EXAGERE RIVISTA - Maggio - Giugno 2024, n. 5-6 anno IX - ISSN 2531-7334

L’arte, essenza del suo essere

di Federica Biolzi

Qual è l’origine dell’opera d’arte? Questa interessante e spinosa questione dà il titolo al volume, edito da Jaca Book e curato a Irina Casali,  riprende il celebre saggio di Heidegger L’origine dell’opera d’arte; in cui Heidegger afferma che nell’opera d’arte è la verità stessa a mettersi in opera. Nell’arte la verità accade, si fa evento storico. Una lunga conversazione con la curatrice  dà un senso a questa domanda.

–  Saffo, oltre ad essere un riferimento alla celeberrima poetessa, è anche un acronimo che sta per Sperimentazioni Artistiche Filosofiche Fuori Orbita. Perché l’idea di Saffo? E qual è l’orbita dalla quale fuoriuscire?

– Saffo è stata tra le prime intellettuali dell’antichità ad aprire un Tiaso femminile legato al culto di Afrodite, di cui era sacerdotessa, per educare le fanciulle alla musica, alla danza alla poesia e all’eros: una scuola di formazione dove l’erotica nutriva ogni aspetto del sapere e della creatività.

Intitolato alla poetessa di Eresos, il seminario incrocia le arti in dialogo con la riflessione unendo arte e filosofia grazie a una riunificazione della dimensione sensibile e teoretica dei saperi che intreccia corpo e psiche in una rinnovata erotica della conoscenza.

Curiosamente “80 SAPPHO”, scoperto nel 1864 dall’astronomo inglese Norman Pogson, fu il primo asteroide del sistema solare intitolato a un personaggio storico; una coincidenza significativa che ha ispirato il senso dell’acronimo. L’andare fuori orbita è un auspicio che questo nostro piccolo pianeta infranga il pensiero astratto, svincolato dalla vita, e scardini la separazione delle discipline che oggi procedono sicure ma sterili nel proprio gravitare isolato. L’arte e la filosofia sono invitate a spingersi fuori dalla propria traiettoria per ritrovare l’origine comune.

Generare significa procedere verso l’ignoto, senza rotte predefinite. Gettarsi in mare aperto, come Ulisse oltre le colonne d’Ercole, e rischiare di naufragare, come Platone ripetutamente in viaggio verso Siracusa. Perché il destino della creatività e del sapere sta nel desiderio infinito di ri-uscita, nel rilancio simbolico di ricomposizione, sempre differito, mai raggiunto. Questa è la danza del teatro filosofico, che pone in tensione l’origine comune dei saperi e delle pratiche.

Fu proprio Platone, in una delle rare poesie giunte fino a noi che gli vengono attribuite, a celebrare Saffo come la decima musa.

L’origine su cui s’interroga il seminario SAFFO è quella dell’opera d’arte, una questione che di anno in anno abbiamo scavato con un  movimento a spirale ampliando il punto originario  grazie alla sinfonia di richiami intonati intorno alla stressa domanda da cui sono scaturiti via via i temi che si sono susseguiti nel tempo. Una’ossessione insistente sulle ragioni, le forme e le modalità di conoscenza dell’arte. Come il Tiaso riuniva tutte le facoltà creative nell’arte suprema delle “cose d’amore”, così oggi pensatori diversi intrecciano i loro passi con i nostri, in una danza originaria che si rinnova, come il rituale, ad ogni anno. In questa processualità l’arte rimette in gioco la capacità compositiva chiamando in causa tutti i sensi (tanto le sensazioni quanto i significati) senza privilegiarne nessuno, rinunciando ad un porto sicuro.

A tessere la tela è Eros, che Platone, maestro della soglia tra logos e mito, descrive per metafore come  motore della filosofia e dell’arte. L’amore è al tempo stesso la via della conoscenza e della creatività, ma anche il mistero più grande. Eros è ponte tra uomini e dèi, la sua natura è doppia, ossimorica, carnale e intangibile. Genera la vita, ma come dice Saffo, al culmine del piacere “pare di morire”. È insieme esperienza del limite e suo attraversamento. L’amore supera la morte perché, come l’arte, desidera l’eternità.

