EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Le ali dell’autostima. Intervista a Sergio Messina

di Luigi Serrapica

Sergio Messina, Neuropsichiatra infantile presso l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catania, dal 2017 è il presidente dell’Associazione Italiana Dislessia (Aid). L’associazione, che ha sede a Bologna e coordinamenti regionali sparsi in tutta Italia, si pone l’obiettivo di promuovere ricerca e formazione sui Dsa (Disturbi Specifici dell’apprendimento) e per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, dentro e fuori il mondo scolastico. A margine del recente XVII congresso nazionale dell’Aid, il dott. Messina ha accettato di rispondere ad alcune domande su questo fenomeno che, secondo recenti stime, interessa – solo nel nostro Paese – circa due milioni di persone.

– Si sente molto parlare del tema della dislessia oggi. Un buon segnale, ma qual è la situazione oggi?

– Diciamo che a partire dal 2010, anno di introduzione della legge 170 sui Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), fino a oggi si è assistito ad un aumento di diagnosi di questi disturbi perché è diventato operativo un sistema di rete che fortunatamente funziona diversamente da come avveniva in precedenza. Inizialmente questa norma non è stata molto ben vista: è stato fatto un gran lavoro di partenza, ma manca ancora tantissimo per quanto riguarda la rete. Rete significa scuola, servizi, genitori e i ragazzi stessi. La legge 170 ha permesso effettivamente di far emergere un sommerso che non c’era: sebbene i dati che fornisce il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca Universitaria siano a zigzag, le percentuali che abbiamo a disposizione indicano il 3-4% di studenti con Dsa nelle nostre scuole. Ci sono chiaramente con dei picchi molto più alti in alcune situazioni, come per esempio negli istituti tecnici: esiste la tendenza a dirottare presso questa categoria di scuole secondarie gli alunni con DSA, perché in molti pensano che qui si studi di meno. In realtà non è vero.

– Tutto questo riguarda bambini, ragazzi, adolescenti, tra i banchi di scuola. Una volta usciti dalle istituzioni scolastiche cosa succede?

– Oggi riusciamo a far sì che i ragazzi che ne hanno le possibilità possono raggiungere le Università e conseguire risultati importanti: chiaramente non riteniamo che tutti debbano essere per forza bravissimi. Stiamo iniziando a considerare anche altri aspetti della vita quotidiana, come per esempio al conseguimento della patente di guida, ma anche il lavoro. Dobbiamo considerare che sono passati circa vent’anni anni da quando la ricerca italiana, in particolare le neuroscienze, ha cominciato a occuparsi della dislessia, prima da noi arrivavano solo studi stranieri. Ebbene, adesso stiamo osservando la prima ondata di adulti che hanno avuto la diagnosi alle scuole elementari, in classe seconda oppure nella terza. Quello che abbiamo adesso davanti agli occhi è un quadro diverso da quello che avevamo sette anni fa.

– E in questo nuovo quadro la Legge 170 è ancora adeguata oppure ha bisogno di una revisione?

– Diciamo che in questi anni la Legge ha retto, ma e viviamo in un’era in cui nell’arco di sei mesi cambia tutto. La 170 ha retto bene e ha portato un grande risultato: prima, nella scuola, molti ragazzini utilizzavano, in quanto dislessici, le misure del sostegno. Non era giusto neanche per ragazzini che ne avevano effettivamente diritto: con questa legge e le altre direttive ministeriali abbiamo dato il sostegno a chi ne aveva diritto. Oggi, la Legge 170 probabilmente ha necessità di essere ridiscussa in alcuni ambiti, bisognerebbe capire il motivo per cui alcune cose non funzionano. Per esempio, non sempre la legge è applicata dalle scuole o dai servizi sanitari, anche sul fronte delle diagnosi: capita anche che una famiglia richieda una visita dal Neuropsichiatra e la prenotazione venga fissata dopo un anno e mezzo. È evidente che qualcosa non funziona ed è un problema serio, soprattutto durante l’età evolutiva.

– Cosa si potrebbe ipotizzare in questi casi per snellire le procedure? Il problema delle liste d’attesa nella sanità pubblica è annoso e di difficile soluzione.

– La Scuola, per esempio, potrebbe fare prevenzione agevolando le eventuali diagnosi precoci: quando la Scuola individua un ragazzino a rischio durante la prima elementare e la diagnosi arriva in quarta, abbiamo perso tutti. Se si riuscissero a individuare i ragazzini a rischio, in maniera precoce e più efficace a scuola, allora probabilmente arriverebbero meno richieste di valutazione. Si snellirebbero i tempi delle diagnosi. Come associazione, stiamo cercando di capire se e come si possa ridiscutere una parte della Legge 170, stiamo ragionando con il Ministero e ci confrontiamo con le associazioni scientifiche. Vi è una Consensus Conference, una riunione aperta ad associazioni e realtà che operano sul tema, che sta lavorando in questo campo.

– Da un po’ di tempo, per la scuola,  i DSA sono rientrati nella più ampia categoria dei cosiddetti Bisogni Educativi Speciali (BES). Come possono convivere queste due categorie?

