di Lia Fiore, Francesca Sartor, Chiara Ciano
- Giovanni, Lucia, la classe
Giovanni è un bambino di 9 anni che presenta una Diagnosi di Ritardo Mentale non specificato con grave compromissione funzionale e con assenza di linguaggio. Ha una sensibilità spiccata per tutto ciò che gli accade attorno; l’intenzionalità comunicativa è molto forte verso le sue figure di riferimento e questo comporta una richiesta di attenzione che invade l’adulto in modo totale e, per certi aspetti, gravoso. Frequenta la terza classe della scuola Primaria, con altri 18 bambini che lo adorano e lo accolgono quotidianamente con affetto.
Lucia è un’insegnante di sostegno, l’unica nell’istituto con specializzazione ma in realtá ancora con poca esperienza, le viene assegnato proprio Giovanni. Accetta la sfida con un pizzico di preoccupazione di fronte ad un alunno con una patologia cosí complessa. Prevale l’entusiasmo di chi vuole essere presente con volontá e determinazione nell’intento di trovare le abilità residue in ognuno dei bambini speciali che le vengono affidati e di alzare, anche se solo di una misura infinitesimale, il loro livello di competenza.
Iniziano tra loro i primi tentativi di approccio, i primi contatti tra mille difficoltá. Nel primo biennio, Giovanni non ha beneficiato della continuità dell’insegnante di sostegno, collezionando una serie di “abbandoni” che non hanno contribuito alla serenità del team docenti né, tantomeno, del suo nucleo familiare. Giovanni presenta una serie di comportamenti problema (aggressività e stereotipie), che lo allontanano dall’inclusione comunitaria nel gruppo dei pari. La prima parte del lavoro, quindi ha l’obiettivo di intervenire sulla strutturazione di alcuni comportamenti con strategie cognitivo-comportamentali mirate a diminuire la pericolosità delle sue condotte e garantire quanti più punti di contatto con la vita di classe ma nella pratica, questo, risulta molto faticoso. Le colleghe di Lucia le esprimono molta solidarietá, vorrebbero fare di piú, fornirle piú supporto, ma anche loro non hanno a disposizione validi strumenti, schiacciate tra i programmi da portare avanti e gli altri bambini.
Nasce comunque una relazione tra Giovanni e Lucia, una presenza reciproca che non ha ancora trovato peró quell’input perché diventi presenza che crea valore. I tentativi aumentano, Lucia analizza i bisogni ma non sa come perseguire gli obiettivi individuati. Manca un lavoro di rete, l’insegnante non sa a chi chiedere aiuto. I Servizi Specialistici forniscono risposte minime e orientano la docente a lavorare più sui bisogni primari di Giovanni “lasciando perdere l’impossibile…”. Intanto i mesi trascorrono e i progressi sembrano non esistere nonostante l’impegno e la perseveranza. Ben presto insorge lo scoraggiamento e si insinua in Lucia la tentazione di abbandonare, nessun biasimo, altre hanno desistito, vinte dalla complessitá del caso, dalla fatica di rispondere alle molte esigenze di Giovanni, alla mancanza di supporti professionali e alla burocrazia che vuole risultati documentabili. Lucia inizia un viaggio, purtroppo solitario, rimasta sola nella sua difficoltá logorante, non ha trovato nel suo ristretto gruppo di lavoro quello di cui avrebbe avuto bisogno. Accompagnata solo da mille dubbi e riflessioni, sensi di colpa, una grande amarezza e impotenza, alla ricerca di una presenza efficace e vitale per lei, dopo 300 Km arriva in Toscana dove frequenta un Master di Specializzazione in Pedagogia clinica. Qui i dubbi e le riflessioni sono accolti, finalmente la sua sete viene soddisfatta, attraverso la scoperta dell’“approccio sistemico relazionale” alcune delle sue domande trovano risposte e il confronto con altri professionisti in campo pedagogico le fornisce quell’intuizione che la fa tornare da Giovanni ogni volta con nuove idee.
