di Gianfranco Pecchinenda
primo movimento
C’è un organismo che vive.
Come ogni organismo vivente, anche questo organismo ha due tendenze basilari che orientano la sua azione nell’ambiente circostante: deve sopravvivere e riprodursi. Si tratta delle due tensioni fondamentali che tutti gli organismi viventi condividono.
Se gli uomini fossero solo degli organismi come tutti gli altri, le sue attività potrebbero sostanzialmente essere ricondotte alla necessità di soddisfare questi due bisogni: alimentare e curare il corpo in attesa che si presenti l’occasione giusta per potersi riprodurre.
Quello umano è però un organismo molto complesso. E possiede anche una particolarità che lo contraddistingue in maniera irriducibile da qualunque altro organismo: si tratta della sensazione di esistere.
– L’uomo è un organismo che esiste.
Il titolo che ho dato a questo mio intervento rinvia – in modo non casuale e peraltro affatto originale – a due capisaldi del pensiero esistenzialista: Essere e Tempo di Martin Heidegger e L’Essere e il Nulla di Jean-Paul Sartre.
Affermare innanzitutto che l’essere umano esiste, significa assumere una prospettiva che fatica a trovare spazio tra gli studiosi di scienze sociali. L’esistenza precede l’essenza – sosteneva in una celebre frase Jean-Paul Sartre, cercando in tal modo di sbarazzarsi sia di ogni prospettiva di derivazione materialista ed essenzialista, sia dei molteplici e reiterati tentativi di risolvere la questione dell’identità in termini puramente idealistici. Si tratta di una prospettiva che, per quanto diffusa e talvolta richiamata in diversi ambiti teorici, non è mai riuscita a collocarsi stabilmente tra i riferimenti fondamentali delle scienze sociali e psicologiche.
Ex-istere, “essere fuori”, questo dovrebbe essere l’inevitabile punto di partenza di ogni riflessione sull’essere umano. È solo partendo dall’esistenza, dalla percezione di un irriducibile sentimento di inquietudine di fronte all’ambiente in cui ci si ritrova a vivere, che è possibile caratterizzare in modo specifico il comportamento degli esseri umani. Il principale contributo di Heidegger allo studio del comportamento umano è stato probabilmente proprio quello di mostrare come l’uomo sia l’unico essere vivente per il quale l’esistere deve necessariamente assumere un senso; uno stato dell’essere possibile solo grazie all’autocoscienza. Tale autocoscienza è sempre intenzionalmente orientata verso una situazione; il suo Essere è – sempre – un Essere-nel-Mondo. Ma, e qui risiede la sua caratteristica cruciale, egli non è mai fisso in un punto, non è mai stabile, non è mai in una sua “dimora”. Egli è sempre orientato intenzionalmente al di là, oltre; l’uomo è un essere aperto al progetto. Il che significa, sempre seguendo il non semplice pensiero heideggeriano, che l’esistenza è costantemente in tensione tra due realtà, tra una possibilità progettuale e, al contempo, una situazione contingente.
Nonostante questi straordinari presupposti filosofici, che da Brentano e Husserl si sono espansi nella prima parte del Novecento grazie al pensiero di Heidegger, Sartre, Camus e molti altri, è necessario ammettere che una sociologia dell’Esistenza non ha mai attecchito del tutto. La grande influenza di autori come George Herbert Mead sulle scienze sociali, e il successo della soluzione adottata in termini interazionisti alla comprensione di alcune tipicità della condotta umana, se da un lato hanno avuto il grande merito di orientare l’atteggiamento sociologico contemporaneo verso un superamento dei vari strutturalismi dominanti, essi hanno anche indirizzato l’interesse degli studiosi – soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento – più sul Self (e i suoi correlati Sé, Me, Io, Identità) che non sulle questioni dell’Esistenza. Come vedremo meglio in seguito, una delle difficoltà maggiori nel dover affrontare il tema dell’analisi e della spiegazione del comportamento umano in termini esistenzialisti, consiste probabilmente proprio nella necessità di dover chiamare in causa, in quest’ultimo caso, il sempre ambivalente tema della coscienza.
Per quanto mi riguarda, come cercherò almeno parzialmente di esplicitare in questo saggio, ritengo non sia oggi un’impresa del tutto impossibile quella di cercare di conciliare una prospettiva allo studio dell’identità di derivazione interazionista-meadiana con una, ad esempio, di derivazione esistenzialistico-sartriana. Né tantomeno credo sia necessario eludere le pur complicate questioni legate alla coscienza, per farle finalmente rientrare a pieno titolo tra i grandi temi della sociologia e della psicologia contemporanea.
E questo soprattutto in virtù dell’enorme e ancora non pienamente percepito mutamento paradigmatico in atto, concernente il passaggio da un’immagine socio-strutturalista dell’uomo a un’immagine di tipo neuro-cognitivo.[1]
secondo movimento
Al mattino un risveglio. Nel buio circostante che domina la piccola stanza si percepisce una luce. Proviene da una finestra situata di lato, in cui c’è una tenda semiaperta. L’organismo che si risveglia prova delle sensazioni. Ad esempio vede, grazie a quel poco di luce che penetra dalla finestra, degli oggetti, delle cose. Al contempo percepisce anche dei rumori, degli odori. E poi un sapore acido sulla lingua. E deglutisce. Un dolore al braccio semiaddormentato. Cominciano dei movimenti. I muscoli alla base del collo sono indolenziti.
Questo organismo, in breve, ha un corpo. Questo organismo è un corpo.
Una voce si staglia da una stanza vicina e richiama l’attenzione di questo corpo. Accade che nell’ambiente circostante siano presenti, oltre a una molteplicità di altri oggetti e organismi più o meno definiti, anche altri corpi simili al suo. Taluni di questi sono essenziali alla sua sopravvivenza. Sono corpi appartenenti alla sua stessa specie. Sono i membri del suo gruppo di genitori-socializzatori, ovvero coloro che dovranno trasmettere all’organismo-corpo in questione ciò che non è stato possibile trasmettergli geneticamente.
Tra tutte le cose più o meno indispensabili che gli verranno trasmesse attraverso tale socializzazione, c’è un prodotto linguistico particolare: l’io. L’io è la prima persona singolare di un verbo: l’Essere. C’è l’io sono e, contemporaneamente, o subito dopo, a seconda dei casi, c’è il tu sei. E poi ancora, noi siamo, voi siete, essi sono… Ma la questione principale da indagare, per il momento, è quella relativa a questo originale e prodigioso prodotto linguistico definito Io.
È a partire da questo momento fondamentale che il corpo cessa di essere un semplice organismo-corpo vivente tra gli altri, e comincia ad esistere in relazione con gli altri. Solo ed esclusivamente in relazione agli altri.
È la nascita dell’intersoggettività. Si tratta – come sostiene Alfred Schutz – della categoria ontologica fondamentale dell’esistenza umana.
Precisiamo, allora, la definizione precedente:
– L’uomo è un corpo che esiste grazie all’acquisizione di un’identità.
terzo movimento
Io non sono il mio corpo. Io sono io solo a partire (categoria ontologica fondamentale) dal mio corpo che interagisce con gli altri corpi in un ambiente dato. Il mio corpo è parte di me, mi appartiene. Esso è una parte imprescindibile di me perché lo percepisco – seppure non nello stesso modo attraverso cui posso percepire gli altri oggetti presenti nel mondo circostante.
Si avverte, qui, la presenza di un evidente paradosso: c’è un corpo che io governo, che io muovo, che agisce nell’ambiente seguendo le mie intenzioni, la mia volontà, che vive e che mi appartiene: è il mio corpo.
Ma c’è al contempo anche un altro corpo, che non mi appartiene, quanto piuttosto io appartengo a lui, ne dipendo, ne sono oggetto: un corpo che segue intenzioni e volontà che io ignoro, che mi si impongono: è un corpo che si ammala, che si consuma, che invecchia e che condiziona le mie intenzioni allo stesso modo in cui lo condizionano gli altri organismi viventi e gli altri oggetti presenti nell’ambiente. Husserl definiva questi due corpi rispettivamente con i termini Leib e Korper.
Io non sono l’insieme degli organi che compongono il mio corpo, eppure devo riconoscere che sono anche il corpo che di tanto in tanto avverto come il mio corpo.
È questa una prima definizione di coscienza: l’attività in base alla quale riconosco come mio l’organismo che mi consente di interagire nell’ambiente circostante.
Io sono dunque il mio corpo solo a intermittenza. Ciò che determina una tale identificazione è la coscienza. Tale coscienza – come è ben noto a chi abbia una seppur minima conoscenza di base della prospettiva fenomenologica – è caratterizzata dal fatto di essere sempre coscienza intenzionale, ovvero orientata verso un qualche oggetto.