In cosa questo seminario si distingue da un luogo di teoria pura? Non tanto per esser “sorto da necessità” dal cuore degli artisti, ma perché grazie a questo processo si desidera mobilitare tutte le facoltà per andare oltre il logos, illuminando una forma di conoscenza interna, diretta, che accade prima di qualsiasi distinzione tra soggetto/oggetto, io/mondo, pensiero/sensazione. Stanislavskij, parlando del lavoro dell’attore, diceva che “conoscere significa sentire”.

La modernità ha disegnato un mondo in cui domina un Io ipertrofico, dove il pensiero razionale  occupa ogni ambito della realtà confinando ai margini altre forme di sapere, ritenute impure, deboli, imprecise. L’empirico è sospetto. Ogni sfera della conoscenza, anche quella dell’umano, si è essiccata in definizioni astratte, slegate dal corpo emozionale che le genera. Eppure non esiste alcuna situazione che non sia emotivamente segnata. Le emozioni caratterizzano qualsiasi esperienza della vita: più intense sono, più fortemente un evento si imprime nella nostra coscienza. Non si dà nessun logos fuori dalla sfera del pathos. La vera conoscenza è in sé stessa patologica. Per noi moderni, tuttavia, questa parola ha un’accezione negativa, suscita timore, diffidenza.

Nietzsche osò guardare dentro l’abisso e vide la cecità dell’Occidente. “Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno trovare?”. In quest’apertura della Genealogia della morale denuncia la perdita del sapere tragico dei greci.

Nell’Agamennone di Eschilo il coro intona il famoso inno a Zeus invocandolo come colui che ha posto la legge della “saggezza attraverso la sofferenza” (Pàthei màthos). Similmente nel noto passo del Teeteto Platone ci dice che il “dolore (pathos) della meraviglia (thaumazein)” è il principio (arche) della conoscenza filosofica. Questo dolore conoscitivo non è solo intellettuale: provoca vertigini. Eppure l’Occidente ha dimenticato la scaturigine dolente, sensibile, carnale del pensiero. La nostra tradizione ha finito per privilegiare in modo unilaterale la coscienza sull’inconscio, il concetto sul simbolo, istituendo un pensiero senza cuore. Tale sapere non produce alcuna comprensione profonda.

SAFFO ci invita a pensare col corpo al cui centro batte il muscolo cardiaco, dispensatore di impulsi poetici: la poesia riporta le parole alla loro genesi concreta, al sangue da cui sono nate prima di divenire spirito.

Il sottotitolo del volume che raccoglie gli interventi del seminario recita: “Dramma in cinque atti filosofici”, a marcare l’incontro tra le due discipline chiamate a mettersi una nei panni dell’altra.

–   Lei è attrice, regista, laureata in filosofia teoretica. Perché questa scelta formativa? Perché ritiene che  il teatro sia filosofia?

– Sono nata in teatro, mia madre ruppe le acque durante una classe di recitazione; ho passato l’infanzia assistendo alle prove degli spettacoli dei miei genitori – Liliana Duca e Renzo Casali, fondatori della Comuna Baires – e in tournée con loro. Ho recitato per la prima volta a nove anni e sono cresciuta frequentando le classi di danza di mia mamma e quelle di teatro di mio papà con cui ho iniziato a collaborare sin da giovanissima. La vita è stata maestra di un percorso umano e artistico cui sono infinitamente grata, ma che non ho scelto (a meno che, come narra Platone nel mito di Er, lo abbia solo scordato). Crescendo è venuta la passione per lo studio e ho incontrato la filosofia. Questa è stata la mia seconda nascita, quella dell’anima, con cui mi sono allontanata dall’eredità familiare Il percorso universitario è stato ricco di studi sull’arte e la tesi con la cattedra di filosofia teoretica è stata su Milan Kundera, uno scrittore. Eppure, più mi allontanavo dal teatro più qualcosa mi tirava indietro. La mia passione tornava sempre lì. A casa.