Prende corpo un progetto che potrebbe fornire la chiave per aprire quelle porte chiuse di fronte alle quali tante volte si è ritrovata a sbattere. Esiste un varco percorribile, attraverso la sensorialitá la disabilitá trova il suo legame con una nuova conoscenza del mondo che è fisica, emozionale, proprio come l’esperienza di un bambino piccolo alle prese con le sue prime scoperte. Inizia cosí un altro viaggio, adesso, quello di Giovanni e Lucia. Il progetto viene, a questo punto, accolto favorevolmente, condiviso e concordato con il team docenti, acquisisce visibilitá e diventa parte integrante della programmazione nella classe. Attraverso la stimolazione sensoriale Giovanni inizia un percorso di apertura, di reale relazione con Lucia ma anche con alcuni compagni di classe in piccolo gruppo che proprio grazie ad attivitá insolite ma coinvolgenti, perché primordiali e universali, riescono ad allacciare un rapporto piú profondo con Giovanni, finalmente lo vedono davvero, la sua presenza acquista dignitá, inizia un dialogo, ancora senza parole ma è un inizio. Il progetto si apre a tutta la classe, valorizzato anche dalle altre insegnanti che ne godono e accolgono con entusiasmo l’esperienza che diventa collettiva, inclusiva. Giovanni e Lucia insieme iniziano a dare forma alla loro presenza nel contesto scuola. Sarebbe stato necessario che Lucia avesse trovato in quel contesto il sostegno e le risorse per affrontare la sua fatica, avesse trovato una presenza professionale e competente per fronteggiare l’insicurezza e stimolare nuove energie. Questa presenza positiva poteva essere quella del pedagogista, un professionista dell’osservazione e dell’azione in educazione che riesce a guidare e far riflettere su aspetti dell’azione educativa che talvolta, per il troppo coinvolgimento o la troppa fatica, c’è il rischio di non vedere, di non approfondire, lasciandosi trascinare nella routine del fare, abbandonando i “perché” e i “come”.
Protagonista di questa vicenda sembra essere l’assenza. Assenza per Giovanni di una figura che riuscisse a stimolarlo adeguatamente. Assenza per la classe impoverita dalla non presenza di Giovanni se non in forma fisica, ma non visto, non parte della classe perché estraneo al processo di apprendimento comune. Tutto questo peró ha generato la ricerca di una presenza che potesse essere positiva, concreta, ha gridato con forza il proprio diritto ad avere un reale supporto nel gruppo di lavoro, ad un progetto pensato e strutturato per quel bambino, ad un gruppo classe arricchito della nuova presenza che é diventata scoperta di nuove vie di comunicazione e relazione.
- La presenza del team
Questo intervento è stato possibile grazie alla presenza e al confronto con figure professionali esterne all’ambito strettamente scolastico, ma anche a quelle interne alla scuola attraverso la successiva progettazione in team. Come nota Parente (2015) “Le scelte pratiche che gli educatori fanno ogni giorno dovranno essere il frutto, oltre che delle competenze di ciascun educatore in ambito pedagogico, anche delle condivisioni, discussioni ed elaborazioni del gruppo. Questi momenti di confronto permettono a ciascun componente del gruppo di crescere nella consapevolezza di ciò che si sta facendo.”. In tale descrizione del lavoro di gruppo ci sono tre espressioni significative, parole chiave che possono sottendere il concetto di presenza: scelte pratiche, confronto e crescere nella consapevolezza.
Ogni scelta pratica che si trasforma in azione ci parla di cosciente presenza perché sia efficace che è possibile riassumere nella parola “progettazione”, la quale crea ordine, struttura, sicurezza. Dà la possibilità di inserire un intervento in un contesto, di cui può e deve essere parte integrante, con obiettivi realistici e non confliggenti con il sistema a cui appartiene. Questo è tanto più vero quanto più si riesce a lavorare in sintonia con il gruppo di colleghi sia in fase progettuale che in fase di verifica di quanto attuato. Il confronto, implica una presenza per sé stessi e verso gli altri, chiarificazione di idee personali, comunicazione del proprio pensiero, accoglienza e comprensione del pensiero altrui. Infine, crescere nella consapevolezza: il lavoro di gruppo è un mezzo per la crescita personale e professionale in un reciproco e continuo scambio e richiede la presenza che è ricchezza di energie messe in comune, infatti “per un docente entrare in un gruppo collaborativo significa crescere, significa diventare migliore in termini di esperienza, di competenza, di relazione con l’altro.” (Berger in “Scuola ticinese”, 2015). L’assenza di una tale condizione può stimolare due opposti atteggiamenti: lo scoraggiamento, oppure, la ricerca.