Posso avere coscienza delle lenzuola che ricoprono il mio corpo al risveglio, così come posso avere coscienza di quello che stava accadendo durante il sogno che stavo sognando poco prima del risveglio. Posso avere coscienza del dolore provocato da un pugno che ho ricevuto sul naso, o del dolore che mi provoca il ricordo della morte del mio cane avvenuta trent’anni fa. Quello che non posso avere è uno stato di coscienza senza il riferimento a un qualunque fenomeno: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa.
L’io, a sua volta, implica sempre e comunque anche avere coscienza dell’identità di un io. Un’identità che mi appartiene. La proprietà di un me, o di un sé. Un senso di mietà.
L’uomo è un corpo che esiste grazie all’emergere della coscienza di un sé, ovvero di un’identità.
quarto movimento
Tornando a quanto dicevamo nelle prime righe, potremmo sostenere che, se gli uomini fossero organismi come tutti gli altri, la maggior parte delle ore in cui siamo coscienti ci dedicheremmo totalmente ad alimentare e curare il nostro corpo solo in attesa di avere l’occasione giusta per poterci riprodurre.
Nel corpo umano è presente però, come con enfasi sempre crescente ci viene ricordato dalle nuove scienze emergenti, un organo del tutto particolare, un organo assolutamente unico: il cervello.
Nel 1990 un paio di celebri scienziati, Francis Crick e Cristof Koch, dopo aver deciso che era giunta l’ora di far diventare la coscienza un oggetto di studio empirico, formularono quella che in seguito è diventata nota come The Astonishing Hypothesis, la cui espressione rituale recita grossomodo così: e se noi non fossimo altro che il nostro cervello?
L’ipotesi sorprendente è in pratica quella di sostenere che tutta la nostra esperienza sia in realtà destinata a restare chiusa all’interno del nostro cervello, in quei pochi grammi di sostanza gelatinosa piena di neuroni, imprigionata nella nostra scatola cranica. Io, qualunque cosa sia questo “io”, sono lì dentro e solo lì. E gli altri, tutti gli altri, compresi mia madre e mio padre, la mia auto e il dipinto di Picasso di cui in questo momento posso osservare una riproduzione, così come i tasti che sto premendo per scrivere questo saggio, non vivono all’esterno di me, nel cosiddetto ambiente o realtà esterna; gli altri, che mi sembrano popolare la realtà esterna, in verità non si muovono, non soffrono, non amano, non si divertono, non patiscono in qualche luogo del pianeta chiamato terra, ma si trovano qui, solo qui, all’interno del mio cranio.
L’io – come dal canto suo sostiene con molta decisione un filosofo, per niente sprovveduto, del calibro di Daniel Dennett – non sarebbe altro che una specie di illusione o di epifenomeno: qualcosa che l’uomo ha compiuto con l’enorme potenza neuronale di cui è dotato, al di sopra e al di là delle sue necessità evolutive per la sopravvivenza.
Sarebbe perfettamente comprensibile che a Noi sembri di vivere il mondo come un Io che ha il suo centro nella mente, e che assorbe, cataloga, ricorda e collega tutte le informazioni provenienti dall’esterno, giunte a noi attraverso i sensi; è perfettamente comprensibile che Ci sembri che le cose stiano così, e dal punto di vista pratico è anche necessario, se dobbiamo funzionare come esseri umani. Ma ciò non significa – afferma Dennett – che le cose stiano effettivamente così, o che si debba presupporre l’esistenza di qualsiasi fattore o procedimento non materiale.
In un certo senso, il ragionamento non farebbe una piega: ben protetto dal cranio e dalla barriera ematoencefalica, il cervello può ricevere l’informazione dall’ambiente esterno soltanto attraverso dei segnali chimici ed elettrici che gli trasmettono i sensi.
Andrebbe però anche ricordato che il cervello, da un punto di vista strettamente materiale, non è altro che una parte di quel corpo che – come ricordava Husserl – è al contempo mio e non mio; io e non-io. Prendere un pezzo del corpo e cercare in esso l’essenza dell’identità (ovvero l’homunculus), è un’operazione filosofica in corso almeno dai tempi di Cartesio che, nonostante gli straordinari sviluppi tecnologici attuali, è ben lontano da poter risultare plausibile.
John Locke – autore che non si può assolutamente eludere a tal proposito – scriveva, verso la fine del Seicento, che per trovare in cosa consistesse l’identità personale sarebbe stata necessaria qualche riflessione preliminare sull’essenza stessa del significato di “persona”. La sua conclusione era che tale essenza poteva essere rintracciata solo nella capacità consapevole di riconoscersi come “se stessi”, indipendentemente dal trascorrere del tempo. L’io, stando alle sue parole, sarebbe “quella cosa pensante e consapevole – quale che sia la sostanza di cui è fatta (spirituale o materiale, semplice o composta, non importa) – che è sensibile o consapevole di piacere e dolore, capace di felicità o infelicità, e perciò, fin dove giunge quella consapevolezza, si preoccupa di se stessa. Così ognuno si accorge che, fintanto che rimanga incluso in questa scienza, il dito mignolo fa parte di lui stesso non meno di ciò che può essere più importante nella sua persona.
Qualora, separando dalla persona questo mignolo, tale consapevolezza se ne andasse col dito stesso, abbandonando il resto del corpo, è evidente che allora il mignolo sarebbe la persona, quella stessa persona; e l’io, in tal caso, non avrebbe nulla a che vedere col resto del corpo”.
In un certo senso, almeno in linea di principio, la posizione teorica portata avanti dagli autori che sostengono che noi siamo il nostro cervello, non è molto distante da quella del filosofo secentesco: una forma di essenzialismo riduzionistico che, di fatto, non fa altro che spostare l’attenzione dal mignolo lockiano al cervello.
quinto movimento
La riduzione all’essenziale, affiancata alla cosiddetta variazione eidetica, rappresenta come è noto una delle metodologie più efficaci messe in atto dall’approccio fenomenologico. Per spiegare di cosa si tratta ai miei allievi, utilizzo da diversi anni un esempio di questo genere: “immaginate che il vostro professore, così come lo percepite in questo momento, esca dall’aula per farvi rientro dopo un paio d’ore. Nel corso di questo periodo, immaginiamo si possano verificare una serie di trasformazioni nel suo corpo, come ad esempio alcune le seguenti:
- l’amputazione di una mano (o di un braccio);
- l’amputazione di entrambe le mani (o di entrambe le braccia);
- l’amputazione di un piede (o di una gamba);
- l’amputazione di entrambi piedi (o di entrambe le gambe);
- la sostituzione di un organo interno (ad esempio il cuore o il fegato)… e così via… fino ad arrivare alla sostituzione degli organi genitali, alla modificazione di carattere estetico di alcuni o tutti i tratti del volto (chirurgia plastica).
- Ultima ipotesi, l’ipotetico trapianto del cervello.
Osservare ed ascoltare le reazioni degli allievi costituisce sempre motivo di grande interesse. In genere si passa dalla risposta (peraltro ovvia) che al rientro il professore è lo stesso professore di prima (mantiene il principio di identità), seppure senza mani, braccia, piedi, gambe. E resta pure la stessa, identica persona, se subisce un trapianto, se cambia sesso, se cambia connotati. Quando si arriva al punto f, quello relativo al cervello, la prospettiva però cambia. L’atteggiamento tende a modificarsi, il processo di conservazione dell’identità diviene più incerto. Come se entrassero in gioco delle variabili più delicate da definire.
Anche in questo caso, possiamo rintracciare in un grande filosofo del passato un utile paradigma di riferimento:
“Per parte mia – scriveva nel Settecento David Hume – “quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso”.
Vediamo riaffiorare, in questo brano, una riflessione che rinvia molto da vicino al tema dell’intenzionalità della coscienza descritta in precedenza. I miei allievi (evidentemente humeani), figli di questa nostra epoca in cui un nuovo paradigma neuro-cognitivo si viene affermando di gran carriera, avvertono che nel cervello dev’esserci qualcosa – anche se non necessariamente un’essenza materiale – di assolutamente determinante perché vi sia un Io, una funzione del cervello che possa consentire la percezione autocosciente.
A questo punto cominciano però a sorgere problemi più seri. Problemi che peraltro non riguardano soltanto le possibili confusioni linguistiche ed etimologiche sull’identità, ma anche le incertezze legate alla logica e all’impostazione stessa del discorso.
