EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2025, n. 1-2 anno X - ISSN 2531-7334

Le sliding doors dell’esserci

di Alberto Basoalto

E’ esperienza comune stringere a sé la persona o l’oggetto amato. Il mi sta a cuore, mitica sede di passioni e sentimenti, si concreta in un abbraccio, nella pressione esercitata nell’ avvolgere, per includere, le braccia al petto. Attrarre a sé nella necessità di contenere, di provocare reazioni tattili,  sensoriali, per definire una sfera ristretta di prossimità, di affetti. Condurre innanzi e trattenere l’oggetto amato è  anche indispensabilità di  una definita collocazione nello spazio e nel tempo, di un hic et nunc, condizione necessaria perché qualcosa si manifesti nella sua pienezza. Stare con le persone amate è, si sa, anche volontà di fermare il tempo in un istante preciso.

Il gioco preferito da bambini è sovente l’acchiapparella, ci si rincorre e si vince solo quando si toccano i compagni. Si attende in silenzio, trattenendo il fiato, con l’angoscia immotivata che l’altro si sia dissolto, sparito per sempre o che possa riapparire all’improvviso, da chissà dove, da un impensato nascondiglio. Perché è solo in quell’istante che si sancisce l’esistenza di qualcosa.

Non ti si vede più, si dice a persone che appaiono in carne ed ossa dopo qualche tempo, ma anche fatti vivo, sapendo che, di solito ognuno di noi continua a vivere anche en catimini.

L’ essenza di ciò che ognuno di noi è, l’essenza di alcune cose, si realizzerebbe in questa loro presenza. Nel manifestarsi ed essere tangibile, καϑ᾿αὑτό aristotelico, necessario sinolo tra forma e materia. Nell’esse est percipi, eco sempre risonante del fantasioso idealismo berkeleyano.

Nelle prime fasi della crescita la presenza è legata, come noto, ad aspetti sensoriali. gli oggetti sottratti alla visione non esistono più, solo successivamente il gioco del cucu settete viene a rassicurarci col suo ritmo cantilenante.

A scuola per contarsi si fa l’appello, al quale ognuno deve rispondere presente. Ognuno risponde per sé, si è soli e responsabili in quel momento. Un tempo ci si alzava anche in piedi, oggi forse si alza solo la mano, per emergere da chi presente non lo era, lo era appena stato  o lo sarebbe stato dopo nello scorrere la lista alfabetica dei cognomi. Un coro, con voce svogliata e sanzionatoria, sottolinea le assenze. Altrove si vota per alzata di mano, un segno nella folla per contabilizzare delle volontà che, altrimenti, resterebbero anonime e incalcolabili.

Da’altro canto, esiste un sentimento, espresso in alcune lingue con saudade,  che sta ad indicare una condizione di solitudine accompagnata ad un intenso ricordo di qualcosa di assente. In alcuni dialetti, il termine appocundria,  è maliconia e distacco da qualcosa di assente e spesso indefinito. Espressioni in uso in popoli in contatto diretto con il mare, donne e uomini e che partono e che si dissolvono all’orizzonte per poi riapparire,  in un lento ritmo di manifestarsi di nuovo, nella speranza che questo filo invisibile non si interrompa mai, che questo gioco del cucu settete con il destino non si risolva in tragedia.

L’esistenza ritmata dalla presenza-assenza nel paese natio degli emigranti, del distacco giornaliero del ci vediamo tra poco, tra un’oretta (il diminutivo addolcisce l’attesa), dell’arrivederci, che non è un addio. O il rassicurare il bambino, mamma torna subito, guarda dalla finestra, quando torni? Sto arrivando! Dove sei? Arrivo!

L’addio, il ridiventare estranei per sempre, rievoca comunque una presenza, un ricordo che diventa racconto, mito. L’assenza per eccellenza è la morte, il non è più è spesso un essere in una parte indefinita dove attendere per ricongiungerci. Gli eroi e militanti morti sono presenti ora e sempre, dove eternità di presenza e assenza coincidono.

L’assentarsi, però, è segno di scortesia, l’assenza deve essere giustificata, l’assenza, per essere vera, va verificata, come la presenza. Esistono certificati di morte ma anche di esistenza in vita. Dell’assente, solo dopo un lunghissimo tempo, ne viene decretata la morte presunta. Finzioni amministrative e giuridiche. Franz Kafka, nel suo racconto La Tana, ci narra che, per mimetizzare l’ingresso, vi aveva messo un gran buco che però non portava in nessun luogo.

Mi manchi si dice alla persona amata, anche se presente, rinviando ad un’assenza che non è fisica, ma fatta di desiderio condivisione e complicità. Come è cosa nota che, in molte culture, é tradizione apparecchiare la tavola e riservare posti e oggetti a persone assenti.

Ma anche capita di svegliarsi una mattina con la voglia di innamorarsi, ed è segno di vitalità e voglia di esercitare a pieno titolo gli affetti. Si va alla ricerca di un’assenza dettata dai nostri desideri, dalla necessità di sentirsi umani.

La presenza è sempre presenza di qualcosa, come lo è l’assenza, desiderio, noesi, atto di conoscenza, in entrambe i casi, imperfetta.

Non lo voglio più vedere, non vediamoci più, lontano dagli occhi lontano dal cuore, sono solo espedienti per l’utilizzo dell’assenza come antidoto e riparazione alla presenza.

In queste apposizioni apparenti, la nascita è un divenire presente, un manifestarsi, epifania. Il sepolcro vuoto non è sparizione ma rinvia ad altro, ad una speranza escatologica.

La crisi pandemica, che mette tutti a dura prova con distanziamenti, protezioni, divieti, sta solo svelando il sottile gioco di sliding doors, della duplicità mal definita e banalizzata dell’assenza e della presenza. Protagora non cessa di farci riflettere quando ci avverte che l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono.

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