EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Le radici della physis:  i Greci e la natura delle cose da Omero a Epicuro

 

 

“Eines zu seyn mit Allem, was lebt, in seeliger Selbstvergessheit wiederzukehen in’s All der Natur, das ist der Gipflel der Gedanken und Freuden, das ist die heilige Bergeshöhe, der Ort der ewigen Ruhe … [614]”.[1]

 

di Dino De Sanctis

 

Nella seconda lettera inviata da Iperione a Bellarmino nel I libro de “Yperion oder der Heremit der Giechenland”, Friedrich Hölderin incastona questa commossa esclamazione all’interno di una enfatica klimax.

            Dinanzi allo spettacolo della Natura idealizzata, in una Grecia aggiogata dal barbaro, erompe improvviso un sentimento di stupore, cardine nel Romanticismo tedesco, destinato a influenzare la cultura europea nell’Ottocento. Dopo aver riconosciuto che essere uno con il Tutto è proprio del divino e prima di concludere che essere uno con il Tutto conduce verso la condizione di assoluta superiorità che si possa verificare tra le forme viventi, Iperione individua il motore principale alla base del rapporto tra storia e umanità ripreso da Hölderin al termine di questo romanzo epistolare: la spiritualizzazione della natura in vista dell’antico legame che riconcilia l’uomo con l’assoluto. La prospettiva romantica che traspare in questa pagina è saldamente connessa a un’ambientazione programmatica, del resto ben esplicitata sin a partire dal titolo dell’opera: la Grecia. Non è un caso. Prima di essere un eremita, Iperione è un esule, sradicato dalla sua terra d’origine, ora vista nel vagheggiamento del narratore come culla ideale, centro propulsore, pura espressione di quello che è l’universo primigenio della natura. Un universo con il quale la migliore sorte che può spettare ai mortali consiste, per l’appunto, nella reintegrazione totale, condotta nell’oblio al quale Iperione allude, avvinto dalla speranza che l’umanità perda ogni traccia di sé.[2] Nelle parole di Iperione il termine “Natur”, tanto chiaro nel suo etimo, diventa valore trascendente, sensazione divina, vertigine assoluta, dunque parola di difficile traduzione, perché parola che va al di là di ogni significato scontato, tipico, comune. Oggi, invece, siamo abituati ad adoperare questo sostantivo con varie e spesso nuove accezioni, vista l’ampia sfera semantica che questa parola abbraccia sia in italiano sia in altre lingue europee.[3] Abbiamo, ad un tempo, relegato la radice greca –phy, alla quale si riconduce per l’appunto physis, congiunta sul piano logico all’idea di nascita, solo a vocaboli specifici che indicano un preciso campo del sapere per lo più scientifico. Parole come “fisica”, “fisiatra”, “ipofisi”, mantengono in sé la traccia indelebile di una primitiva radice indoeuropea, *bhū, alla quale si può ricondurre il più famoso fuit latino, una radice da sempre oggetto di un’attenta riflessione nell’ambito della linguistica comparata per la sua alta produttività semantica.[4]

Sotto questo punto di vista, non bisogna dimenticare che la physis da subito nella produzione letteraria greca attrae interessi eterogenei a partire da molteplici angolature. Ripercorrerle in rapporto alla storia della physis nello sviluppo del pensiero dei Greci, tuttavia, sarebbe un compito per me impossibile da assolvere non tanto per la quantità di pagine delle quali questo argomento avrebbe bisogno quanto per le capacità che un compito del genere richiederebbe. E soprattutto sarebbe difficile comprendere quale tipo di physis porre al centro dell’indagine, quali referenti considerare, in quale ottica osservare la miriade di forme tramite le quali l’uomo è entrato in contatto con la natura stessa. Nelle osservazioni che seguono, pertanto, cercherò di delineare, attraverso una selezionata e – certo agli occhi dei più esperti – limitata serie di autori, una parte del cammino articolato e spesso intrecciato lungo il quale nella produzione letteraria arcaica, classica ed ellenistica è stata osservata la physis nelle sue molteplici caratteristiche.[5] Questa analisi mira a un fine forse ambizioso, certo impegnativo, spero tuttavia perseguibile: mostrare come, a poco a poco, la riflessione dei Greci, in ampio senso, abbia collegato e ricondotto alla physis le modalità in virtù delle quali all’uomo è concesso di agire correttamente, di sviluppare una propria etica, nel momento in cui per l’appunto conosce e accetta la verità – o le verità – che regola la natura stessa delle cose.[6]

A) In principio fu Omero… 

Nel X libro dell’Odissea, per la prima volta, nella produzione letteraria occidentale fa il suo ingresso il termine physis in maniera silenziosa tanto da far credere al lettore contemporaneo, abituato alla decodificazione etimologica – e non solo – della Kunstsprache epica, che per il fruitore di Omero questo termine fosse pienamente comprensibile e certo non bisognoso di ulteriori spiegazioni.

Nel palazzo di Alcinoo, a Scheria, è da poco giunto naufrago Odisseo dopo aver abbandonato la dimora di Calipso. Qui, durante una notte ambrosia destinata alle parole, l’ospite inizia a tessere un racconto sulle peripezie alle quali gli dei, al termine della guerra di Troia, lo hanno costretto per mare. Sono gli Apologoi, il sontuoso affresco di storie che Odisseo narratore, maschera e voce del poeta, offre in un lungo flash back, all’estasiato pubblico dei saggi Feaci.[7] Odisseo racconta senza indugi: ricorda gli ingiusti Ciclopi, descrive l’arrivo sull’isola natante di Eolo, inorridisce dinanzi ai Ciconi giganti e i Lotofagi crudeli, ripercorre le avventure occorse in un occidente spaventoso tra Scilla e Cariddi, il successivo sbarco a Trinacria. Odisseo rivela di essere giunto presso l’entrata dell’Ade, il regno dei morti, di aver visto qui la madre Anticlea, di aver ascoltato la voce dell’indovino Tiresia, di aver ammirato nobili donne, eroi a lui coevi e quelli del tempo passato. Ma Odisseo propone anche come sosta impegnativa l’arrivo presso un’altra terra nella quale incontra una dea dotata di poteri maligni: Circe. La vicenda di Circe con le sue malie metamorfiche è nota: i compagni dell’eroe sono trasformati in maiali all’improvviso quando entrano nel palazzo della dea. Solo Odisseo riesce a sfuggire a questa tremenda condanna: la degradazione che vede esseri razionali diventare animali grugnanti.[8] Uomo polytropos, dal vasto ingegno, uomo polymetis, dall’astuta mente, infatti, conosce un rimedio.