Qualche studente comincia a ipotizzare (anche per chiudere la questione che, probabilmente, ritiene tediosa), che sì, “l’identità si trova nel cervello”. Qualcun altro si sente in dovere di ribattere che una tale risposta potrebbe risultare non soddisfacente, oltre che sostanzialmente inutile. A tal fine, mostrando di essere alquanto ferrato filosoficamente, ricorda il cosiddetto esempio del teatro cartesiano: l’io sarebbe un’entità che osserva ciò che accade in un “teatro” allestito nel cervello, in cui viene mostrato tutto ciò che il corpo vede, ascolta, sente…; resta ovviamente però ancora aperta la questione del “chi” (cioè di quale “io”) sia colui che vede, ascolta, sente. Stiamo tornando indietro: punto e accapo.
Il professore in questione, a questo punto, interviene con vigore. La lezione sta per finire e bisogna decidere: o si rinvia tutta la discussione a una prossima occasione, oppure la si chiude così:
“La ricerca dell’essenza dell’io non ha alcun senso. Non è possibile trovare una risposta, semplicemente perché la domanda è mal posta. Non esiste alcun io, esiste soltanto una persona che interagisce con altre persone.
Se il professore dell’esempio – egli afferma – rientrasse in aula con una serie di alterazioni fisiche (più o meno visibili), compresa la totale sostituzione del cervello e di tutte le sue funzioni (compresa la memoria personale), non dovrebbe interessarci tanto sapere ontologicamente se egli continui ad avere ancora una stessa identità rispetto a due ore prima; quello che a noi deve interessare, è chiederci se il professore in questione, una volta terminata la lezione, si recherà nella sua vecchia casa, se frequenterà gli stessi amici, se amerà gli stessi figli. Oppure (le domande intese dal punto di vista della sociologia dell’identità, potrebbero moltiplicarsi all’infinito) bisognerebbe chiedersi: se quell’individuo aveva commesso un omicidio prima di cambiare eventualmente identità, dovrà o meno andare in galera? La colpa, la responsabilità, sono ascrivibili socialmente alla stessa persona, anche se i diversi pezzi del suo corpo (cervello incluso) sono stati trapiantati?
Le cose si mettono male per gli allievi. Fortunatamente, dicevamo, l’ora è finita!
Prima di tornare domani in aula, potrebbe però essere utile che i malcapitati studenti continuino a riflettere ancora un po’ sul rapporto tra organismo e ambiente, tra l’io e gli altri, tra autocoscienza e realtà oggettiva.
Essi già sanno, d’altra parte, perché lo hanno imparato sin dalle primissime lezioni, che la questione dell’identità umana è riferita ad un oggetto molto particolare e complesso e che a tutt’oggi, nonostante da diversi secoli il pensiero filosofico occidentale si sia affannato intorno a tale questione con grande accanimento, non esiste ancora alcun consenso teorico diffuso circa ciò che esattamente significhi essere un io. Il concetto è caratterizzato, come vedremo meglio in seguito, in modi alquanto diversi nella letteratura filosofica e scientifica. Uno dei pochi punti fermi – che qui consideriamo soltanto una solida base da cui prendere spunto – è quella che ci deriva dalla definizione sociologica dell’identità, fondata a sua volta su una chiara precisazione del necessario corollario dell’identificazione:
Quando in una società ci si trova di fronte ad un nuovo venuto, sia esso un neonato o un estraneo già più o meno adulto, emerge un problema che può essere considerato generalmente condiviso da ogni cultura: il problema della sua identificazione.
Ogni società sufficientemente strutturata possiede normalmente degli strumenti finalizzati a mettere in atto tale processo d’identificazione, che consiste innanzitutto nell’attribuzione di un’identità secondo criteri precisamente prestabiliti, tradizionalmente imposti e trasmessi di generazione in generazione. Ciò significa che ogni società assegna ai propri membri un’identità oggettiva attraverso la quale quel determinato soggetto potrà essere identificato da tutti gli altri componenti della collettività in questione, nonché – ovviamente – dalle istituzioni stesse. I criteri di base comunemente più adatti a tale operazione sono, ad esempio, il sesso, l’età e l’appartenenza familiare, da cui scaturiscono nomi, cognomi, soprannomi. È evidente – come insegna la teoria sociologica classica – che, con l’aumento della complessità della propria composizione interna, le società vedono moltiplicarsi il numero dei criteri necessari ad una più adeguata riuscita di tale processo di identificazione.
Il riferimento all’attribuzione di una determinata identità oggettiva appare però manifestamente insufficiente per poter esaurire un qualunque discorso sull’identità. Una delle caratteristiche più significative del fenomeno identitario, che rende peraltro così complessa e delicata ogni sua trattazione, è legata al fatto che nessuna identità umana può essere descritta, né tanto meno spiegata o compresa, in termini puramente oggettivi. Esiste difatti anche un’identità intesa in senso soggettivo, che si presenta nel momento in cui un membro che entra a far parte di una collettività comincia ad appropriarsi delle definizioni oggettive di sé che la società – attraverso le istituzioni preposte (a cominciare dalla socializzazione familiare) – gli ha attribuito.
Se l’identità può essere considerata la conseguenza di un precedente processo di identificazione, va però anche chiarito che non è per nulla scontato che un membro di una società si accontenti di aderire completamente alla definizione che gli viene attribuita secondo criteri stabiliti dall’esterno, il che vuol dire, utilizzando il vocabolario appena introdotto, che non necessariamente l’identità oggettiva e quella soggettiva risulteranno essere completamente congruenti. Anzi, diciamo pure che solo in via teorica è possibile ipotizzare il caso di una eventuale completa congruenza. Dal punto di vista empirico esisteranno sempre dei margini di discrepanza tra tali possibili definizioni identitarie ed è proprio da tale constatazione che è possibile prendere le mosse per un adeguato approccio al nostro tema.
Ai nostri fini sarà necessario, dunque, provare a riformulare le precedenti definizioni in termini analitici più precisi: L’identità deve essere considerata, sociologicamente, la conseguenza di una relazione dialettica tra una identificazione oggettiva, da una parte, e una percezione soggettiva di tale identificazione, dall’altra.
Va ricordato altresì come oramai già da tempo la teoria sociologica sia brillantemente riuscita a disfarsi di ogni concezione dualistica del rapporto tra società e individuo e, conseguentemente, di ogni possibile visione “essenzialista” dell’identità. Basti per tutti il riferimento, che possiamo considerare oramai pressoché imprescindibile per ogni sociologo, all’opera di Norbert Elias. Ed è sulla falsariga di tali operazioni concettuali che bisogna interpretare la precedente definizione dell’identità in termini puramente dialettici e processuali e senza alcun riferimento a presunte ed improbabili “entità” fisse e stabilite una volta per tutte.
Da questa premessa possiamo dunque per il momento acquisire i primi elementi in vista di una definizione più articolata del nostro oggetto di studio, elementi che fanno riferimento innanzitutto all’impossibilità di ogni riferimento all’identità, sia personale che collettiva, che prescinda dalle sue relazioni con altre componenti sociali: non può esistere cioè identità senza identificazione, né identificazione senza differenziazione con ciò che viene considerato “Altro”.
Un ulteriore elemento acquisito è poi quello per il quale l’identità personale, al pari di quella collettiva, non deve essere considerata un dato naturale, ma il frutto di un processo di costruzione sociale dialetticamente strutturato. Le origini intellettuali di quello che possiamo già delineare come un approccio relazionale allo studio dell’identità, possono essere facilmente fatte risalire agli inizi del XX secolo e si ricollegano direttamente, almeno per quanto concerne le sue formulazioni essenziali, al lavoro di due studiosi americani, Charles Horton Cooley e, soprattutto, George Herbert Mead. Bisogna però anche ricordare che le radici storiche di tale approccio, su cui non ci soffermeremo per ora più di tanto, sono da ricercarsi innanzitutto nell’ambito degli straordinari lavori sull’io sociale contenuti nei Principles of Psychology di William James, che può dunque essere considerato il vero e proprio padre ispiratore di tutta la sociologia dell’identità, o almeno di quella che sfocerà poi negli approcci costruzionisti connessi alla fenomenologia. Secondo tale paradigma, come abbiamo già accennato, l’identità deve essere appunto considerata una sorta di entità riflessa, ed ogni epoca storica assisterebbe all’affermazione di una particolare tipologia identitaria costruita in base al reciproco rapporto dialettico tra un polo “oggettivo” dell’identità (ciò che la società si attende che uno sia) ed uno “soggettivo” (ciò che il soggetto ritiene di essere). Va da sé che queste due polarità possano essere definite separatamente solo ai fini teorico-analitici; di fatto esse si co-producono reciprocamente, determinandosi, di epoca in epoca, in base ad una serie di diversi fattori socio-psicologici.