Nello stesso periodo un percorso di analisi personale ha acceso la curiosità sul rapporto tra inconscio e creatività e la passione per le letture psicanalitiche, in particolare Jung e il pensiero junghiano sull’arte, James Hillman, Erich Neumann. Da qui la nascita nel 2005 di Piccola Accademia Fare Anima, con cui negli anni ho condiviso le mie scoperte in seminari che univano teatro e filosofia. Lo slancio sono state le confessioni degli artisti sul proprio processo creativo, che invitano a sporgersi sulla soglia, là dove la parola tace e comincia l’opera.

Ma prima di trovare un accordo fertile, la filosofia e il teatro sono state due amanti gelose: il tempo dedicato all’una era rubato all’altra, mi sentivo tirata da due opposti. Poi finalmente è accaduta la sintesi grazie a cui ho compreso che dovevo procedere a modo mio, trovare la strada per dare un senso personale alla mia vita. È così che i due fiumi hanno iniziato a convergere in uno solo. Questi inconciliabili si sono rivelati più vicini di quanto avessi mai immaginato..

La ricerca teatrale si è nutrita degli studi filosofici e viceversa. Grazie alla collaborazione con Paolo Spinicci e il dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano ho messo in scena il Simposio di Platone e i Dialoghi tra Hylas e Philonous di Berkeley; in questa tessitura ho scoperto che la relazione tra le due discipline non era solo un fatto autobiografico, ma una questione originaria. Le mie ossessioni avevano ragion d’essere e potevano essere condivise. Così nel 2016 è nato SAFFO con la scelta di invitare altri interlocutori, filosofi, pensatori e testimoni, nel desiderio di aprire il campo e coltivarlo insieme.

Perché il teatro è filosofia? Nell’introduzione che dedico al Simposio di Platone cerco di  mostrare i motivi strutturali per cui il capolavoro platonico è una drammaturgia a tutti gli effetti. L’opera si apre e si chiude con azioni teatrali, fortemente simboliche. A conclusione del dialogo, Socrate rimasto solo alle prime luci dell’alba con Agatone e Aristofane pronuncia un enigma su cui cala il sipario dell’opera: costringe i due drammaturghi “ad ammettere che è dello stesso uomo saper fare commedia e tragedia e chi è tragediografo per arte è anche commediografo”. In questo passo Platone ci dice non solo come si deve fare teatro (il suo), ma enuncia qualcosa che concerne l’essenza della filosofia.

Dal Fedro sappiamo che il sapere filosofico non si trova nei libri, nemmeno nei suoi,  ma è una prassi e si nutre delle parole vive che gli uomini si scambiano nutriti da affetto reciproco e che s’inscrivono nell’anima passando, come una fiamma, da cuore a cuore. La filosofia non è materia inerte, ma scorre nella vita: è movimento, sensazione, emozione. Socrate non lascia tracce,si consuma nei discorsi. Ispira, infiamma, forgia con l’esempio. Questo esercizio della relazione è il fondamento del sapere filosofico. Filia e filosofia hanno in comune l’amicizia, e le cose degli amici vanno condivise, vissute insieme.

Eros, daimon dell’arte e della conoscenza, è un essere mediano che stabilisce connessioni tra la realtà fisica e soprasensibile. Per agire deve scorrere tra gli umani che si scambiano umori, odori, sentimenti, con tutto ciò che significa. Non si dà nessun Eros nell’iperuranio. Le idee si incarnano nei corpi e solo da qui possono prendere il volo.  Maestro del paradosso e della complessità, Platone scrive (benché ci avverta del pericolo), ma solo per dirci come si fa filosofia e, non solo a fini retorici, per metterla in scena utilizza la forma dialogica: la sua filosofia ha una natura drammatica.