Il soccorso giunge dagli dei grazie a Ermes che, prese le sembianze di un giovane, si fa incontro all’eroe e rivela la condizione dei compagni che da tempo non tornano alla nave. Ermes spiega a Odisseo che esiste un potente pharmakon, capace di annientare il sortilegio di Circe, in grado di impedire la trasformazione infamante dell’uomo in bestia. Il dio indica a Odisseo questo farmaco che altro non è se non una pianta rara (X 303-306):

“Detto così l’Arghifonte mi porse il farmaco,

dalla terra strappandolo, e me ne mostrò la natura (physin).

Nella radice era nero e il fiore era simile al latte.

Gli dei lo chiamano moly e per gli uomini mortali

È duro strapparlo: gli dei però possono tutto.”

Questi versi hanno offerto già agli antichi esegeti di Omero notevoli problemi che non possono essere ripercorsi in questa sede. Basterà ora solo segnalare che, per la prima volta, come ho detto, compare in questa sezione dell’Odissea un termine dal significato importante: physis per la quale il grecista Aurelio Privitera, traduttore di questi versi, ricorre giustamente al termine “natura”. La radice salvifica che Ermes offre a Odisseo per sfuggire agli incantesimi di Circe, infatti viene da una pianta che nasce solo nella terra misteriosa dove è giunto l’eroe. Il suo nome è avvolto dall’oscurità, dall’ambiguo suono che le lettere pronunciate da Ermes evocano nel fruitore di Omero: gli dei chiamano la pianta moly, ma, a ben vedere, non sembra esistere un nome corrispondente con il quale i mortali possano definirla, segno forse del fatto che per gli esseri viventi si tratta di qualcosa fuori dalla loro portata visiva e conoscitiva.[9] Certo il moly mostra numerosi contrasti come, in fondo, sembrano suggerire le peculiari e non scontate tonalità che la caratterizzano: sfumature di nero e di bianco lo adornano nella parte inferiore e nell’inflorescenza. In questi particolari descrittivi è forse possibile cogliere il significato del termine physis nell’intervento di Ermes: il dio indica a Odisseo le caratteristiche che, nel processo generativo e di crescita, hanno portato il moly ad apparire come si presenta, nel momento in cui è divelto. Ma, ad un tempo, non sarà azzardato anche interpretare il termine physis in questi versi dell’Odissea anche in rapporto alla funzione che la pianta stessa dovrà ricoprire nella vicenda di Circe. Essa, infatti, come abbiamo visto, appare nella funzione di pharmakon, in quanto ha il potere di antidoto medico contro le magie di una dea.

            Forse la physis, la natura intrinseca del moly, porta la radice portentosa a sviluppare qualità specifiche, nella misura in cui, se X nasce così secondo la sua physis, X dovrà poi essere mostrare ineludibili caratteristiche.[10]  Resta, dunque, chiaro che physis, quale principio creativo, che non a caso la lingua greca presenta come sostantivo femminile, tende a suggerire da subito per via del suo riconoscibile e importante suffisso –sis un’attiva capacità di azione e sviluppo nelle cose che si collega saldamente alle qualità che fanno in modo che le cose stesse risultino tali.[11] Per tornare alle parole di Odisseo, il moly è una pianta che ha avuto una sua crescita secondo la sua natura e, ad un tempo, secondo la sua natura mostra ora la capacità e la funzione inderogabili e connaturati di potente pharmakon, capace di arginare anche il potere di una dea.[12]

B) Ricognizioni presocratiche su physis

Colpisce il fatto che nella produzione di Esiodo, in ordine di tempo il secondo grande esponente dell’epos arcaico greco, per quanto di un epos dai tratti nuovi e certo personali, non ricorra il termine physis che abbiamo ora osservato per la prima volta in Omero. Vero è, tuttavia, che sia nella Teogonia sia in un poema che la tradizione ascrive a questo poeta, il Catalogo delle Donne, troviamo un termine etimologicamente connesso a physis che avrà poi una specifica diffusione in poesia per indicare soprattutto l’aspetto, la forma naturale, il corpo, il sembiante che evoca fascino: la phyé.

Se ho accennato a Esiodo in una sezione dedicata ai Presocratici, i primi esponenti della filosofia greca, è perché ormai il debito che i Presocratici hanno contratto con la produzione epico-arcaica di Omero ed Esiodo è riconosciuto quale dato di fatto, non a caso, osservabile anche nelle prime pagine della monumentale e meritoria edizione dei loro frammenti, curata da Hermann Diels e Walther Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker che ci permette di seguire lo sviluppo del pensiero occidentale tra VIII e V secolo.[13] Certo, rispetto alla stagione dell’epica arcaica, i Presocratici rivelano un atteggiamento rinnovato, talvolta di aperta critica se non di palese opposizione rispetto alla parola di Omero e di Esiodo, anche se dinanzi alle testimonianze che ci sono giunte a riguardo dobbiamo essere sempre cauti e attenti. La conoscenza delle opere dei Presocratici, infatti, è per lo più affidata a citazioni indirette, a passi spesso decontestualizzati veicolati all’interno di altri scritti e soprattutto già in antichità questa vasta produzione è stata soggetta all’autorevole ma anche soggettivo filtro interpretativo – al quale ancor oggi siamo in parte legati – di Platone e di Aristotele. Come ha suggerito in un recente e penetrante lavoro d’insieme sullo sviluppo della filosofia ionica James Worren “… è la tradizione platonica e aristotelica a essere in larga misura responsabile del quadro che abbiamo ereditato a proposito del primo periodo della filosofia greca”.[14] È, tuttavia, possibile avanzare una constatazione preliminare di valore complessivo. Dinanzi al naufragio della produzione dei Presocratici, le fonti tendono per lo più ad attribuire alle opere di questi pensatori un titolo eloquente e significativo che sembra accomunarle pur nella sostanziale diversità delle singole prospettive: perì physeos, sulla natura delle cose, a testimonianza del valore centrale che la physis per l’appunto riveste in queste prime ricognizioni sulla realtà.[15]