È accaduto che, di fronte alla necessità di stimolare coinvolgimento e motivazione nell’apprendimento, si sia risposto con la ricerca e il confronto, soddisfacendo l’esigenza di strumenti e nuovi punti di vista. Si è andati alla ricerca di risorse che non era possibile trovare nel gruppo di lavoro ristretto e questo non si è rivelato un tradimento, ma nuova linfa per l’intero team che in fine si è scoperto accogliente verso i risultati, coinvolto nell’esperienza, vissuta e presentata come ricchezza. Nessuno può dire cosa sia necessario a superare una condizione di difficoltà vissuta, poiché nessuno si trova precisamente nella medesima condizione “Il sapere che serve alla vita è qualcosa che non si può accumulare e trasferire, ma che si costruisce alla luce dell’esperienza e che costruendosi si trasforma e allo stesso tempo trasforma il soggetto che lo elabora” (Mortari 2008). Quanto è stato sperimentato fa pensare che comprendere la propria difficoltà e i propri limiti, cercando la soluzione attraverso l’approfondimento e l’esperienza, vuol dire essere presenti a sé stessi. Riuscire a portare e condividere con sincerità e umiltà questa nuova consapevolezza all’interno di un gruppo di lavoro, è un grande gesto di collaborazione e di fiducia, esprime il desiderio di far sentire la propria presenza nel gruppo come risorsa, è un atto di autoformazione che si fa formazione di gruppo. É una buona pratica far sì che le esperienze maturate personalmente possano essere riversate là dove siamo presenti e che il gruppo sappia leggere e accogliere con entusiasmo e senso critico, nel senso kantiano del termine, il contributo del proprio membro: “È solo quando si abbandona la logica dell’Io per accogliere quella del Noi che si apre lo spazio dell’incontro con l’altro” (Mariani, Falaschi, Farahi 2017).
Guardando a quanto è accaduto attraverso la teoria ecologica dei sistemi di Bronfenbrenner (1986), che è rivolta ad analizzare l’influenza dei diversi gruppi sociali sulla vita di una persona, ecco che si concretizza anche in questo caso un continuo scambio di trasformazioni poiché ogni gruppo è formato da individui in relazione con altri contesti ed è questo un aspetto che caratterizza l’agire di ogni individuo e ci ricorda al contempo l’unità in cui siamo presenti. Quattro atteggiamenti sono stati messi in atto in questa storia: l’ascolto, il dialogo, il sostegno e l’empatia; insieme hanno reso possibile la concretizzazione di una vera comunicazione, la quale testimonia la presenza cosciente e vitale che tutti i professionisti in ambito educativo sono chiamati ad essere. Senza uno sguardo volto alla conoscenza di sé e del proprio operato, in ottica anche critica, è difficile migliorare il proprio lavoro, renderlo adeguato al bisogno e degno delle potenzialità che gli allievi e le allieve, normodotati o meno, ci portano e che costituiscono la materia prima del nostro lavoro. In realtà, la riflessività è una pratica che va al di là del lavoro di educatrice o di docente, è uno strumento professionale che è difficilmente abbandonabile quando si svestono gli abiti da lavoro e quindi resta a disposizione per la propria vita personale al di fuori del contesto educativo in cui si opera, mettendosi a servizio di quell’autoindagine che Mortari (2008) dice essere uno degli elementi necessari alla cura di sé. Proprio per questo la riflessività, competenza trasversale, è riconosciuta di fondamentale importanza per chi attua azioni educative poiché ne connota l’intenzionalità sul piano educativo e formativo (Sarsini e Di Bari, 2015).
La necessità di una continua e attenta progettazione, l’importanza del lavoro di gruppo e la capacità di autoriflessione scoperti e sperimentati in questo percorso, sono tre diverse declinazioni del concetto di presenza in educazione, nell’intento di far emergere, rendendole presenti a tutte le persone coinvolte, le potenzialitá di allieve e allievi, il loro sapere ed essere agenti attivi del proprio apprendimento.
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BIBLIOGRAFIA
Berger E., Per una cultura della collaborazione, in “Scuola ticinese”, a. XLIV, n. 322, 2015.
Bronfenbrenner U. (2002). “Ecologia dello sviluppo umano”, collana “Biblioteca Mulino”, Bologna.
Mariani, A. (2015). “Cultura della qualità nei servizi educativi per la prima infanzia” Trento, Erickson.
Mariani, A. Falaschi, E. Farahi, F. (2017). “L’agire pedagogico e la comunicazione formativa” per prevenire il burnout”. Professione Formazione, N. 1 – marzo 2017, Anno 8
Mortari, L. (2008). “Conoscere se stessi per aver cura di sé”. Studi sulla formazione, 2-2008, pag. 45-58 ISSN 2036-6981 (online), © Firenze University Press
Parente M. (2015). “Orientamenti di qualità nello sviluppo dei servizi educativi per la prima infanzia”. In “Cultura della qualità nei servizi educativi per la prima infanzia” a cura di A. Mariani, Trento, Erickson.
Sarsini, D. e Di Bari, C. (2015). “Competenze e professionalità degli educatori/insegnanti”. In “Cultura della qualità nei servizi educativi per la prima infanzia” a cura di A. Mariani, Trento, Erickson.