Ma tornando al finale del Simposio, la filosofia e l’arte (qui incarnata da due uomini di teatro) condividono le sorgenti e le finalità del processo compositivo. Perché tragedia e commedia vanno tenute assieme?  Che qualità deve avere  la filosofia? Entrambe devono saper fare dei molti l’uno, e viceversa, perché la verità si dice in molti modi. Si devono tenere insieme gli opposti, l’alto il basso.

Il passo finale del Simposio è un esempio toccante dell’arte teatrale di Platone. Alcibiade irrompe nella casa di Agatone a notte fonda, completamente ubriaco. Socrate teme per la sua incolumità, il vecchio allievo geloso è una testa calda e vedendolo assieme ad altri potrebbe scagliarsi con violenza contro il maestro. Nel tentativo di blandirlo e distrarlo dai suoi propositi di vendetta gli viene chiesto di fare un encomio a Eros, Alcibiade accetta rimarcando che non è corretto da parte di uomini di tale levatura far parlare un uomo palesemente ottenebrato. Inizia l’elogio di Socrate: contro ogni aspettativa l’allievo peggiore pronuncia il discorso più bello, non per un dio ma per un uomo. Alcibiade, sudato, provato, alterato, enuncia un discorso lucidissimo pieno di pathos, in cui si eleva mentre si crocefigge. Riconoscendo tutti i propri errori fa un elenco delle virtù socratiche che muove alle lacrime. Platone fa roteare i sentimenti: la verità può essere detta solo da chi sragiona. Nessuno avrebbe potuto dire le stesse cose da lucido senza essere patetico. Il vero si fa strada nel tremore della voce di un uomo che non ha nulla da perdere e nel gesto di umiliarsi innalza la propria umanità.

Platone mette i discorsi in atmosfere dense di contrasti, per mostrarci che  le idee non sono esangui, trasudano sentimenti ambivalenti e le situazioni attraversano tutte le sfumature emotive degli umani, dal misero al sublime, perché solo per opposti emerge l’unità. La pienezza della vita. 

– Veniamo al tema del libro che è racchiuso nel titolo Qual è l’origine dell’opera d’arte? È questo un tema variamente affrontato da filosofi, antropologi, semiologi. Perché è così centrale nel pensiero umano?

– Domanda bella e difficilissima. L’origine dell’arte rimane avvolta nel mistero di cui è traccia visibile. La sua natura simbolica porta con sé un’eccedenza il cui senso sta al di là della ragione. I discorsi possono avvicinarci fin sulla soglia, dove tutto si compie. Ma il significato dell’opera richiede un linguaggio diverso dal logos, l’entrata in un’altra coscienza, più grande.

Vi sono molte letture del gesto artistico che ne hanno raccontato la storia, l’urgenza, il significato, infittendo la rete di rimandi perché, forse, ciò di cui parla l’arte non è esauribile in un solo modo. Gesto paradossale, come la religione, l’arte ci immette in una esperienza diretta di qualcosa che non si può esprimere direttamente.

Questo seminario nasce dal desiderio di intrecciare voci diverse per averne una visione. L’esercizio filosofico ci ha allenati a non dare per ovvia la prima risposta, sostando piuttosto nella dimensione della domanda. L’opera d’arte, più di altre realtà, ci invita ad attardarci in questa postura interrogativa. Sospesa. Un appello all’intraducibile che può condurre fino all’arresto della parola. L’arte è propriamente un atto simbolico, che orla visibile e invisibile e testimonia l’esperienza di ciò che è inattingibile dall’intelletto. L’arte attiene alla sfera del simbolo, su cui si affaccia il sacro. L’homo religiosus sente il legame tra tutte le cose, vede la trama unitaria dell’essere che sottende l’apparente dispersione del molteplice. Di questa unità narrano i miti, i riti la celebrano facendola ri-accadere e l’arte vi allude attraverso forme pre-logiche che esprimono direttamente la potenza vibrante del creato.