Come anticipato nell’introdurre questo saggio, il (peraltro pienamente condivisibile) successo di questa brillante posizione teorica ha finito col tempo per orientare il focus dell’attenzione eccessivamente verso il versante del Self, lasciando raffreddare l’interesse, almeno all’interno delle scienze sociali, per l’approccio esistenzialista allo studio del comportamento umano. Anche se i due approcci sono chiaramente accomunati da una stessa influenza fenomenologica, quella secondo cui lo studio della coscienza presuppone un indivisibile riferimento soggetto-oggetto, l’attenzione dei principali scienziati sociali non sarà mai distratta dall’approfondimento della natura più squisitamente esistenziale delle questioni riguardanti l’intenzionalità della coscienza stessa.
Nell’approccio di Jean-Paul Sartre l’apertura (nel senso heideggeriano già accennato) della coscienza all’ambiente circostante, porta il filosofo francese a suddividere l’universo umano in due province: il mondo dell’in-sé (ovvero ciò che è), e il mondo del per-sé (ovvero l’autocoscienza). L’immagine dell’uomo proposta da Sartre è costituita dalla costante e ineliminabile tensione tra questi due mondi inestricabilmente uniti. Tutte le questioni esistenziali così magistralmente descritte, anche nei suoi romanzi, non sono altro che una conseguenza di una tale posizione originaria.
Uno dei temi più originali – accomunabile da questo punto di vista alla grande tradizione spagnola incarnata, ad esempio, da José Ortega y Gasset – è quello riguardante la capacità immaginaria della coscienza, in grado di affrontare il mondo, orientando in maniera umana l’esistenza. Il concetto di libertà da lui proposto concerne la capacità di uscire dalla situazione (la circostanza orteghiana) nella quale l’uomo è inserito, ovvero la capacità di non essere mai completamente determinato da essa. Il mondo propriamente umano sarà sempre costituito a partire dalla presa di distanza dall’in-sé e sotto forma di fuga: l’uomo come strappo reiterato e duraturo, in costante tensione per non coincidere mai interamente con se stesso.
In base a tali presupposti l’uomo non può mai essere definito in anticipo, in quanto egli prima esiste e poi si definisce. Questo a causa di una mancanza radicale, di un’assenza primordiale che rappresenta il nucleo stesso di ogni esistenza umana: l’uomo non è nient’altro di ciò che egli fa di se stesso. Questa coraggiosa elaborazione della prospettiva fenomenologica, ha il grande merito di riprendere e rendere più raffinata l’insuperata interpretazione dell’uomo di Baruch Spinoza. La coscienza è sempre rivolta verso un oggetto con il quale non giungerà mai a coincidere del tutto. È questa la mancanza, l’assenza costitutiva dell’essere umano.
E da qui il rischio – analizzato da Sartre attraverso il suo concetto di malafede –, tipicamente umano, di essere esposti alla tendenza a considerare la propria condotta come completamente determinata dalle necessità del mondo in cui vive, ovvero cedere alla tentazione di credere all’esistenza di valori oggettivi indipendenti dalla volontà umana. La malafede – egli sostiene – è l’illusione di poter passare dalla sua situazione ontologica di coscienza infelice, definita di fatto da un insuperabile vuoto, verso la menzogna che ci si racconta a se stessi quando ci si ritiene capaci di sbarazzarsi della propria totale libertà, “lasciandosi inghiottire dalla situazione”.
Essa emerge dunque quando l’individuo coglie se stesso nell’atto di compiere un destino che lo trascende e quando si percepisce come determinato da forze esterne; ma anche al contrario, quando egli si percepisce come pura coscienza, come un essere non coinvolto, radicalmente distaccato dal mondo, al riparo dalle conseguenze delle sue potenziali esperienze nel mondo.
E infine la malafede si manifesta ogniqualvolta l’individuo cessa di mettere il mondo in questione, quando accetta i giudizi tradizionali dandoli per scontati, come elementi oggettivi indipendenti dalla sua volontà.
La posizione sartriana è pertanto quella di considerare la possibilità che l’essere umano, posto di fronte all’inevitabile iato che si apre costantemente tra la sua coscienza e il mondo, di fronte al grande dilemma del senso di dare all’esistenza, faccia apparire all’improvviso – grazie all’immaginazione – una terza via, invisibile fino ad allora. Per Sartre la potenzialità umana per eccellenza è quella di non ridursi né confondersi mai con i propri comportamenti, ma restare irriducibili rispetto ad essi, conservando sempre la coscienza della sua potenziale apertura radicale: per ogni uomo, in ogni situazione, esiste sempre la possibilità di diventare altro da sé, sospendendo momentaneamente l’orientamento assunto dalla coscienza.
Ciascuna delle nostre azioni è, sempre, orientata dalla tensione verso un’immagine di ciò che pensiamo l’uomo debba essere. Tuttavia tale scelta – insiste Sartre – può e deve (il significato originario della libertà risiede in questo) essere fatta indipendentemente dal riferimento a valori universali e trascendenti. L’angoscia esistenziale deriverebbe appunto dalla consapevolezza che tale scelta non è imposta dall’esterno, ma è il risultato della propria riflessione rispetto a possibilità diverse. Non essendo dettate né dagli eventi, né da una pretesa natura umana, in ogni momento le nostre scelte forniscono il senso dell’esistenza e la qualità tipicamente ed essenzialmente “umana” alla nostra condotta.
sesto movimento
Al risveglio, l’organismo-corpo che ci sta accompagnando in questo nostro percorso, dopo aver perlustrato l’ambiente, al fine di poter ricostruire nella sua mente l’immagine della posizione del (suo) corpo rispetto al contesto in cui lo stesso corpo è situato, va alla ricerca di uno sguardo. Siamo ancora in fase di prima socializzazione. Lo sguardo di cui l’organismo-corpo va alla ricerca è quello che ha origine negli occhi di lei; quelli della sua socializzatrice. Il nostro organismo-corpo ha bisogno di uno sguardo che lo riconosca e che gli confermi (una identificazione attraverso la corroborazione intersoggettiva) la sua esistenza. Lui cerca gli occhi di lei. Lo sguardo serve soprattutto da guida, da ponte per raggiungere gli occhi dell’altro. Una volta raggiunto lo scopo, gli occhi diventeranno tutt’uno con lo sguardo.
L’interazione è nata. L’occhio è pronto a dirigersi anche altrove. Gli occhi diventano, come il corpo, agenti attivi di una visione, strumenti attivi per consentire uno sguardo intenzionale che orienti la coscienza. Ma gli occhi restano anche, al contempo, oggetti da cui l’organismo dipende: occhi che si ammalano, si stancano, si consumano. Le palpebre che le ricoprono di tanto in tanto, in frazioni di secondo impercettibili alla coscienza, restano in questo senso autonomi, indipendenti.
Che cosa strana: un bulbo biancastro, sferico e brillante. Al centro di quella sfera molliccia, grazie ad una prodezza evolutiva, si staglia un foro nero, circondato da tonalità colorate. Gli occhi ci servono per riconoscere la realtà. E per riconoscere il nostro io. Gli occhi ci concedono la sensazione di essere noi stessi, ci confermano l’esistenza di un mondo esterno, con la sua infinita varietà di toni e colori, di forme e rilievi; e ci rendono al contempo coscienti del fatto che il nostro io si ritrova ben custodito, ben protetto e ingabbiato all’interno delle nostre teste.
Gli scienziati non sono ancora riusciti a trovare un accordo sul fatto che l’occhio si sia sviluppato a partire dalle cellule fotosensibili di un solo organismo o di molti di essi. Può essere che i nostri occhi siano parenti di occhi derivanti da altri più o meno mostruosi esseri: mosche, cervi, tigri, leoni, tori. Fatto sta che nulla ci unisce tanto alla realtà quanto gli occhi.
Gli occhi sono anche lo specchio dell’altrimenti inaccessibile “io nascosto” dell’organismo in questione. Un’ovvietà: gli occhi, grazie al ponte dello sguardo, sono anche lo strumento attraverso cui entrano in contatto due esseri umani che interagiscono: negli occhi ricerchiamo la verità nascosta nei nostri cuori, il luccichio del tradimento o dell’esplodere dell’amore; in essi si rivela lo sguardo di complicità o l’occhiata che uccide.
La vista, però, non è collegata soltanto con gli occhi; non dipende esclusivamente da essi. Oramai lo sappiamo con certezza scientifica, eppure è un fenomeno che non cessa di stupirci.
Questo potrebbe significare che quello che vedo con gli occhi sia solo un’illusione? Quegli occhi (e quel corpo) che vedo non sono che un’immagine ricostruita dal mio cervello? È possibile che esista una qualche forma esterna diversa da quella che percepisco che precede la mia visione? E se si, come potervi accedere?