Il primo perì physeos che incontriamo in questo cammino non sempre lineare, lungo il quale l’uomo è alla ricerca di un’origine, di un principio che regoli le cose e renda conto della loro molteplicità, è attribuito ad Anassimandro di Mileto, allievo di Talete nel VII secolo a.C., il primo ionico, in verità, che scorge nell’elemento umido, tò hygrón, il principio regolatore e causativo, l’arché, di tutte le cose in una attenta riflessione fisica secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, biografo dei filosofi greci. Non è forse errato sostenere che Anassimandro dia vita a un preciso genere letterario: dopo il suo scritto, nel quale sostiene che all’origine delle cose debba essere rintracciato l’illimitato, l’apeiron, la tradizione attribuisce la composizione di perì physeos anche ad Anassimene con il suo etere, a Senofane, interessato a problemi legati alla terra, a Parmenide che osserva il divenire delle cose, a Eraclito che in toni oscuri esalta il logos primigenio, sino a scendere tra VI e V secolo con Empedocle. L’atteggiamento di questi pensatori è simile negli intenti, per quanto nella pratica si riveli differente, nel momento in cui ognuno tende a presentare la realtà come originata da principi naturale spesso lontani gli uni dagli altri. Differente poi è anche la forma alla luce della quale i Presocratici propongono il loro sapere. Sebbene giustamente sia noto che questa produzione speculativa dia un’espressione concreta alla prima prosa greca, non bisogna dimenticare che in molti casi il magistero di Omero e di Esiodo, anche sul piano della forma comunicativa, resta ineludibile. In questa ottica, ad esempio, possiamo spiegare la presenza di un perì physeos per Parmenide e per Empedocle in esametri, il verso epico dell’Iliade e dell’Odissea. Poemi, dunque, e trattati filosofici allo stesso tempo. Non stupisce questa scelta e del resto non stupiva, ne possiamo essere certi, neanche i raffinati esegeti antichi di questi autori, ai quali certo la scelta della poesia per esplicitare il pensiero filosofico risultava di per sé scontata se non necessaria. Parmenide, ad esempio, attivo nel VI secolo e non a caso riconosciuto da Aristotele quale physiologos, è un intellettuale che non rinuncia alle forme comunicative alla luce della quali si è formato e tramite le quali il suo referente è abituato a essere educato.[16]

Ho richiamato l’attenzione su Parmenide perché, in alcuni frammenti del suo perì physeos, emergono interessanti osservazioni sul concetto di natura nel senso originario che stiamo ripercorrendo.[17] Osserviamo da vicino.

Parmenide apre il suo poema con un’immagine dal fascino potente: un carro, guidato dalle figlie del Sole, porta l’uomo che sa, il sapiente, verso la luce, che inonda la casa splendente di una Dea il cui nome non è esplicitato nel corso del racconto. Non appena vede il viaggiatore eletto, la Dea, in segno di accoglienza, condivisione e stima, rivolge parole dal tono parenetico, un saldo insegnamento, che invita a soffermarsi sulla verità delle cose. L’essere è, mentre il non essere non è, ma il mondo degli uomini è soggetto anche all’opinione che Parmenide deve ascoltare, lasciandosi convincere dall’ordine seducente che assumono le parole stesse della Dea. Nel corso di questa rivelazione, la Dea si occupa anche di indagini sulla natura (B 10 D.K.):

Tu consocerai la natura (physis) dell’etere e nell’etere tutte quante

le sue stelle e della pura lampada del sole lucente

le invisibili opere e da dove ebbero origine

apprenderai le azioni e le vicende della luna errabonda occhio rotondo

e la sua natura (physis); e conoscerai così il cielo che tutto circonda,

da dove ebbe origine, e come Necessità lo costrinse

a tenere fermi i confini degli astri.

La Dea racconta in questi versi l’origine e l’ordinamento del creato. In poche parole, si intrecciano termini significativi e in palese rapporto: la physis che la Dea adopera ora sia per l’etere sia per la luna e il verbo ekghignomai, generare, provenire da, che trova subito, quasi per esemplificazione, un corrispettivo nel verbo phyo, nascere.[18] Si ha il fondato sospetto che in questi versi Parmenide intenda soffermarsi sul mondo nel quale vive l’uomo per sottolinearne la sua nascita e il suo sviluppo, il meccanismo del divenire intorno al quale ampia riflessione è dedicata nel poema.[19] Molto significativo è anche il fatto che per voce della Dea Parmenide riconosca che il complesso sistema fenomenico può essere conosciuto e appreso dall’uomo: i verbi che Parmenide associa al termine physis testimoniano in questa direzione. In altri termini, in questo stadio della filosofia occidentale, nel divenire delle cose è possibile trovare una via di accesso conoscitiva per comprendere la natura delle cose stesse, il principio che dà origine a queste e alle forme e alle strade lungo le quali esse si sviluppano.