L’origine dell’arte rupestre ci riporta al tempo in cui l’uomo inizia a lasciare le prime impronte di sé, abbiamo tracce iconografiche nel paleolitico, intorno a centomila anni fa, ancor prima dell’Homo sapiens. Queste figure di senso producono visioni e significati condivisi. I segni del lavoro artistico precorrono di gran lunga quelli della scrittura, che risale appena a cinquemila anni fa, ponendosi in una dimensione primigenia, fondativa dell’humanitas. Il linguaggio visuale dell’arte preistorica è universale e dice qualcosa di profondo della nostra umanità.

Come il gesto precede la parola e l’affettività anticipa il discorso, tanto a livello ontogenetico che filogenetico, così l’opera d’arte, con l’espressività che le è propria, segna il nostro ingresso nel simbolico grazie a cui emerge la relazione intima tra l’essere dell’uomo e quello di tutte le cose. Indagare l’origine dell’arte significa tornare a interrogarsi sull’essenza dell’umano e sul nostro rapporto con la verità.  Ricordare ciò che l’homo oeconomicus ha rimosso, per consegnarci un mondo desacralizzato in cui l’arte è mero oggetto di consumo e ogni aspetto del reale non è che  “cosa tra le cose”.

Il titolo del primo seminario, da cui è tratto il volume, riprende il celebre saggio di Heidegger L’origine dell’opera d’arte; come sappiamo qui Heidegger afferma che nell’opera d’arte è la verità stessa a mettersi in opera. Nell’arte la verità accade, si fa evento storico. “L’arte è porsi in opera della verità dell’ente: portare alla presenza e mantenere in essa ciò che una cosa è, l’essenza del suo essere”.

Questo nodo è essenziale anche nel seminario SAFFO, almeno dal mio punto di vista. Da cinque anni meditiamo intorno al senso dell’arte che non è riducibie al problema del bello, ma testimonia la questione dell’essere, il rapporto col vero e l’identità stessa dell’uomo.

Nel primo seminario gli autori hanno dato risposte che oscillano tra l’ermeneutica e la fenomenologia, e in questa stessa prospettiva con stili del tutto personali. Gli interventi erano stati raccolti nel primo volume edito da Editori della peste in copie limitate che andò presto esaurito; il nuovo volume, rieditato insieme con Jaca Book, inaugura la serie SAFFO e la collaborazione editoriale e culturale tra FE Fabbrica Esperienza e la casa editrice, di cui siamo molto felici e onorati.

Le orbite delle visioni a cui ci hanno condotto i relatori a volte si sono sfiorate, altre respinte fino ad esiti contraddittori, ponendo in frizione le posizioni fino a farle esplodere.

L’esito aperto, irrisolvibile in un punto d’arrivo, mi ha ricordato la magnanimità di Platone che nell’Accademia dava spazio ad Aristotele per le lezioni di retorica e di logica, il quale con l’idea “del terzo uomo” ridicolizzava la sua “teoria delle idee”; sappiamo che l’allievo rimase per vent’anni a fianco del maestro, fino alla sua morte. Platone fu padre di una scuola che dava grande libertà senza preoccuparsi dell’ortodossia. Sollevava egli stesso i problemi grazie a cui metteva in discussione le proprie teorie dandosi “in pasto” ai discepoli, come un novello Dioniso (forse anche per questo fu divinizzato). Lottatore di pancrazio “Platone” fu soprannominato così dal suo maestro di ginnastica per la “larghezza delle spalle”, (il nome viene da platys, “largo”), altri dicono che fu per l’ampiezza della fronte o per la maestà dello stile, certo è che il filosofo mostrò rara vastità di vedute. Perché parliamo ancora di lui? Non solo per i suoi testi immensi, ma anche per lo stile di vita con cui ispirò i discepoli. Le tradizioni si consolidano con l’esempio, nessuna scrittura oscurerà mai la potenza dell’oralità da cui prendono vita le parole scritte.  Panikkar sostiene che “la realtà non può essere conosciuta, compresa, realizzata con un solo organo o solo in una delle sue dimensioni. Ciò trasformerebbe la filosofia in un’altra scienza, qualcosa di simile all’algebra, ma la distruggerebbe in quanto sapienza e ne impedirebbe l’espressione in uno stile di vita umano”.

