTN, ora tendiamo a vederla come un fallimento della dialettica del riconoscimento, che sostanzialmente sostiene il processo della cura. Non più ‘io ho offerto qualcosa di buono al paziente ma lui l’ha rifiutato perché soffre di invidia primaria’,  bensì ‘potrebbe essere che avendo la convinzione di dare qualcosa di buono al paziente lo abbia esposto a ‘verità’ che sono tali solo per me, e che quindi ubbidiscono alla mia volontà di sapere e alla mia arroganza, e non rispettano la sua capacità di farle proprie?’. Nel secondo caso, l’analista avrebbe un comportamento iatrogeno. La psicoanalisi contemporanea è divenuta sempre più sensibile rispetto alle ragioni del corpo, dell’affettività e del non-verbale, rispetto al principio di conoscenza impersonato da Edipo. Non più tradurre dall’inconscio al conscio,  bensì apprendere dall’esperienza della relazione le competenze affettive che all’inizio richiedono un’enorme attenzione consapevole fino a che non vengano internalizzate e dunque non diventino del tutto inconsce. Abbiamo insomma non più una psicoanalisi epistemologica ma una psicoanalisi ontologica, che si cura dell’essere e del divenire. Meno attenzione a contenuti rimossi e più allo sviluppo di funzioni.

– Freud nel disagio delle civiltà ci ricorda che, in sintesi, la tonalità aggressiva verso l’altro che facilmente colora l’arroganza non è che la faccia esterna e visibile dell’aggressività invisibile che il soggetto rivolge contro se stesso. Con quali conseguenze?

Le conseguenze sono ovvie. A violenza risponde violenza. La cosa importante da afferrare è a mio avviso che l’individuo è già una ‘società’. Non lo chiameremmo altrimenti in filosofia e in psicologia ‘soggetto’. Va da sé, a cosa potrebbe mai essere assoggettato se non a leggi? La violenza dunque che l’individuo rivolge a se stesso è espressione di una violenza già sofferta e interiorizzata come relazione con l’oggetto. Nell’individuo arrogante ciò che si esprime è un frammento di società in cui prevale un clima di persecuzione. La soluzione non può che essere più società, nel senso di più gruppo e io-gruppo, più identificazioni, punti di vista, culture, ecc. , e invece meno massa e io-massa, meno dogmatismo o fondamentalismo. Qual è il fattore chiave nel far oscillare da una parte o dall’altra? La paura o terrore. La cura dell’arroganza sta nella possibilità che diminuisca la paura, ciò che polarizza su una unica visione delle cose, con il corollario inevitabile della scissione violenta degli altri punti di vista. Come far diminuire la paura? Istituendo più legami possibili. Questi legami però non devono essere scissi. Non devono basarsi solo su elementi razionali o astratti. Si perpetuerebbe così la scissione originaria che ha prodotto, come lo abbiamo definito prima, il falsario di se stesso (o il falso sé).

– Come è emerso, al di là delle cronache e dei clamori mediatici, l’Arroganza è un qualcosa di complesso e articolato. Lei ritiene sia possibile delineare percorsi condivisi e praticabili nella relazione terapeutica?

Dalla definizione che utilizzo di arroganza discende immediatamente un’idea di cura’. Come si evince dal libro, l’arroganza-hybris è il vertice di cui mi sono servito a partire dal saggio di Wilfred Bion del 1958 (“Sull’arroganza”) per guardare in varie direzioni, all’individuo e alla società ma sempre presupponendo una assoluta sovrapponibilità tra psicologia individuale e psicologia sociale, e dunque attivando un gioco di rispecchiamento reciproco che può illuminare aspetti di entrambi. Nella relazione terapeutica, la cura passa per il riconoscimento reciproco, che però, appunto, non può limitarsi alla ‘correttezza politica’ ma deve tramutarsi in essenza in un legame affettivo. Ciò che cambia, per dirla con Freud, è la Liebeserfahrung, l’esperienza di essere amati. Ma attenzione, l’amore non ammette relazioni di asimmetria e di dominio. Se il legame che si instaura tra analista e paziente è autentico, vuol dire che in profondità è simmetrico, non ha più nulla a che fare con la necessaria asimmetria di ruoli e di lavoro. Se il legame è autentico, vuol dire che a questo livello entrambi sono esposti al rischio della perdita dell’altro. È esattamente come Bertin e Rameau nella discussione che fa Hegel nella Fenomenologia del romanzo di Diderot e dei suoi personaggi. Non importa se l’uno è ricco e l’altro è povero. Ciò che conta è quanto e se si esistono reciprocamente come persone, se oltre a sostegno materiale per l’uno e servizi per l’altro si scambiano anche affetti. La difficoltà nasce dal fatto che quanto e se ‘amare’ non può essere deliberato in una decisione conscia. Si tratta piuttosto di presupporre le condizioni affinché questo possa accadere, vista anche la naturale tendenza che gli esseri umani dimostrano a condividere stati emotivi, e semmai, ascoltando come l’inconscio comune si esprime nella conversazione analitica, monitorare la qualità del legame. Sul piano della società è lo stesso. Pratiche riconoscitive fanno diminuire la paranoia da estraneo e il pensiero critico ha la funzione essenziale di diagnosticare , come si dice, il ‘cattivo presente’.


Giuseppe Civitarese

Sull’arroganza, saggio di psicoanalisi

Jaca Book, 2022

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