L’idea di poter accostarsi ad un’immagine più pura e immediata di un oggetto (o di un corpo), rinvia immediatamente al genio di Cezanne. Decine e decine di nature morte disegnate nel corso di uno stesso giorno nel suo studio di Aix en Provence, a orari e con illuminazioni differenti, dimostravano senza alcun dubbio che gli oggetti, anche quelli inanimati, cambiano incessantemente, si modificano e cessano ad ogni versione di essere uguali a se stessi. Neppure gli oggetti inanimati hanno un’identità stabile, in quanto le loro caratteristiche distintive dipendono dalla luce; o meglio, dal rapporto della luce con gli occhi di chi osserva. I colori, però, non esistono all’esterno del cervello. In teoria, l’occhio umano è in grado di distinguere un rango di frequenze ondulatorie pari a dieci alla quattordicesima, vale a dire, milioni e milioni di tonalità diverse. E allora? Cosa può significare questo? Qual è il suo colore? Qual è il colore di quegli occhi che incrociano il mio sguardo?
La vista, dunque, non è mai neutra. La visione non è mai innocente. Non vediamo quello che i nostri occhi potrebbero vedere, ma soltanto quello che vogliamo vedere. Non vediamo mai le cose esterne direttamente; più che contemplare o osservare con attenzione, i nostri occhi compiono una serie di movimenti inintenzionali attraverso i quali scannerizziamo l’ambiente circostante per consentire al cervello di completare l’informazione mancante a partire dai ricordi memorizzati. È per questo che gli impulsi che vanno dagli occhi al cervello sono così numerosi quanto quelli che transitano dal cervello all’occhio: in termini evolutivi non si tratta soltanto del fatto che l’organo sensoriale conduca verso il cervello l’informazione dell’ambiente in forma disordinata e bruta. È necessario che l’informazione sia il più utile possibile e pertanto l’organismo ha bisogno di identificare modelli già conosciuti.
L’occhio umano non è una sfera perfetta; è formata da due metà. Da un lato c’è la cornea, dall’altro una parte sclerotica in cui è inserito il nervo ottico. La cornea è trasparente, il che consente di poter ammirare l’iride – la valvola che controlla l’ingresso della luce – e la pupilla, che si dilata e si contrae.
Il processo non è soltanto di input. Anche il cervello invia i suoi segnali verso l’occhio al fine di calibrare in maniera istantanea ciò che stiamo vedendo.
Ma il punto è un altro!
Ed è lo stesso che abbiamo già incontrato percorrendo un’altra strada: Chi guarda l’immagine che l’occhio ha prelevato o copiato dall’ambiente esterno? Chi è colui che vede la cosiddetta realtà?
Cartesio, come ampiamente noto, pensava a una sorta di homunculus; un io in miniatura che osserva comodamente ciò che della realtà esterna viene proiettato in quel teatro che sarebbe collocato nei meandri del nostro cervello. Quando il primo ominide inventò di punto in bianco (probabilmente ereditando abilità sottoposte alla prova per un numero infinito di generazioni) il disegno di un toro sulle pareti di una caverna, voleva indubbiamente rappresentare un toro “assente”. Il motivo? Non possiamo saperlo con certezza. Forse per mostrarlo ai suoi compagni della tribù, per rendere omaggio a degli spiriti impercettibili, per invocare la sua forza o la sua fertilità.
Solo dopo secoli e secoli di anni, la pittura ha cessato di cercare di rappresentare l’assenza, la realtà mancante, divina, animale o umana che fosse, per concentrarsi nella rappresentazione di una nuova forma di realtà: quella che si poteva percepire con gli occhi. E poi, a partire dal XX secolo – la cosiddetta epoca della riproducibilità tecnica – niente ha cominciato a interessarci di più delle immagini con cui cerchiamo di replicare quello che la nostra vista percepisce. L’ossessione è stata tale che abbiamo cominciato a cercare di distinguere una vera realtà da un’altra falsa, o finta.
Che assurdità: se il nostro cervello non è in grado di distinguere le une dalle altre, come possiamo fidarci di quello che vediamo? Come, e soprattutto perché, dobbiamo credere che ciò che è assente dalla vista possa essere irreale, inesistente?
Quello che vale per gli occhi, vale anche per ogni altra forma di parcellizzazione oggettivante che volessimo applicare (come la scienza medica propone da oramai diversi secoli) riduzionisticamente al nostro corpo: le mani, le gambe, il cuore, le orecchie, la pelle…, il fegato: cervello compreso.
Che la materia possa essere in grado di pensare la materia è, in definitiva, uno dei misteri più affascinanti dell’universo.
Come si forma la coscienza nel cervello e come fa questa coscienza a svanire, frammentarsi o addirittura distruggersi definitivamente con il trascorrere degli anni?
Anche se possiamo definire con una condivisa certezza il processo attraverso il quale si costruisce socialmente un’identità, allo stesso modo continuiamo ad ignorare come possa nascere la coscienza. Sappiamo che essa ha a che fare certamente con il cervello. Anche con il cervello. Diciamo che ignoriamo cosa sia a provocare in quel tourbillon di milioni di sinapsi l’origine di qualcosa, di una sensazione se non una certezza, dell’idea che siamo un io separato da una sottilissima barriera dall’esterno. Forse non lo sapremo mai.
Fedeli e dualisti conferiscono una tale facoltà a un dio o a una qualche sostanza sconosciuta che s’incunea tra i nostri neuroni, immaginando che, almeno teoricamente, potrebbe anche essere estrapolato in qualche misteriosa maniera.
Monisti e atei ci rassegniamo a credere che nella materia del nostro organismo ci sia solo il germe di un nostro io immateriale, allo stesso modo in cui le parole di un libro producono quelle storie che leggiamo e che ci coinvolgono e appassionano.
E così torniamo nuovamente a quel gruppo di scettici alla Crick che risolvono definitivamente la questione sostenendo che un tale Io in effetti non sia mai esistito. Casomai coadiuvati, questi ultimi, da definizioni secondo cui l’io non sarebbe altro che la sensazione che sperimentano coloro che possiedono una corteccia cerebrale di grandi dimensioni. Gli ottantamila milioni di neuroni (!) che la compongono, si trovano in continuo movimento, connessi in parallelo, intercambiano un’infinità di segnali chimici ed elettrici che abbiamo appena cominciato a comprendere. Nel corso di questo processo, alcuni gruppi di neuroni si attivano in reti specifiche che immagazzinano una miriade di dati o – sarebbe meglio dire – modelli o pattern di dati, che a loro volta danno vita a reazioni particolari stimolate dall’esterno. Perché non dovrebbe essere possibile che da questi flussi emergano le idee che ci formiamo sul mondo e poi altre idee o insiemi di idee più insolite e strane in grado di vedere se stesse?
I miei allievi, ancora un po’ addormentati e malconci, rientrano al mattino seguente in aula. Nessuna domanda. Allora proviamo ad andare avanti. Siamo giunti almeno a una prima conclusione: io ho un corpo, ma non mi identifico totalmente con il mio corpo. E neppure con una sua porzione, per quanto importante esso possa essere. Il mio cervello è una conditio sine qua non, ma non meno del corpo in cui è situato e degli altri individui che, nell’ambiente circostante, contribuiscono a creare e a mantenere in vita (ancora la corroborazione intersoggettiva) la mia identità.
A meno di non voler gettare la spugna, siamo obbligati a rivolgere il nostro sguardo altrove. Non prima, ovviamente, di aver ulteriormente emendato le precedenti definizioni: Se consideriamo il cervello in senso sociologico, ovvero se lo consideriamo un cervello esteso (un cervello incarnato in un organismo, a sua volta in interazione con un ambiente popolato da esseri umani), allora possiamo affermare che
L’uomo è un corpo che esiste grazie all’emergere della coscienza di un sé (resa possibile dalla presenza di un cervello esteso), ovvero di un’identità.
settimo movimento
Per convincere qualche recalcitrante superstite della precedente lezione, potrei citare uno dei tanti esempi clinici tratti dall’esperienza di Oliver Sacks, o di quelli recentemente raccolti da Anil Ananthaswamy, per sostenere ulteriormente l’ipotesi dell’irriducibilità del nostro sé a qualsivoglia sostrato corporeo.
Esiste una patologia, che la comunità scientifica ha definito BIID (body integrity identity disorder). Coloro che ne soffrono condividono il disperato e ineluttabile desiderio di amputarsi una parte del corpo. In genere un arto, talvolta due. Esiste anche una comunità online, con migliaia di membri, suddivisi per categorie sulle quali non è qui il caso di soffermarsi. La comprensione scientifica del BIID è solo agli inizi, e il fatto che la medicina ufficiale releghi tale patologia a una perversione non giova di certo alla sua comprensione. D’altro canto si tratta di casi clinici che a volte risultano essere una vera manna per coloro che cercano di studiare il rapporto tra autocoscienza, identità e cervello. Uno di questi casi narrati da Ananthaswamy, descrive l’esperienza di un paziente americano che dopo anni di inutili tentativi è riuscito clandestinamente a farsi amputare chirurgicamente una gamba.
