EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

L’essenza del pregiudizio e la normalità del male. Intervista a Isabella Merzagora

di Federica Biolzi

 

 

Prof.ssa Merzagora, nel suo ultimo libro si è posta l’inquietante questione di come sia stato possibile, che tanti, quasi un intero popolo di persone “normali” come noi, abbiano potuto compiere grosse atrocità o colludere con esse, o tacere, per tornare alla vita consueta.  Il titolo scelto, per la sua ultima opera, ha tutte le caratteristiche di un ossimoro: “ La normalità del male”. E’ davvero tale?

– Evidentemente non lo è molto, innanzi tutto per il fatto che intere popolazioni si siano realmente dedicate, nel corso della storia, allo sterminio, alla tortura, alle uccisioni; parliamo anche di donne e di bambini uccisi, ma che non c’entravano con la guerra. Nel XX secolo, è ormai assodato, che i genocidi hanno ucciso più esseri umani delle guerre stesse.

– Fa riferimento all’antisemitismo?

– L’antisemitismo è la radice di ogni razzismo o etnocentrismo, il pregiudizio contro gli ebrei ha una storia millenaria, con diverse razionalizzazioni, dall’accusa di omicidio rituale, al complotto economico-politico. Sicuramente vi sono analogie fra l’antisemitismo e le altre forme di esclusione o di razzismo, che ci fanno capire che questo non è un problema solo ebraico.

A differenza delle guerre precedenti, la Shoah non fu un combattimento tra due forze, ma unidirezionale verso donne, anziani, bambini.

Tutte le persone che hanno commesso questi crimini, non erano certo malate, non erano diverse, erano tragicamente normali. Ciò non significa che tutti siamo così, né che siamo uguali, ma vuol dire che forse il male non ci è così lontano né ignoto, ognuno di noi è fatto anche di Caino.

– Anche  la Arendt  in “La Banalità del male”, aveva anticipato alcuni dei temi che lei tratta, quali analogie  tra ieri e oggi, tra la concezione della Arendt e la sua?

– Mi piacerebbe poter dire no è tutto diverso, in realtà i segnali inquietanti sono molti e sono stati messi in luce anche da Amnesty International e da molte ricerche. La cronaca ci mostra come vi sia anche in Italia una ripresa di razzismo, di altrismo, di etnocentrismo, di pregiudizio. Questo capita in tutto il mondo. Amnesty lo attribuisce alla “intolleranza ed emarginazione sempre più spietata che disumanizza chi è diverso da noi”, come è accaduto e accade in Myanmar, Iraq, Sudan, Siria, Yemen.

– Cosa ci attende allora?

L’Anti-Defamation League esemplifica in una “Piramide dell’odio” la pratica di comportamenti di discriminazione relativamente modesti, banali, che possano poi sfociare in condotte sempre più gravi.

Un documento del 2017 dal titolo “la piramide dell’odio in Italia”, dimostra come alla base, si pongono, analogamente a quanto descritto dall’Anti-Defamation League, stereotipi e rappresentazioni false, insulti, linguaggi ostili banalizzati e, ai livelli superiori, le discriminazioni e quindi i linguaggi e i crimini d’odio. Questi ultimi sono definiti come “Atti di violenza fisica, fino all’omicidio, perpetrati contro persone in base a qualche caratteristica come il genere, l’orientamento sessuale, l’etnia, il colore della pelle, la religione o l’altro”.

Naturalmente mi auguro che non si arrivi mai allo sterminio, tanto poi forse basta il mare e non salvarli…

– Alcuni riferimenti del suo libro evidenziano come la paura dell’altro abbia origine nei fenomeni identitari e si costruisca nei vari contesti. Può dirci cosa provoca questa paura dell’altro?

– In parte sicuramente è una sorta di spostamento indotto, di paura dell’ altro. Noi abbiamo paura del nostro futuro, dell’economia, della malattia e, queste molteplici paure, vengono canalizzate nella paura dell’altro. La paura in generale è una pessima consigliera perché, essere impauriti, rischia di portarci ad essere aggressivi, anche se fortunatamente non accade sempre. Di solito si aumenta l’altrismo, il rifiuto dell’altro, proprio in concomitanza con periodi d’insicurezza, di spaesamento, di confusione. Anche se vi è sempre stata l’idea che, antropologicamente, la mia tribù sia contro la tua tribù, mi viene in mente l’incipit dell’Orlando Furioso:

Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
Da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva.

Nonostante i cavalieri fossero rivali e si combattessero tra loro, non pensavano però di essere superiori o inferiori, allora non si creavano stermini, né genocidi.

– Il crimine, nella cronaca quotidiana, appare commesso nella piena indifferenza  e vissuto dall’autore del delitto quasi come atto  di normalità. Ci troviamo di fronte ad un paradosso o ad una schizofrenia individuale e sociale?

Non tutti i crimini vengono commessi con questa indifferenza, ci sono persone incapaci di identificarsi con l’altro, per cui una volta che l’altro è tolto di mezzo, l’unica preoccupazione diviene quella di salvare se stessi e quindi si cerca di  apparire il più possibile non sconvolti e normali.