Ma tornando a noi, sostare sulle stesse domande significa anche perdere il sentiero, inciampare,  tornare indietro. Il tema del secondo anno del nostro seminario è stato Nostalgia dell’origine. L’origine è riaffiorata come desiderio dolente. Queste parole di Rilke sono state l’abbrivio dei lavori: “Nasciamo per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente”.

L’origine non è qualcosa che sta alle nostre spalle, già dato una volta per tutte, ma luogo da realizzare in avanti un poco alla volta, dove nascere in seguito: è una dimensione paradossale che fa le capriole col tempo, esprimendo la necessità di svolgere nel futuro qualcosa che sta prima. Non è solo provenienza, ma destino: sintesi a posteriori di una forma (entelecheia) che preesiste e che tuttavia attende di essere attuata. Metafora vivente del lavoro che si compie qui nel seminario, come nella vita di ogni artista, che diviene ciò che è giorno dopo giorno, nel corso della vita, attraverso la realizzazione delle singole opere.

Ci siamo accorti che più andavamo avanti più era imprescindibile voltarci indietro. Perché forse,  come dice Novalis, “a rigore la filosofia è nostalgia, il desiderio di trovarsi dappertutto come a casa propria”. Siamo stati gettati sulla via del ritorno. Ritorno impossibile ma necessario. L’artista,  esiliato dal senso, con la propria opera costantemente ricuce la frammentazione che sente dentro e fuori di sé, per costruire l’infanzia, il nido, la patria: il luogo in cui poter finalmente nascere tutto intero.

Dopo aver indagato Qual è l’origine dell’opera d’arte, La nostalgia dell’origine, Il visibile e l’invisibile, Lo sguardo del fanciullo, il tema della V edizione di SAFFO  sarà  L’anima e il sublime: da gennaio a giugno 2021 ospiteremo Elio Franzini, Carlo Serra, Paolo Spinicci, Giuseppe Civitarese, Florinda Cambria, Carlo Sini, Roberta De Monticelli e Franco Rella, grati che la comunità di discenti e docenti si sia consolidata e allargata nel tempo.

–  Nella sua prefazione, ci ricorda che la storia della filosofia ci dice molto delle idee ma poco in che situazione queste siano nate. Cos’è e perché è importante conoscere la situazione?

– È significativo che delle vite singolari dei filosofi si conosca molto poco, a parte date di nascita, morte e pubblicazione. Non sappiamo nulla di come sono sorte le teorie. Eppure le idee si generano in situazioni concrete, per qualcuno, con qualcuno, come le invocazioni e le preghiere: nascono e hanno senso in quanto condivise.

Nietzsche ci mise in guardia dalle idee astratte e dai pensieri puri, diffidando di ogni forma di ascetismo e invitandoci a guardare le cose a tuttotondo, con più occhi possibili; rinvenne le sorgenti fisiche delle nostre produzioni mentali che altro non sono che sintomi, sofferenze del corpo. Le filosofie sono propriamente malattie, e i filosofi nient’altro che malati.  Ciò che sta dietro al logos sono proprio le vite umane, troppo umane.

Se, come annuncia l’incipit del Vangelo di Giovanni, “in principio era la parola”, pochi versi dopo “la parola divenne carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. E noi siamo creature relazionali, la nostra identità è plurima, composita. Non è possibile separarci dagli altri, sarebbe come tagliarci una gamba o un braccio, con la differenza che non si saprebbe dove questi comincino e dove finiscano. “Io è un altro”. L’alterità ci costituisce nel profondo. Non è pensabile un Io compatto, autosufficiente, siamo tutti scissi, articolati, interdipendenti. Pertanto, malgrado ci si affanni a rivendicarne la paternità, le idee non si possiedono né si possono ingabbiare: se ne viene attraversati. Si è tutti co-creatori e co-creati. Non abbiamo una psiche, ma siamo contenuti nella psiche.