Al risveglio dall’anestesia il giorno successivo: “Ho guardato in basso e… non ci potevo credere. Finalmente era sparita”. Il suo unico rimpianto nei dieci anni seguenti è stato quello di non averlo fatto prima. “Non vorrei indietro la gamba neanche per tutto l’oro del mondo, da quanto sono felice ora”.
L’appagamento di questa nuova condizione si riflette nella sua casa. Poco prima dell’intervento, i figli gli regalarono un bambolotto di Ken, che lui conserva in una scatola di plastica piena di ritagli di fotografie di mutilati, raccolta quand’era più giovane. Ken indossa un paio di calzoncini corti di colore rosso; una delle due bambe termina al ginocchio, con un moncherino bianco avvolto in una garza bianca. Sempre in quella casa ho intravisto uno scheletro decorativo che pendeva da un lampadario, ma non ci ho fatto caso più di tanto. “Guardi più attentamente”, mi ha suggerito Patrick (è il nome dell’amputato). Solo a quel punto mi sono accorto che lo scheletro, come Patrick, era privo di una parte di una gamba e di un dito. Sulla mensola di un caminetto c’era anche una riproduzione del David di Michelangelo, anch’esso privo di una parte di una gamba. La famiglia aveva preso atto della sofferenza di Patrick e festeggiava la liberazione dal BIID. Quanto a lui, ora sembrava veramente a suo agio con il proprio corpo.
È lo stesso sentimento di sollievo e liberazione che esprimono quasi tutti i casi di BIID studiati dagli scienziati dopo la mutilazione. Ciò dovrebbe contribuire ad alleviare almeno in parte il timore manifestato dagli esperti di etica che, una volta asportato un arto sano, i pazienti potrebbero richiedere altre amputazioni. In quasi tutti i racconti di questa eventualità non si è verificata, tranne nei casi in cui il BIID coinvolgeva già inizialmente più di un arto. (…).
Per la maggior parte di noi – commenta lo studioso – è difficile fare i conti con questo fatto. Il vostro senso del sé, come il mio, è probabilmente legato a un corpo dotato dell’intero complemento degli arti. Non riusciamo a sopportare l’idea che qualcuno agisca con un bisturi sulla mia gamba. È la mia gamba. Io do per scontato questo senso di proprietà. Ma per le persone affette da BIID non è così… come se la loro anima non si estendesse anche lì.
Negli ultimi anni le neuroscienze stanno dimostrando con sempre maggiori prove empiriche che il senso di proprietà sulle varie parti del nostro corpo è molto malleabile, anche per le persone non affette da alcun disturbo. Un celebre esempio, molto diffuso e facilmente verificabile su internet, conosciuto come l’illusione della mano di gomma (https://www.youtube.com/watch?v=sxwn1w7MJvk) dimostra come l’esperienza delle varie parti del nostro corpo sia un processo dinamico che richiede una costante integrazione dei nostri sensi. Le informazioni visive e tattili – insieme a quelle che provengono dalle articolazioni, dai tendini e dai muscoli, che ci danno il senso della posizione relativa alle parti del nostro corpo (ciò che nelle neuroscienze si definisce propriocezione) – vengono combinate e ci forniscono la sensazione che il nostro corpo ci appartiene. Questa sensazione costituirebbe a sua volta una componente cruciale del nostro senso del sé. Ed è solo quando il processo viene interrotto da qualcosa di inatteso – come ad esempio, quando il cervello riceve informazioni sensoriali contrastanti, come nell’illusione della mano di gomma – che accade qualcosa di strano.
L’esempio appena citato, relativo al non sentire un arto del corpo come un arto proprio, può difatti verificarsi anche al contrario, come accade in tanti non meno celebri casi definiti dell’arto fantasma, ovvero quando alcuni pazienti che hanno perso un braccio in un incidente, avvertono un dolore al posto in cui il braccio non c’è più.
In questo caso i neuroscienziati hanno trovato oramai un accordo alquanto condiviso nello stabilire che i cosiddetti arti fantasma sarebbero il prodotto di un errore nella rappresentazione corporea cerebrale.
Alla base c’è un’ipotesi, risalente almeno agli anni Trenta del Novecento, secondo cui il cervello crea delle mappe o delle rappresentazioni del nostro corpo, così come dell’ambiente circostante, quello che definiamo comunemente realtà. Il più celebre studioso che ha recentemente sposato quest’ipotesi, estendendola peraltro alla rappresentazione dello stesso “io”, è il filosofo Thomas Metzinger. Secondo la sua tesi il cervello crea dei modelli, delle rappresentazioni dell’ambiente in cui il corpo si muove. E il sé non sarebbe altro che un modello, una rappresentazione dello stesso organismo che viene utilizzata per regolarne le interazioni con l’ambiente.
Detto in altri termini, il sé non sarebbe un oggetto realmente esistente, ma un complesso costrutto rappresentazionale. Esistono organismi biologici, ma non esistono oggetti come il sé. Alcuni organismi – come quello cui ci stiamo riferendo in questo saggio – possiedono dei modelli di sé, ma questi ultimi non sarebbero dei sé, ma stati complessi del cervello. Tutto quello che esisterebbe, secondo Metzinger, sarebbero dei complessi sistemi di elaborazione dell’informazione impegnati in operazioni di modellizzazione del sé.
Questa forma di attuale neuroscetticismo, al di là della sua apparente complessità teorica, non mi pare si discosti molto dal ben più radicate e motivate dottrine dell’inesistenza del sé apparse di tanto in tanto nella nostra tradizione filosofica, e che trova due rappresentanti paradigmatici ancora in Sartre e David Hume.
Il grande esistenzialista francese sosteneva che la coscienza non ha bisogno di nessun io di riferimento, ovvero di nessun principio di identità trascendente. Un’indagine accurata della coscienza dimostrerebbe, secondo Sartre, che non è presente in essa nessun io che la abiti o la possieda.
Quando sono assorto dalla scrittura di queste righe, ho una coscienza dell’autoconsapevolezza narrativa e preriflessiva del processo di scrittura in atto, ma non ho alcuna consapevolezza di un io. Fin quando siamo assorti nelle nostre esperienze, finché le stiamo vivendo, non appare nessun io. L’io diventa autocosciente solo quando adottiamo una presa di distanza, solo quando oggettiviamo l’esperienza riflettendo su di essa. In questo senso – come direbbe Sartre – l’io appare alla riflessione come un oggetto e non come il soggetto della riflessione stessa. E quando lo esamino, esso mi apparirà come l’io di un’altra persona.
Ma è David Hume che fornisce a questa interpretazione scettica una valida indicazione per orientare il discorso sull’identità verso direzioni più originali. Al di là di quanto già ricordato, il grande filosofo scozzese sosteneva, infatti: “ci vuol sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la persona, non è un’impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente e non esistono mai tutte insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per conseguenza, non esiste tale idea”.
Da qui la nota conclusione di Hume secondo la quale la descrizione dell’io, qualunque cosa sia l’io, mostra l’uso di una finzione grammaticale.
L’aspetto che appare maggiormente degno di attenzione nella riflessione di Hume riguarda in particolar modo quest’ultimo elemento: in un certo senso è qui che noi ritroviamo le origini della fruttuosa ricerca, tuttora in grande espansione, sul rapporto tra linguaggio e autocoscienza, ricerca che ha annoverato Wittgenstein tra i suoi principali interlocutori. Considerare l’Io come un fenomeno principalmente linguistico, consente in qualche modo di salvaguardare e di integrare dialetticamente i cosiddetti aspetti fisici e mentali ereditati dalla concezione dualistica del Sé, evitando però di scomodare l’oramai improponibile versione essenzialista dell’homunculus, così caro alla nostra tradizione culturale.
Da una parte abbiamo dunque una serie di pratiche discorsive e dall’altra una serie di configurazioni neuronali che si autostimolano a vicenda, essendo assolutamente impensabili (se non dal punto di vista teorico) indipendentemente l’una dall’altra. Tale connubio, peraltro, non si identifica completamente con il cervello (inteso tradizionalmente come un semplice organo materiale) in quanto esso si colloca evidentemente al di là della dimensione del singolo, per confondersi a sua volta con il contesto sociale di riferimento.
L’autocoscienza individuale è però un fenomeno caratterizzato da intermittenze e irregolarità. I singoli e circoscritti episodi in cui gli esseri umani, ricollegando i diversi fenomeni autocoscienti, elaborano il loro senso unitario del sé, non possono essere spiegati se non facendo riferimento alla questione della narrazione e dell’autonarrazione.
L’uomo è un corpo che esiste grazie all’emergere della coscienza di un sé (resa possibile dalla presenza di un cervello esteso), ovvero di un’identità.