C) Oltre la physis: il Fedone di Platone

In una seminale ricerca sulla storia dell’idea di natura nel mondo occidentale Pierre Hadot ha giustamente affermato, in rapporto a questi passi di Parmenide, che “… nei suoi primi usi, il termine physis è accompagnato da un genitivo: la nascita di, l’aspetto di. Detto altrimenti, l’idea è sempre riferita a una realtà generale o particolare”.[20] Le parole di Hadot sono certo inconfutabili. Ma è pur vero che questo uso che riscontriamo per physis nell’ampio arco cronologico che va da Omero ai Presocratici dipende essenzialmente dal contesto dell’argomentazione e dalla forma comunicativa che assumono i poemi epici e i numerosi perì physeos del periodo arcaico. In altri termini, serve mostrare la natura di una determinata cosa per spiegare le qualità e le funzioni di questa in maniera tale che l’uomo possa comprendere parimenti la sua essenza nell’ambito del mondo sensibile. Da qui deriva la specificazione offerta da un termine che, declinato al genitivo, accompagni il concetto chiave physis.

Questo atteggiamento comincia a vacillare, anzi è posto sotto la lente matura della polemica militante, nel V secolo, nel periodo della Sofistica se pensiamo, ad esempio, alla rivoluzionaria riflessione sulla natura umana, la anthropine physis, proposta da Ippia: uno spostamento dell’asse conoscitivo dalla physis della cose a quella dell’uomo.[21] Non stupisce, dunque, che Socrate o, per meglio dire, il Socrate di Platone in pagine di memorabile densità, si opponga alla tradizione dei Presocratici sulla physis, denunciandone la limitatezza se non addirittura l’infondatezza. Nel Fedone, il dialogo dell’ultimo giorno, ambientato nel carcere di Atene, prima di bere la fatale cicuta, Socrate spiega ai suoi amici che occorre procedere serenamente verso la morte con parole, sagge e paterne, parole che vogliono rassicurare ed educare e infine presentarsi come primo germe della consolazione filosofica.[22] Del resto, la separazione fisica del corpo dall’anima non incute terrore, se, come spiega Socrate, la vita è intesa come una preparazione saggia e moralmente elevata alla morte: una nobile tanto quanto impegnativa melete thanatou. Del resto, il corpo non è altro che un carcere precario e transitorio dell’anima, come ora nella pratica è la fredda cella nella quale si trova Socrate. L’anima, invece, è la vera parte immortale in ogni uomo, che dopo l’esperienza terrena troverà di nuovo il suo naturale spazio in una dimensione ontologicamente superiore rispetto a quella umana.[23] I nuclei tematici e filosofici del Fedone però sono molto più densi di quanto possa indicare questo breve riassunto. Ai fini della nostra analisi, ad esempio, è interessante analizzare una presa di posizione netta e polemica che Socrate rivela in maniera risoluta contro la tradizione filosofica che lo ha preceduto, speculazione che pur ha attratto, per diretta ammissione, interesse preponderante nella fase iniziale della sua vita. Socrate ricorda, infatti, nella parte centrale del dialogo, che quando fu giovane si interessò “al sapere che appunto si chiama indagine sulla natura (perì physeos historian)”, un sapere che si esplica nel “… conoscere le cause di ciascuna cosa, perché nasce (dià tí ghignetai), perché muore (dià tí appollytai), perché esiste (dià tí esti)” (96a5-10).[24] È in queste parole condensata l’analisi che i filosofi ionici hanno condotto sulla physis: il perché di un processo nel quale le fasi dello sviluppo sono legate all’esistenza. È verosimile cogliere in questo ricordo di Socrate l’entusiasmo del giovane che si pone dinanzi al sapere del suo tempo e non sarà azzardato pensare che questa posizione sia stata in fondo quella che animò lo stesso giovane Platone che per lo più tende a far collimare parte della sua paideia con quella del suo maestro. La filosofia ionica, tuttavia, presto si rivela a Socrate fallace, ingannevole per la presenza di indubitabili palizzate argomentative, nei fatti più apparenti che effettive, nella sostanza più mendaci che veritiere, tanto da rivelarsi, a poco a poco, al vaglio della verità fragili e insoddisfacenti. In una menzogna che non poggia su salde basi epistemologiche si riduce, dunque, l’insieme della filosofia ionica perché per Socrate che si dice anche ammiratore di Anassagora, colui che pose nel suo perì physeos alla base di tutto il nous, il pensiero (59 B 1 D.-K.), la speculazione che lo ha preceduto ha drasticamente accantonato le cause finali nell’ambito del problema del divenire. Al di là dei vari problemi che emergono da questa complessa sezione del dialogo è da dire che per Socrate le ricerche sulla physis che ha studiato e osservato nella sua formazione giovanile non riescono a cogliere nel segno per via di un errore di fondo nella loro formulazione: anche quando come Anassagora i predecessori sono arrivati a cogliere un principio per individuare la natura delle cose, lo hanno posto su un piano prevalentemente materiale, per l’appunto il piano della fisica, senza dare il giusto privilegio alla componente etica del principio stesso. Su questo problema Platone tornerà nella sua indagine, in un lento e progressivo disegno speculativo, che trova il suo culmine nelle mature pagine del Timeo. Qui, tramite la complessa descrizione della creazione condotta sotto la guida di un divino e soprattutto magnanimo Demiurgo sarà individuata nella matrice fisica delle cose il preponderante aspetto etico e noetico che manca nei principi dei Presocratici.[25]

D) Il porto placido della physis di Epicuro

Abbiamo visto che con il Socrate di Platone nel Fedone si verifica, dunque, una prima decisiva rottura all’interno dell’equilibrio che, invece, nel periodo arcaico sino ad Anassagora aveva regolato e caratterizzato la speculazione filosofica di Greci in merito alla physis. Il primato della natura nella ricerca tende a lasciare spazio all’importanza che Socrate ravvisa nell’espressione etica, espressione che trova la sua forma più nobile nel dialeghesthai, la dialettica benefica tra i philoi. Allo stesso tempo, però, nell’ultimo Platone, come rivela il complesso disegno cosmogonico del Timeo, di nuovo si torna ad ammirare la natura e a individuarvi il sistema conoscitivo delle cose: ma a questo punto della riflessione, per via del Demiurgo e del mondo ideale che regola il sistema all’interno del quale è inserita la physis, questa idea che pur appare influenzata dalla speculazione ontologica di Parmenide risulta nuova e lontana da quella dei Presocratici.