Le idee sorgono in momenti felici, in virtù dello scatenamento erotico di due creature grazie a cui il tertium non datur appare. Le situazioni sono eventi carnali, immersi in atmosfere sensibili, dove lo spirito si accende.

Con grande onestà intellettuale nella sua autobiografia Nietzsche confessa che fu in grado di scrivere lo Zarathustra solo dopo aver incontrato Lou Andreas Salomé, la donna che amò senza essere ricambiato. Questo sposalizio dell’anima rese possibile la maturazione del proprio pensiero. Con sincera riconoscenza il filosofo omaggiò l’amica dicendo che per il proprio componimento musicale Inno alla vita avrebbe voluto porre le parole di una poesia di lei, piena di pathos tragico. La poesia di Lou recita così “Non hai altra felicità da darmi, bene! Hai ancora la tua pena”.

Purtroppo oggi viviamo nel tempo dei narcisi in cui si dichiara con orgoglio di essersi “fatti da soli”, occultando il debito concreto verso coloro con cui e grazie a cui si è divenuti chi si è.

Confinati nella superstizione del soggetto, cullati in un paradigma culturale che celebra il potere invece che l’amore, anche i filosofi, come tutti gli altri, temono di perdere lo scettro e spesso si rivelano incapaci di vera gratitudine. La celebre disputa tra Leibniz e Newton sull’invenzione del calcolo infinitesimale, se da una parte dice dell’importanza nella nostra cultura di attribuirsi il merito della scoperta, (a differenza delle culture tradizionali dove si privilegia l’originario sull’originale), dall’altra, sapendo come è andata in realtà (non vi fu nessun furto di proprietà intellettuale, vi erano arrivati assieme per vie diverse), ci fa riflettere sul fatto che le idee non sono proprietà di nessuno. Ogni tempo ha il proprio Spirito. E questo è qualcosa di comune e condiviso che trascende la soggettività chiusa e riguarda una coscienza “più grande”.

Per accedervi dobbiamo rinunciare alla riflessione del pensiero, che va a caccia di oggetti separati dal soggetto che li pensa, per accedere alla dimensione simbolica.

Il veicolo del logos è il concetto, quello del simbolo la fede. Dice Panikkar in Mito, simbolo, culto:  il simbolo “è proprio quello che non è in se stesso, che non è a sé – che non ha aseità. Il simbolo non è ciò che mette in relazione: è la relazione stessa (anteriore ai termini della relazione)”. Il simbolo non è oggetto di ermeneutica, non può essere pensato né spiegato, è una “vivenza” e indica la partecipazione a una vita di cui non si è proprietari, supera qualsiasi principio di proprietà. “È  un avvertire diretto, quasi un ‘rendersi conto’ che possiamo forse chiamare esperienza.” La visione del simbolo è sia interna che esterna, né solo oggettiva né solo soggettiva, “per questo un simbolo senza amore, senza simpatia, senza partecipazione (…) non è un simbolo”. La relazione stabilisce una co-appartenenza reciproca che accade grazie alla dimensione simbolica. “La relazione personale si stabilisce quando due interlocutori obbediscono al simbolo che li unisce”. Il centro di gravità non è in nessuno dei due poli, ma “sta nella partecipazione alla stessa coscienza simbolica”. Essa non è proprietà di nessuno, piuttosto si impadronisce di noi che ne siamo avvolti, contenuti. “La relazione è primaria, è ciò che ci costituisce in un tu e in un io. In questa relazione ci sei tu e ci sono io. Il simbolo è questo: una relazione vissuta”.

Pertanto, dobbiamo assumere un atteggiamento ricettivo, femminile, passivo, “per consentire che l’essere si esprima, che la realtà parli in e tramite me, in e tramite gli altri (dato che io non sono l’unico portavoce)”  perché “non è il pensiero che va all’essere, è l’essere che parla e noi nel recepire, nell’ascoltare questo ‘parla’, lo pensiamo. L’artista conosce (sa) tutto questo, i pensatori invece lo hanno dimenticato”.