Un’identità diventa tale attraverso l’autocoscienza, se e solo se si riesce a trasformare un materiale più o meno grezzo depositato nella memoria in una storia.
ottavo movimento
Peter Berger e Thomas Luckmann, in un loro celebre saggio di sociologia fenomenologica, definivano la dialettica del rapporto tra individuo e collettività con queste parole: “le società hanno una storia nel corso della quale specifiche identità si affermano; queste storie, però, sono determinate da uomini con una specifica identità”. L’esistenza di un’identità specifica e coerente sembra possibile solo attraverso il ricorso all’artificio di una narrazione; un racconto di sé più o meno esplicitato, secondo modalità narrative che possono essere rubricate in modo diverso a seconda del paradigma culturale dominante.
Riprendendo una sintetica formulazione di Jerome Bruner, potremmo affermare che, per quanto sia possibile fare affidamento su di un cervello funzionante per conseguire la nostra identità, «fin da principio siamo virtualmente espressioni della cultura che ci nutre. Ma la cultura a sua volta è una dialettica, piena di narrazioni alternative su ciò che il Sé è o potrebbe essere. E le storie che raccontiamo per creare noi stessi riflettono quella dialettica».
L’ampia letteratura sull’argomento, nell’analizzare le trasformazioni intervenute nell’ambito di tali modalità narrative, evidenzia alcuni aspetti di grande significato per la ricerca sull’identità che, nell’avvicinarci alla conclusione di questo lavoro, mi piacerebbe riprendere e in qualche modo valorizzare.
Il bisogno di narrarsi a se stessi risponde ad un ostinato bisogno antropologico di equilibrio, o – secondo una felice espressione di Jerome Bruner – da una sorta di necessità di bilanciamento. “Da una parte deve creare una convinzione di autonomia, persuaderci che abbiamo una volontà nostra, una certa libertà di scelta, un certo grado di possibilità. Ma deve anche metterci in relazione con un mondo di altre persone – con la famiglia e gli amici, con le istituzioni, il passato, gruppi di riferimento. Ma nell’entrare in relazione con l’alterità è implicito un impegno verso gli altri che ovviamente limita la nostra autonomia. Sembriamo virtualmente incapaci di vivere senza entrambe le cose, l’autonomia e l’impegno, e le nostre vite cercano di equilibrarle. E così pure i racconti di Sé che narriamo a noi stessi».
Poter narrare una storia incentrato su un personaggio definito e riconosciuto in quanto “io”, implica l’attivazione di flusso comunicativo che, a partire da una certa fase dell’esistenza, l’uomo ha la necessità di creare riflessivamente con sé stesso. Non poter dire “io” corrisponderebbe al contrario alla perdita della possibilità di riferirsi dialetticamente al proprio sé, il che, in ultima istanza, implicherebbe una vera e propria condizione di smarrimento esistenziale.
Come ad esempio accade con alcune malattie degenerative del cervello, i soggetti colpiti finiscono progressivamente con l’assumere uno “stato dell’essere” che li conduce inevitabilmente verso l’annullamento del proprio senso di identità. Si comincia con una qualche semplice e apparentemente banale dimenticanza dei nomi degli oggetti e delle persone anche più familiari, per poi passare – ovviamente in concomitanza all’estendersi di altre complicazioni patologiche – ad uno stato in cui si abbandona completamente l’uso di quella particolare finzione grammaticale attraverso la quale, nel corso della propria esistenza, ognuno di noi impara a riferirsi a se stesso.
E se è vero che perdere la capacità di riferirsi a se stesso non implica necessariamente una scomparsa dell’identità in quanto tale (nel caso dell’Alzheimer, anzi, si entra “oggettivamente” a far parte di una nuova “categoria sociale”, con tanto di tesserino di riconoscimento e benefit concessi dall’assistenza pubblica), ciò nondimeno si deve convenire che, purtroppo, tale inabilità conduce inevitabilmente all’eclisse di quanto, almeno soggettivamente, vi è di più significativo per un essere umano.
Una breve precisazione terminologica su questo aspetto ritengo sia opportuna prima di proseguire. È infatti fin troppo radicata nella nostra cultura, per motivi sui quali ci siamo già estesamente soffermati nel corso delle pagine precedenti, l’idea che con il termine Sé, in quanto trasposizione più o meno adeguata del Self anglosassone, ci si riferisca a qualcosa di “oggettivo”, di “tangibile”, di “materiale”, come ad esempio il corpo o una delle sue tante componenti: dal volto al cervello, passando per la ghiandola pineale di cartesiana memoria. In alternativa, la storia del pensiero occidentale ha proposto almeno altrettante “sostanze”, anche se non necessariamente tangibili, come l’anima, lo spirito, la coscienza, l’inconscio, la mente.
Come abbiamo avuto modo di osservare, una delle caratteristiche che contraddistingue l’approccio sociologico allo studio dell’identità è proprio quella di evitare il riferimento a qualsivoglia paradigma “essenzialista”. Il Sé al quale la sociologia rivolge la sua analisi, e al quale abbiamo fatto riferimento nel corso del presente lavoro, non è una sostanza, ma il nome attribuito ad uno stato dell’essere. E quando pertanto si parla di uno smarrimento del Sé connesso all’incapacità di rivolgersi riflessivamente a se stessi con il pronome Io, è alla perdita di un particolare stato dell’essere che intendo riferirmi e a null’altro.
“Prendi un altro nome!” è l’accorata richiesta di Giulietta, quando scopre che l’identità di colui che ella ama è quella di Romeo Montecchi. “Che c’è nel nome?” – si chiede poi, retoricamente, prima di rispondere lei stessa – “Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo profumo”. Ciò che evidentemente Shakespeare intende suggerire in questo passaggio è che un nome, il nome Romeo in quanto tale, non è il soggetto dell’amore di Giulietta, ma un semplice strumento di identificazione sociale e, nel caso specifico (in quanto Montecchi), anche di categorizzazione e di discriminazione. Nel nome che designa la persona non vi sarebbe dunque l’aspetto essenziale della sua personalità, così come nel nome “rosa” non vi è il profumo del “fiore”.
Ma, è lecito chiedersi ancora: in cosa consiste quel qualcosa di “essenziale”? O meglio: può esistere una tale “entità” indipendentemente da colui che ne fa esperienza grazie alla imprescindibile mediazione della sua denominazione linguistica?
La raffinata distinzione tra “come si chiama la cosa definita dal nome” e “la cosa stessa” è antica almeno quanto i primi commentatori della Genesi. Il mondo in cui fu introdotto Adamo non era intaccato dalle sue parole. Tutto quello che Adamo vedeva, sentiva e immaginava doveva materializzarsi davanti a lui, come in fondo davanti a tutti noi, con strati di nomi con cui il linguaggio cerca di rivestire la nuda esperienza. Se, in una inverosimile ipotesi, il mondo in cui dobbiamo vivere e fare esperienza fosse “senza nomi”, saremmo tutti costretti – proprio come dei malati di Alzheimer – a vagare smarriti in uno spazio vuoto, anomico e senza senso, dai contorni allucinanti, privi della nostra stessa identità.
È necessario insomma accettare il presupposto secondo il quale il mondo dell’esperienza umana è tale solo se avvolto e contemporaneamente intriso di un qualche “linguaggio” e che nessuna esperienza umana – compresa ovviamente la capacità di essere coscienti di Sé – è praticamente separabile dall’esistenza di un linguaggio. Un linguaggio però di tipo particolare, in grado di distinguere l’essere umano da ogni altra creatura vivente. L’uomo, infatti, non è l’unico essere capace di utilizzare lo strumento linguistico per comunicare con gli altri; è però, tra tutti, il solo ad utilizzarlo per comunicare con se stesso, ovvero è l’unico ad utilizzare il linguaggio riflessivamente.
Norbert Elias – che su tali tematiche ha proposto analisi sempre illuminanti – ha scritto: “La mutevolezza delle lingue, il fatto che possano divenire più o meno adeguate alla realtà ed insieme alterarne il modello e il significato, è perfettamente compatibile con il fatto che le lingue, a tutti gli stadi di sviluppo, hanno alcune funzioni comuni. Può essere sufficiente menzionarne una, che indica graficamente la funzione della lingua come mezzo di comunicazione tra una pluralità di esseri umani. Mi riferisco alla funzione che in gran parte delle lingue europee è rappresentata dai pronomi personali. Insieme alla corrispondente forma grammaticale di un verbo, queste serie sono indispensabili mezzi di orientamento (…); qualunque possa essere la particolare forma grammaticale, essa viene usata per rappresentare questa funzione che, in una forma o nell’altra, è presente in tutte le lingue conosciute. Se ciò non fosse, il caos avrebbe il sopravvento. Rispetto alla comunicazione degli animali, spontanea e centrata su di sé, le funzioni svolte dai pronomi personali sono indicative del notevole distanziamento da sé e della concentrazione sull’oggetto che la comunicazione linguistica richiede a chi parla. Per usare appropriatamente una rappresentazione simbolica di sé, come ad esempio il pronome personale “tu” o “io”, bisogna essere in grado di guardare se stessi, per così dire, da una certa distanza”.