            Natura ed etica corrono, dunque, su uno stesso binario alla luce di un’influenza che tuttavia vede la prima soggetta alla seconda. Questa dialettica, però, è destinata relativamente presto a rinsaldarsi all’interno di un preciso sistema filosofico dopo l’imponente magistero di Aristotele. Il filosofo di Stagira, allievo di Platone e fondatore del Liceo nel IV secolo, compie una profonda rivoluzione pur nel solco dell’insegnamento ricevuto nell’Accademia. Aristotele, infatti, a ben vedere, come è stato ben messo in luce, sviluppa una concezione della scienza della natura destinata a influenzare in maniera imprescindibile il pensiero europeo. Questa rivoluzione si profila nel momento in cui “conferendo modifica radicalmente il panorama platonico delle scienze, che aveva previsto le discipline matematiche come propedeutiche alla dialettica, relegando lo studio della natura ad una semplice discorso verosimile”. La scienza della natura diventa un campo autonomo che ha piena dignità nella classificazione normativa del sapere proposta da Aristotele. Solo chi conosce in fondo i meccanismi della fisica può passare alla comprensione della dimensione metafisica. Come è ben evidente, il magistero di Aristotele sotto questo punto di vista lasciano un segno indelebile per gli interessi che traspaiono nelle ricerche di Epicuro.[26]

            Non è un caso innanzitutto che con Epicuro faccia di nuovo comparsa in maniera prepotente nell’ambito della produzione letterario-filosofica, un titolo che abbiamo vito caratterizzare l’opera dei Presocratici: perì physeos.[27] É noto, infatti, che il grande trattato che hanno restituito in prevalenza i papiri carbonizzati di Ercolano, originariamente in 37 libri, che vide prevalentemente impegnato il filosofo di Samo lungo un consistente arco cronologico nella sua vita, porta questo titolo eloquente che non a caso influenzerà il de rerum natura di Lucrezio.[28] Un titolo che richiama da una parte la tradizione ma che forse proprio per questo tende anche a distaccarsi da questa, in chiave fieramente polemica, pur essendo influenzato dalle ricerche atomistiche di Leucippo e Democrito. Nel grande trattato, infatti, dinanzi all’universo soggetto al volteggiare continuo degli atomi, a volte non a caso definiti anche come physeis, per dare vita alle forme innumerevoli di aggregati, Epicuro dispiega un sistema fisico nel quale la natura, da intendersi come origine delle cose, non è mai fine a sé stessa: per Epicuro, la natura è l’unica certezza, potremmo dire l’unica verità, alla luce della quale e all’interno della quale è possibile concepire anche l’operato degli uomini.[29] Nella natura, dunque, si sostanzia l’etica: anzi, nel sistema filosofico di Epicuro, è imprescindibile e costantemente operante la direttrice che dalla fisica porta ogni accidente a dimorare in modo saldo e necessario nell’ambito dell’etica.[30] Per comprendere questo passaggio ineludibile occorre seguire l’insegnamento che Epicuro rivela e suggerisce anche al di là del suo perì physeos in altre sue opere che, tramite un processo di epitome del sapere, si propongono di riassumere i presupposti del grande trattato, destinato certo a essere fruito da un pubblico di esperti e progrediti.[31] Osserviamo da vicino questo percorso fisico-etico a partire dalle cosiddette sentenze che la tradizione ci ha lasciato nel X libro delle Vite di Diogene Laerzio e in un codice Vaticano per poi soffermarci anche al contributo a riguardo offerto dalla nota Lettera a Erodoto.[32]

            In una di queste brevi prescrizioni nelle quali con tono fulmineo Epicuro condensa i capisaldi del suo sistema che chiunque potrà e dovrà sempre tenere a memoria, si affronta il tema delle paure che agitano gli uomini. Si tratta della cosiddetta rata sententia XI della quale propongo la traduzione di Graziano Arrighetti, editore delle opere del filosofo:

Se non ci turbasse la paura delle cose celesti e della morte, nel timore che esse abbiano qualche importanza per noi, e l’ignoranza dei limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura (physiologhia)

Questa massima che come la maggior parte delle massime molto probabilmente è un estratto da altre opere del filosofo mette in rilievo alcuni nuclei centrali dall’interno del sapere del Giardino: in generale l’uomo deve evitare di nutrire paure nei confronti della morte, dei fenomeni celesti, verso i piaceri che durano troppo poco o l’aspettativa del dolore. L’uomo, invece, per Epicuro deve tendere a una stabilità intima irrinunciabile che coinvolga ogni moto psichico: è la nota imperturbabilità, ataraxia, dinanzi ai colpi inevitabili della vita.[33] La sentenza che stiamo osservando ben collega tutti i possibili settori nei quali si può generare il pretesto della fallace paura dinanzi alla quale l’uomo rischia di perdere questa necessaria stabilità emotiva. Non è in questione solo la morte rispetto alla quale pagine memorabili Epicuro consacra nella nota Lettera a Meneceo, il famoso breviario sulla felicità:[34] Epicuro esamina nella sentenza anche i temi metereologici sviluppati soprattutto nella seconda lettera maggiore, la Lettera a Pitocle, e infine si sofferma sul tema della durata temporale che influenza passioni e affezioni. È dunque dispiegato nel giro di poche parole l’insieme delle tematiche più indagate nel Giardino. Non è un caso, per tutto ciò, che tutti questi problemi trovino una risoluzione grazie alla physiologhia, la scienza della natura, una parola nuova, forse coniata dallo stesso Epicuro, per indicare lo studio inderogabile per l’uomo saggio da avanzare nei confronti della realtà.[35] Forte della conoscenza dei meccanismi e della cause che agiscono in tutte le cose, esperto della physis, un uomo che voglia essere sophòs, può raggiungere il fine che Epicuro coincide con il nobile piacere catastematico che offre la felicità. Ma senza conoscenza della natura, senza physiologhia, questo possesso irrinunciabile non può aver luogo. Una prospettiva analoga del resto agisce in un’altra massima, giunta da un codice Vaticano, la sentenza 45, di nuovo nella traduzione di Graziano Arrighetti:[36]

Non dei vanagloriosi, né artefici di chiacchiere, né ostentatori di quella cultura apprezzata dai più forma lo studio della natura (physiologhia), ma fieri e indipendenti e orgogliosi dei proprie beni, non di quelli che provengono dalle cose”.