–  Quella sui DSA è una legge, mentre per i BES esiste una direttiva ministeriale: sono due situazioni ben diverse. La direttiva sui BES in sé è una buona direttiva perché fornisce alla scuola un’autonomia di intervento importante. E’ un aspetto che le scuole non recepiscono sempre. In realtà, la direttiva è concepita in un’ottica ben precisa: nel Bisogno Educativo Speciale rientra di tutto proprio per permettere alla Scuola possa intervenire, sempre con l’accordo dei genitori, applicando una programmazione specifica. Cioè ricorrendo al cosiddetto PDP (Piano Didattico Personalizzato) uguale a quello che si utilizza per i DSA, studiando sistemi compensativi per l’alunno, anche per l’esame al termine del percorso scolastico.

– In questo processo qual è il ruolo dei medici?

Da Neuropsichiatra infantile faccio ricorso alle prerogative della direttiva, perché da medico devo avere il follow-up clinico e devo essere messo nelle condizioni di capire come evolve la situazione. Se un pediatra segue un bambino che ha un’altezza inferiore rispetto a quello che è considerato nella norma, chiederà di rivederlo dopo qualche mese per ripetere la misurazione: se l’altezza rimanesse uguale nella seconda misurazione, allora dovrà intervenire. Allo stesso modo nel campo dei DSA: posso suggerire il ricorso agli strumenti compensativi quando non me la sento di proporre subito una diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento. In questo caso, non nego il DSA, ma dichiaro che è una possibilità. Nello stesso tempo suggerisco alla Scuola e ai genitori il ricorso alla normativa sui BES: in questa fase, loro si rinforzano, lavorano in maniera diversa e più attenta. Dopo sei mesi rivedo il bambino e, così, posso valutare se in quel periodo è migliorato oppure no, se la curva delle prestazioni è migliorata.

– Parliamo del mondo del lavoro: solo alcune Regioni in Italia hanno adottato una normativa specifica per i DSA. Cosa si sta facendo in concreto?

– Fino a tre o quattro anni fa, il DSA riguardava solo l’ambito della Scuola. Negli anni c’è stato un lavoro di ricerca, di approfondimento clinico e, piano piano, si è cominciato a lavorare sull’università e sul lavoro. La legge potrebbe avere lo scopo non tanto nell’indicare le difficoltà ma nel far emergere le potenzialità dei soggetti. Fare un percorso propositivo nei ragazzi DSA comporta sensibilizzare chi offre una posizione lavorativa, valorizzandone le potenzialità di creatività. Non tutti i DSA sono geni, ma la loro flessibilità cognitiva potrebbe essere utilizzata. In realtà, al momento sta circolando in Parlamento un disegno di legge in questo senso.

– E per quanto riguarda le selezioni e i concorsi?

– Certo, se io faccio un concorso o un test attitudinale con tutta una serie di domande è possibile andare incontro a problematiche. Per esempio, l’esame per la patente di guida è una grandissima seccatura: ci sono tempi brevi. Ci si può esercitare, certo, però si tratta di una selezione a tempo: stiamo cercando di lavorarci. Inoltre, se devo misurare le capacità attitudinali di una persona con un test, probabilmente non ottengo buoni risultati. Ma qui si apre il discorso sulla validità del quoziente intellettivo.

– Intende dire che il valore numerico del quoziente intellettivo non è da considerarsi attendibile?

Spesso capitano dei ragazzini geniali che hanno un QI pari a 78. Il punto non è il valore numerico, ma come esso viene ricavato: in alcune performance ci possono essere delle cadute ma su altre possono presentarsi dei picchi. Questa discrepanza va spiegata. Se mi attengo al test attitudinale o all’esito del quoziente intellettivo mi limito. Il buon senso mi suggerisce di far capire come possiamo lavorare sulle attitudini della persona. Occorre dare a queste persone la possibilità di valorizzare quelle loro potenzialità, sarebbe un peccato e perderemmo delle risorse enormi.

– In questo ambito potrebbe essere utile partire con dei protocolli d’intesa con associazioni o rappresentanti del terzo settore.

Incentivare il volontariato è un investimento anche della nostra associazione. Penso che uno dei compiti di AID sia di lavorare direttamente sui ragazzi. MyStory da diversi anni gira l’Italia ed è un’esperienza dei ragazzi, raccontata dai ragazzi, con il linguaggio dei ragazzi. Il volontariato può diventare uno spazio fondamentale di crescita dell’autostima. Come adulto posso essere d’aiuto sapendo quello che stanno affrontando i ragazzini più piccoli.

Il tema di questo numero della rivista è la leggerezza: come si coniuga con la dislessia?

– Quanto pesiamo noi sulla mente dei ragazzi? E quanto pesa su di loro la diagnosi? C’è un mondo terribile di voti bassi, di 3 e di 4, di nottate a studiare, di genitori che leggono al posto dei figli, di messaggi d’amore che non possiamo leggere. Forse anche noi dobbiamo far vivere con più leggerezza il disturbo e non caricarlo tanto. È un disturbo, per molti è una caratteristica, con alcune conseguenze. Ma la pesantezza con cui lo affrontiamo è tutta autostima che togliamo, tutta autonomia, indipendenza e libertà di apprendere che, in fondo, sottraiamo.

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