Però in generale per uccidere qualcuno bisogna essere molto coinvolti emotivamente e spesso vi è un sentimento di odio che prevale. E’ abbastanza difficile che si uccida così gratuitamente, Lafcadio[1] è una rarità.

Se noi pensiamo allo sterminio, esso è un punto d’arrivo e va preparato in modo progressivo, come citavo precedentemente con la piramide dell’odio. Si può partire da una discriminazione modesta, che però può sfociare in condotte sempre più gravi.

Come affermato dalla Arendt in La banalità del male: “Una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato normale [..] Ma il guaio del caso Eichmann era che di Uomini come lui  ce n’erano tanti,  e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano , e sono tuttora, terribilmente normali”[2].

-Nel testo ci parla, come abbiamo detto prima,  di altrismo, richiamando autori come Taguieff, può aiutarci a capire questo concetto di grande attualità?

Si, ritengo che non sia una questione di razzismo inteso in senso biologico. L’altrismo, come lo chiama Taguieff per ricordarci che il pregiudizio non è solo razzismo, non è solo biologico, è uno, indipendentemente da quale sia il bersaglio; l’oggetto del pregiudizio è relativamente ininfluente[3]. Non è solo una questione ideologica, di fissità, è un pregiudizio nei confronti di altri, di interi popoli.

C’è ancora, tutt’oggi, chi reputa qualche gruppo umano, diverso, minaccioso, inferiore. Molti messaggi passano attraverso i social e molti opinion leader esprimono e assumono certe posizioni che possono diventare ampliamente condivise.

Distinguere noi e loro è l’essenza stessa del pregiudizio, è il metodo che rende possibile qualsiasi discriminazione e che può condurre allo sterminio. Oggi il termine altrismo indica l’altro  diverso da noi in una differenza che non suscita interesse e desiderio di conoscenza, bensì gerarchizzazione e ostilità. Esso è un termine che ci consente di preoccuparci di tutte le discriminazioni: genere, disabili, anziani, omosessuali, stranieri..

Noi e gli altri diviene un contro-antropomorfismo, gli altri sono meno umani, cattivi, superflui, animali, così da poterli escludere o uccidere aggirando la forza inibente dell’identificazione.

Questa distinzione diventa pericolosa, quando si traduce in inferiori e superiori, migliori o peggiori, e non per quello che si fa, ma per quello che si è. Questo significa che siamo tutti uguali? No, non lo siamo..

– Ma, quindi, alla fine possiamo definirci buoni o cattivi?

– Non so, in fondo ci interessa poco sapere che cosa siamo in origine, se anche fossimo cattivi quello che interessa è che scegliamo di non fare il male. Anzi, sarebbe ancora più meritorio non fare il male pur essendo inclini a farlo.

-L’identificazione con l’altro, con i suoi credo e le sue idee o con un’autorità, può avere un’influenza positiva o negativa nei comportamenti criminali, negli omicidi di massa.  Quanto la deresponsabilizzazione o l’autorevolezza  giustificano il commettere  questo tipo di  reati?

– L’autoritarismo, il conformismo, la deresponsabilizzazione,  tutti concetti che ci giustificano forse….Ci sono persone che si identificano con il ruolo, persone che si piegano davanti al potere. Alla coscienza si sostituisce la coscienziosità, l’obbedire crea distanza dagli effetti del proprio operato, permettendo la diluizione della responsabilità, con l’aiuto, ad esempio, della “frantumazione dei compiti”. Lifton chiarisce bene questo concetto a proposito dell’uccisione dei bambini disabili: “ [La] struttura serviva a distribuire la responsabilità individuale sul maggior numero di persone… In nessun punto della lunga sequenza[..] c’era un senso di responsabilità personale, o addirittura di coinvolgimento, nell’assassinio di un essere umano. Ogni partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più piccola rotella[4].

I soggetti inclini all’autoritarismo e alla deresponsabilizzazione, che hanno interiorizzato regole e non valori e principi, hanno bisogno di un sostegno esterno e spesso sono proclivi a consegnarsi ad un uomo forte, a un demagogo carismatico.

Hans Frank al processo di Norimberga arrivò a dichiarare. “io non ho una coscienza; Adolf Hitler è la mia coscienza” …

È faticoso mettere in moto la coscienza,  mentre l’autoritarismo, il conformismo, la deresponsabilizzazione, possono silenziare la nostra coscienza.

Quindi nell’identificazione con l’altro, se io m’identifico con l’eroe del male, avrò alte possibilità di delinquer, ma se io invece ho un’identificazione riparatoria dal male, sarà proprio quella che mi porterà a mettermi nei panni dell’altro e della sua sofferenza, l’ altrismo diventerà altruismo.

 

(Intervista realizzata nel corso del festival Dialoghi sull’Uomo – Pistoia 2019)

 

Isabella Merzagora

La normalità del male

La criminologia dei pochi, la criminalità dei molti

2019 Raffaello Cortina Editore

 

[1]   A. Gide, da  I sotterranei del Vaticano, tr. It. Feltrinelli, Milano 1965

[2]  H. Arendt, La banalità del male, tr. It. Feltrinelli, Milano 1963, p.33

[3]  P. Taguieff, La forza del pregiudizio, cit., pag.401

[4] R.J.Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, cit. pp 81-82

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