Anche in questo caso per Epicuro la physiologhia, peraltro in una sorta di umanizzazione, visto che alla scienza della natura è attribuita l’impegnativa opera dell’educazione, la paideia, è in grado di migliorare l’umanità: chi ammira infatti la natura delle cose, chi si dedica alla vera conoscenza, non può risultare un uomo dedito a false e inutili dottrine tradizionali, quella cultura enciclopedica tanto avversata da Epicuro in un periodo di nuove scoperte scientifiche quale è l’Ellenismo. La physiologhia è in grado di far comprendere all’uomo nella sua profonda e il più delle volte sconosciuta intimità, di possedere beni che lo rendono autosufficiente, pronto a rifiutare con eroico slancio la ricerca al di fuori di sé di un ingannevole bisogno, condizionato da false opinioni. Del resto, Epicuro ben inquadra il problema dello studio della natura e i vantaggi etici che ne derivano all’inizio della prima epistola maggiore, la Lettera a Erodoto, che non a caso rappresenta la più completa epitome dei temi affrontati nel perì physeos. Nel monumentale proemio nel quale Epicuro cataloga i referenti del suo insegnamento, è offerta la più vivida funzione che assume per l’umanità la scienza della natura.[37] Osserviamo questo testo fondamentale nella traduzione di Francesco Verde (37):

Per cui, dal momento che tale strada è utile a tutti coloro che hanno dimestichezza con lo studio della natura (physiologhia), esortando a una continua attività in esso e a ottenere ciò che procura massimamente serenità in tal genere di vita, <ho predisposto> per te anche una tale epitome e trattazione elementare dell’intera dottrina”.

Le parole di Epicuro hanno il tono fermo e ad un tempo sereno del maestro, del saggio educatore che non a caso si rivolge al suo pupillo con lo sguardo e l’interesse rivolto tuttavia a un referente molto più vasto.[38] Qui è ormai ben chiaro, quasi assodato, il fatto che lo scritto, quale che sia il suo genere, ha una funzione ben precisa: offrire, diremmo oggi noi, in pillola un quadro esaustivo e veritiero della scienza della natura perché di questa scienza possa beneficiare la vita come bisognosa di una perpetua bonaccia.[39] Una vita serena, perché condotta nel rispetto delle leggi razionalmente dettate dalla physis, l’unica forma di vita che possa accogliere l’uomo nel porto placido della realtà.

            Si tratta di un invito in fondo affascinante e non immune dall’impegno, talvolta anche militante, un invito al quale però ancora oggi possiamo e dobbiamo rispondere forse non solo con uno sguardo attento e critico verso il presente ma offrendo il nostro interesse anche alle voci che ci hanno preceduto nel non facile ma sempre costruttivo dialogo con la physis.[40]

[1] “Essere uno con il Tutto che vive, in un beato oblio di sé tornare nella totalità della natura, questo è il culmine dei pensieri e delle gioie, questa è la vetta del monte sacro … [614]”. Trad. it. di L. Balbiani, in F. Hölderin, Iperione o L’eremita in Grecia. Testo tedesco a fronte, a cura di L. Babliani. Con un saggio introduttivo di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2015, p. 125.

[2] Si vedano, a riguardo, le pagine dedicate al tema da Landolfi Petrone 2015, in F. Hölderin, Iperione o L’eremita in Grecia. Testo tedesco a fronte, a cura di L. Balbiani. Con un saggio introduttivo di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2015, pp. 54-74.

[3] In un’ottica esemplificativa è possibile citare, oltre al tedesco e all’italiano, l’inglese nature, il francese nature, lo spagnolo naturaleza (catalano naturalesa), il portoghese natureza, nonché il il rumeno natura.

[4] Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, (IV Vols.), Klincksieck, Paris 1968-1980, IV, p. 123. Il latino natūra deriva da natus, participio passato del verbo nascor. Rimando alla sezione relativa al sostantivo nel Vocabolario Treccani online www.treccani.it/vocabolario/ricerca/natura/. Per indicare il concetto di natura solo il neogreco, a mia conoscenza per ovvi motivi di continuità linguistica, ricorre a questa radice palese nel sostantivo femminile φύση.

[5] Fondamentale in questa direzione resta l’opera di G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, New York, Suny Press, 2005, pp. 11-36.

[6] Secondo Naddaf, op. cit., p. 4, “… the term phusis, in the comprehensive sense, refers to the origin and the growth of the universe from beginning to end. In conjunction with this, I examine three series of texts, including a number of Hippocratic medical texts, which, in my view, demonstrate (1) this notion of phusis; (2) the relation between this notion and the method in vogue with the pre-Socratics; and (3) the relation between the generation of the kosmos and the expression peri phuseos or historia peri phuseos.”.

[7] Un quadro degli Apologoi di Odisseo, a metà strada tra racconto fantastico e mondo al di là dell’umanità, è offerto da U. Hölscher, L’Odissea. Epos tra fiaba e romanzo, trad. it. a cura di F. Stella, Le Lettere, Firenze 1991, pp. 131-165.

[8] Sull’incontro tra Circe e Odisseo, si veda A. Heubeck, Omero. Odissea, Vol. III (Libri IX-XII), Mondadori, Milano 1983, pp. 228-231.