–  Lei affronta uno dei temi oggi particolarmente attuali. Quello di una peculiarità della mente femminile. Esiste una mente androgina? Quali sono le sue caratteristiche?

– Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé ci parla della nascita dei capolavori della letteratura e mostra come essi siano il frutto di molti anni di lavoro comune, che supera le generazioni e i generi: ciascuno sedimenta e traduce il lavoro degli altri e ne viene influenzato, che ne sia o meno consapevole. Esserne coscienti può mutare l’invidia in gratitudine.

I capolavori hanno una natura androgina poiché integrano una qualità femminile. Panikkar parla del femminile per ciò che riguarda la natura del simbolo, che è precisamente la cifra dell’arte.

Ma è sempre Platone nel Simposio, col mito dell’androgino, che descrive Eros come forza ri-compositiva di due metà divise che si cercano disperatamente per tornare ad essere un intero.

I due poli, maschile e femminile, si completano reciprocamente nell’amore umano, nutriti dal desiderio di ricomposizione. Ma anche la poesia ha bisogno di un “padre” e di una “madre”. Se nella procreazione fisica i due principi sono divisi, tra uomo e la donna, l’artista, che genera nell’anima, li riunisce in sé: egli è costitutivamente doppio, bisessuato. La sua mente è simbolica perché sa fare dei due, l’uno.

Ogni capolavoro artistico è tensione e riunificazione degli opposti e nasce da tale mente androgina. Shakespeare, Coleridge, Keats, Sterne Copwer, Lamb, Austen, dice la Woolf, avevano questa qualità. Nella mente maschile-femminile tipica del genio ha luogo la fusione tra i contrari: essa diviene pienamente fertile perché ogni parzialità è annullata. Ciò significa che essa è “risonante e porosa; che trasmette l’emozione senza ostacoli; che è naturalmente creatrice, incandescente e indivisa”. Quando l’opera è compiuta non c’è traccia della lotta degli opposti che l’ha preceduta, la sintesi creativa cancella ogni separatezza e unilateralità isolata.

Ora, noi viviamo una società con uno sviluppo ipertrofico dell’Io a scapito di altre funzioni, dove la coscienza prevale sull’inconscio e il maschile sul femminile. L’artista, attingendo al profondo dell’inconscio (singolare e collettivo) ricompone la frattura e compensa lo squilibrio del canone culturale. Non è un caso che i grandi artisti abbiano spiccate qualità femminili perché sono in grado di compensare l’eccesso del polo dominante con una forte spinta contraria, annullando lo squilibrio dettato dall’unilateralità prevalente, di cui tutti soffriamo, per realizzare nuovamente l’armonia tra i contrari.

Le menti androgine, grazie a questa capacità simbolica, sintetica, ristabiliscono la centralità del Sé sulla parzialità dell’Io, realizzando la totalità psichica. La totalità ottenuta con il lavoro artistico, riguarda non solo gli artisti, ma ognuno di noi. Nel processo di individuazione ciascuno può integrare i diversi aspetti scissi della personalità.

Si dice che l’amore salvi. L’arte guarisce.  Quando un artista, grazie alla ferita personale raggiunge gli archetipi universali, attraverso il gesto artistico, che è per natura simbolico, sana il proprio dolore e contemporaneamente cura quello degli uomini del suo tempo.

Se il simbolo è tensione erotica al ricomponimento, l’arte ci porta per amore all’amore. Come dice Valéry, l’amore non è solo mezzo ma fine dell’arte, è in sé stesso la creazione più grande. “Non posso – scrive Valéry – abbandonare questa che è l’azione per eccellenza, perdere questo canto delle mie mani”. L’amore è l’opera d’arte che gli amanti proiettano insieme nel mondo. “L’amore è un’opera – l’opera è atto d’amore. Questo nel senso più preciso”.

 

SAFFO

Sperimentazioni artistiche filosofiche fuori orbita.

Qual è l’origine dell’opera d’arte?

Dramma in cinque atti filosofici

A cura di  Irina Casali

Jaca Book, 2020

 

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