[9] Sul problema della lingua impiegata dagli dei e dagli uomini che nell’epos arcaico è spesso sottolineata dal poeta come differente, contributi fondamentali sono stati offerti da R. Lazzeroni, Lingua degli dei e lingua degli uomini, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» Cl. Lett. Fil. 26, 1951, pp. 1-25, e da G. Arrighetti, Poeti, eruditi e biografi. Momenti della riflessione dei Greci sulla letteratura, Pisa, Giardini 1987, pp. 13-36.

[10] In questa direzione, del resto, suggerisce per lo più l’impiego del verbo phyo in Omero che condivide la stessa radice con il termine physis che stiamo osservando. In Omero phyo e la sua diatesi media phyesthai, infatti, traducono i processi principali della generazione, della nascita e dello sviluppo all’interno della realtà. Cfr. A. Burger, Les mots de la famille de “phusis” en grec ancien, Champion, Paris 1925, pp. 1-2.

[11] Sul valore che il suffisso –sis offre alla radice si vedano E. Benveniste, Noms d’agent et noms d’action et indo-européen, Adrien-Maisonneuve, Paris 1948, e per physis J. Holt, Les noms d’action en -sis (-tis). Études de linguistique grecque, Cophenhagen 1941, p. 46.

[12] Nell’epos omerico il termine pharmakon ricorre in momenti del racconto di primaria importanza come ad esempio nel IV dell’Odissea (219-232) dove un pharmakon, il famoso nepente, capace di lenire il dolore e di estinguere i ricordi dolorosi dall’uomo, è conosciuto e impiegato da Elena. A riguardo, cfr. D. De Sanctis, Il canto e la tela. Le voci di Elena in Omero, Serra, Pisa-Roma 2018, pp. 209-214.

[13] Nelle pagine seguenti mi rifaccio alla ristampa dell’opera del 1951-19526, pubblicata a Berlino, con ristampa anastatica presso la Weidmann Verlag di Heldesheim, pubblicata nel 2004-2005.

[14] Si veda a riguardo l’intero paragrafo dedicato al problema da J. Warren, I Presocratici, trad. it. a cura di G. Bonino, Einaudi, Torino 2009, pp. 3-11. La citazione virgolettata è tratta da p. 6.

[15] Sullo sviluppo del genere e sul titolo di questo tipo di trattato, cfr. E. Schmalzriedt, Peri physeos. Zur Frühgeschichte der Buchtitel, Fink Verlag, München 1973.

[16] Forse, se potessimo chiedere a Parmenide di offrici una auto-qualifica del suo profilo, la risposta sarebbe eloquente: con buona plausibilità si definirebbe sophistés, termine di ampio respiro sino al V secolo, quando, invece, inizia a essere connotato negativamente, perché nella qualifica di sophistés trovavano un sostanziale sodalizio sia il philosophos sia il poietés. A riguardo si veda F. Condello, s.v. Sofisti, https://www.mondadorieducation.it/risorse/media/secondaria_secondo/greco/enciclopedia_antico/lemmi/sofisti.html in Dizionario dell’antico online.

[17] Si tenga, tuttavia, conto che con Parmenide la speculazione in un’ottica “idealistica” tende a rivolgere il suo interesse all’essere in sé più che alla physis che dell’essere è espressione. Cfr. P. Donini, F. Ferrari, L’esercizio della ragione nel mondo classico. Profilo della filosofia antica, Einaudi, Torino2005, pp. 17-31.

[18] Per un’interpretazione di questo complesso frammento si veda l’accurata disamina di G. Cerri, Parmenide. Poema sulla natura, Mondadori, Milano 1999, pp. 252-262.

[19] Una prospettiva antitetica scorgiamo, invece, in un frammento di un altro trattato, scritto anche questo sul finire del VI secolo in esametri: il perì physeos di Empedocle (B 8 D.K.). Nel frammento si osserva la nascita delle cose: “E un’altra cosa di dirò: “non c’è nascita (physis) / per nessuna delle cose mortali, né termine di morte le distrugge / ma soltanto mescolanza e separazione / di elementi mescolati, che origine (physis) viene detta dagli uomini”. La mutata prospettiva della riflessione è collegata anche a una mutata serie di figure attorali nel poema. Non è più un essere trascendente la voce primaria di questi versi, perché a parlare è lo stesso Empedocle che si rivolge a Pausania, il destinatario privilegiato dell’insegnamento. Al di là della chiara polemica che possiamo scorgere in questo frammento, dall’insegnamento che Empedocle rivolge al suo interlocutore risulta chiaro che una physis, intesa come principio generativo delle cose, non esiste. In origine esiste, al contrario, una mescolanza primordiale dalla quale si verifica una separazione delle cose, unico meccanismo alla luce del quale può essere spiegata e interpretata la realtà. Il concetto di physis, invece, secondo Empedocle non è altro se non il nome comune imposto per convenzione dagli uomini in modo da render conto dell’origine delle cose stesse. Per la riflessione sul linguaggio convenzionale degli uomini in Empedocle, cfr. D. Gambarara, Alle fonti della filosofia del linguaggio. Lingua e nomi nella cultura greca arcaica, Bulzoni, Roma 1984, pp. 21-24.

[20] P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura (trad. it. a cura di D. Tarizzi), Einaudi, Torino 2006, pp. 5-12.

[21] Resta su questo aspetto della speculazione di Ippia fondamentale il contributo di M. Untersteiner, I sofisti. Presentazione di Fernanda Decleva Caizzi, Mondadori, Milano 1996, pp. 425-446. Nella produzione sofistica è ascritto a Gorgia anche il noto e perì physeos o sul non essere di Gorgia: sul titolo problematico e forse da intendersi come unione di titoli di due opere autonome si veda ora R. Ioli, Gorgia di Leontini. Su ciò che non è, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2010, pp. 11-14,

[22] Sulla posizione del Fedone nella produzione di Platone si veda C.H. Kahn, Platone e il dialogo socratico. L’uso filosofico di una forma letteraria (trad. it. a cura di L. Palpacelli), Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 321-359.

[23] cfr. a riguardo A. Lami, L’ultima prova dell’immortalità dell’anima, in Platone. Fedone (a cura di A. Lami, P. Fabrini), Mondadori, Milano 1996, pp. 7-33. Analizza i rimandi del Fedone al resto della produzione platonica M. Corradi, Il Fedone e la memoria dell’Apologia di Socrate: a proposito di una raffinata strategia letteraria, in G. Cornelli, T.M. Robinson, F. Bravo (edd.), Plato’s Phaedo. Selected Papers the Eleventh Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin 2018, pp. 33-37.

[24] Importanti pagine su questa complessa sezione del dialogo nella quale è delineata la prima biografia intellettuale cultura occidentale sono state offerte da F. Trabattoni, Platone. Fedone, Einaudi, Torino 2011, pp. LXI-LXVII:

[25] Ottima disamina sulle tematiche letterarie che emergono dal Timeo connesso sul piano narrativo al Crizia che denotano l’inserimento di Platone nella tradizione precedente anche sul piano artistico, nonché sul ruolo del Demiurgo poietés offre M. Regali, Il poeta e il demiurgo. Teoria e prassi della produzione letteraria nel Timeo e nel Crizia di Platone, Academia Verlag, Sankt Augustin 2012, pp. 148-161.

[26] Fondamentale sotto questo punto di vista è la lucida analisi di L. Repici, Fisica e cosmogonia, in Guida ad Aristotele, a cura di E. Berti, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 103-141, sulla posizione della fisica nell’ambito del sistema speculativo di Aristotele. La citazione virgolettata è tratta da p. 105.

[27] A riguardo rimando alla imprescindibile voce di G. Leone, Epicuro, in Enciclopedia filosofica, Milano 2006, vol. IV, pp. 3432-3441.

[28] Per i rapporti tra il trattato di scuola e il poema si vada l’analisi di M. Erler, Epikur – Die Schule Epikurs – Lucrez, in H. Flashar, W. Görler (edd.), Die Philosophie der Antike. Band 4. Die hellenistische Philosophia, Schwabe, Basel 1994, pp. 438-451.

[29] Un’ottima spiegazione di questo punto portante nella speculazione di Epicuro è avanzata da P.M. Morel, Épicure, Vrin, Paris 2009, pp. 29-61.

[30] Come ha ben messo in evidenza E. Spinelli, Breviari di salvezza: comunicazione e scienza in Epicuro, in Epicuro. Epistola a Erodoto, introduzione di E. Spinelli. Traduzione e commento di Francesco Verde, Carocci, Roma 2010, pp. 9-24.

[31] Sulla diffusione e funzione dell’epitome a partire da Epicuro nel Giardino si veda l’ormai prossimo volume di V.  Damiani, La “Kompendienliteratur” nella scuola di Epicuro, De Gryter, Berlin 2021 (in corso di stampa).

[32]  Sullo strumento della lettera nella comunicazione del sapere offre ora una dettagliata e decisiva riconsiderazione M. Erbì, Epicuro. Lettere. Frammenti e Tesimonianze, Serra, Roma-Pisa 2020, pp. 1-49.

[33] Cfr. a riguardo C. Lévy, Le filosofie ellenistiche, trad. it. a cura di A. Taglia, Einaudi, Torino 2002, pp. 76-89.

[34] Cfr. a riguardo J.E. Heßler, Epikur. Brief an Menoikeus, Schwabe, Basel 2014, pp. 27-40.

[35] Ineludibile è a riguardo il contributo di M. Gigante, Physis: la natura nell’Epicureismo, in R. Uglione (a cura di), Atti del Convegno Nazionale di Studi L’uomo antico e la natura, AICC, Celid, Torino 1998, pp. 39-91.

[36] Graziano Arrighetti, oltre che fine studioso di Epicuro e dell’Epicureismo, è stato l’editore dell’opera del filosofo di Samo, pubblicata presso Einaudi nel 19732. Un profilo di Arrighetti quale studioso di Epicuro è ora in F. Longo, L’Epicuro ercolanese di Graziano Arrighetti, in M. Tulli (ed.), Graziano Arrighetti e la produzione letteraria dei Greci, Serra, Pisa-Roma 2020, pp. 135-153.

[37] Una lucida presentazione dei vari livelli nei quali sono presentati i destinatari di Epicuro ad esempio nell’esordio della Lettera a Erodoto è in F. Verde, Commento, in Epicuro. Epistola a Erodoto, introduzione di E. Spinelli. Traduzione e commento di Francesco Verde, Carocci, Roma 2010, pp. 66-73.

[38] Cfr. le valide osservazioni a proposito di F. Verde, Commento, in Epicuro. Epistola a Erodoto, introduzione di E. Spinelli. Traduzione e commento di Francesco Verde, Carocci, Roma 2010, pp. 75-80.

[39] L’immagine della bonaccia è esplicitata dallo stesso Epicuro in questo passo della lettera tramite il verbo egghalenizo, vivere nella calma. Sul passo cfr. M. Regali, TO TOYTON MALISTABEGGHALENIZON: sul testo della Lettera a Erodoto di Epicuro (D.L. X 37), in «Studi Classici e Orientali” 51, 2008, pp. 229-233.

[40] A riguardo si tenda conto che Epicuro stesso nel finale del XXXIV libro perì physeos, invita l’uomo a sentire correttamente la voce della natura e a non lasciarsi ingannare dal falso, come ben mette in evidenza G. Leone, Epicuro e ‘le voci delle cose’, in G. Leone , F Masi, F. Verde (edd.), “Vedere l’invisibile”. Rileggendo il XXXIV libro Sulla natura di Epicuro (PHerc. 1431), VI Supplemento alle Cronache Ercolanesi, Napoli 2020, pp. 71-84.

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