Prima di riprendere questa fondamentale questione della “distanza-da Sé”, è necessario ricordare ancora che, quando David Hume sosteneva che l’io dovesse essere considerato una finzione grammaticale, intendeva molto probabilmente anch’egli qualcosa del genere: affinché vi sia autocoscienza, è necessario che si crei una sorta di “entità fittizia” – ovvero il pronome personale “io” (il fatto che lo si esprima o meno può anche essere considerato irrilevante) – che si astrae da colui che pensa (linguisticamente) o parla, ergendosi di fronte a questi come un “altro”.
Se proviamo ad ampliare il respiro di tali considerazioni, ne consegue quasi naturalmente un’altra, forse scontata, ma non per questo meno significativa per una sociologia esistenziale dell’identità: nessun “io” può esistere indipendentemente da un contesto storico-culturale di riferimento. Parlare una lingua, infatti, “significa abitare, costruire, registrare un particolare ordine del mondo”.
Osservando lo sviluppo storico delle società occidentali, non sarà difficile riconoscere che quel modello di autopercezione umana fondato sui mezzi di orientamento e comunicazione linguistici appena descritti sia tutt’altro che ovvia, universale e dominante come talvolta si ritiene. Affermare dunque che l’io scaturisce dalla capacità di dialogare e riflettere con se stessi, può essere considerata una condizione necessaria ma non ancora sufficiente per comprendere appieno quelle che sono le caratteristiche essenziali in cui inquadrare la ricerca sull’identità.
Non si possono assolutamente trascurare, infatti, le diverse modalità attraverso cui apprendiamo ad impostare e a modulare tali “atti linguistici”, i quali sono determinati dal contesto socio-culturale al cui interno, fin dalla prima infanzia, ognuno di noi viene socializzato. “Il modo in cui noi decidiamo di entrare in transazione linguistica con gli altri – scrive Jerome Bruner, uno dei pionieri della ricerca su queste tematiche –, nonché i tipi di scambi che impostiamo con loro, l’intensità con cui desideriamo farlo (anziché restare distaccati, silenziosi o comunque chiusi nel privato), plasmeranno la nostra percezione di quali siano le transazioni culturalmente accettabili e la nostra definizione dell’ambito entro cui attuarle e della possibilità di farlo: in una parola, plasmeranno il nostro io”.
Nella letteratura scientifica sul tema dell’identità, l’approccio finora delineato viene in genere considerato nei termini di un “riduzionismo linguistico”. Non so se si tratti di una collocazione pertinente per la mia impostazione, vorrei però provare almeno a chiarire in che senso essa può essere considerata “riduzionista” e, se proprio deve essere etichettata in questi termini, mi piacerebbe che venisse considerata nell’ambito di un riduzionismo di tipo narrativo piuttosto che semplicemente linguistico.
Sento infatti di poter aderire pienamente all’idea secondo la quale l’identità di una persona non si trovi tanto nel comportamento, né – per quanto importante possa essere – nelle relazioni con gli altri, ma soprattutto nella capacità di mantenere in funzione una particolare narrazione. Allo stesso modo ritengo che l’analisi delle modalità attraverso cui un tipo particolare di cultura incentiva o disincentiva le facoltà di narrare dei suoi membri, sia un tema di straordinario interesse per la ricerca sociale, ancora non sufficientemente esplorato.
Se si considerano inoltre le trasformazioni che stanno investendo le tecnologie della comunicazione nel mondo contemporaneo, non si può non notare l’attualità di una riflessione che riservi una sempre maggiore attenzione al tema della narrazione identitaria: se è vero, infatti, che la cultura occidentale moderna ha avuto negli ultimi decenni una tendenza a disincentivare le “facoltà narrative” delle persone, alcuni nuovi media emergenti stanno introducendo, con imprevedibili e rapidissime capacità di penetrazione sociale, modalità narrative assolutamente originali con le quali è necessario confrontarsi.
Una tale impostazione può trovare pertanto una sua più adeguata collocazione integrandolo con quelle emerse nell’ambito del cosiddetto paradigma narrativo. Per gli autori che, a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, possono essere ricondotti a tale prospettiva, il pensiero narrativo viene considerato non solo una piattaforma su cui fondare l’organizzazione dell’esperienza, della conoscenza e dei processi comunicativi, ma soprattutto una prassi autoriflessiva attraverso la quale strutturare coerentemente la propria identità.
Ai fini di una più chiara comprensione delle caratteristiche di tale paradigma può essere utile rifarsi alle definizioni di alcuni dei suoi padri fondatori. William James, innanzitutto, sosteneva che il pensiero umano potesse essere considerato sostanzialmente di due tipi: argomentativo e narrativo. Quest’ultimo – che comprende ovviamente anche tutti quegli aspetti contemplativi e descrittivi del narrare – è il tipo di pensiero al quale facciamo riferimento quando pensiamo a noi stessi in modo riflessivo. Prendendo spunto dalle suggestioni derivanti da questa idea, il già citato Bruner ha proposto una delle tesi più significative nella storia degli studi sull’identità: “ci sono due tipi di funzionamento cognitivo – egli scrive – due modi di pensare, ognuno dei quali fornisce un proprio metodo particolare di ordinamento dell’esperienza e di costruzione della realtà. Il primo, quello paradigmatico o logico scientifico, persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico. Esso ricorre alla categorizzazione o concettualizzazione, nonché alle operazioni mediante le quali le categorie si costituiscono, vengono elevate a simboli, idealizzate e poste in relazione tra loro in modo da costituire un sistema (…). L’uso creativo del pensiero paradigmatico produce buone teorie, analisi rigorose, argomentazioni corrette e scoperte empiriche che poggiano su ipotesi ragionate. Ma l’immaginazione (o intuizione) paradigmatica è diversa dall’immaginazione del romanziere o del poeta. Essa, infatti, si esprime nell’abilità e nell’attitudine a cogliere possibili relazioni formali prima ancora di saperle dimostrare formalmente. L’uso creativo dell’altro modo di pensare, quello narrativo, produce invece buoni racconti, drammi avvincenti e quadri storici credibili, sebbene non necessariamente veri. Il pensiero narrativo si occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo o a lui affini, nonché delle vicissitudini e dei risultati che ne contrassegnano il corso. Il suo intento è quello di calare i propri prodigi atemporali entro le particolarità dell’esperienza e di situare l’esperienza nel tempo e nello spazio. (…). Al contrario, il pensiero paradigmatico è teso a trascendere il particolare e a conseguire un grado di astrazione sempre più elevato, sicché finisce per disconoscere in via di principio che il particolare possa mai avere un qualche valore esplicativo”.
Questi due modi di pensare, pur essendo complementari, risultano essere irriducibili l’uno all’altro: le argomentazioni hanno a che fare con la verità, i racconti con la verosimiglianza. Contrariamente al pensiero logico-scientifico, costretto all’interno di schemi dettati da necessità di carattere formale, il pensiero narrativo serve a rendere compatibili il cosiddetto scenario dell’azione (ciò che accade e a chi) e lo scenario della coscienza (ciò che il narratore e i personaggi pensano, provano, percepiscono, ovvero i contenuti cognitivi ed emotivi dell’esperienza).
In un prezioso saggio su Robert Musil pubblicato circa vent’anni or sono Peter L. Berger, lamentando la persistente incapacità da parte degli storici e dei sociologi (nonostante i loro molteplici ed anche apprezzabili tentativi) di riuscire a tematizzare in modo definitivo e soddisfacente il fenomeno dell’identità moderna – ovvero di «come l’uomo moderno differisca da altre variazioni della specie» –, proponeva di superare tale impasse cercando una guida proprio nella letteratura e, in particolare, nel grande romanzo moderno. Certi generi narrativi – egli sosteneva – conferendo una forma particolare all’esperienza, la rendono intelligibile secondo modalità che a loro volta consentono di potergli attribuire un senso e un significato sia a livello individuale che collettivo. E tale “forma particolare” viene resa possibile dalla narrazione essenzialmente grazie all’elaborazione di una grammatica del tempo.
La narrazione, in questo senso, è il modo attraverso il quale gli esseri umani organizzano e costruiscono il proprio rapporto con la temporalità e – attraverso la sua “grammatica” – è il modo che rende possibile la creazione di una “realtà” o di un “mondo” possibile e non necessariamente certo, oggettivo o verificabile empiricamente.
Secondo una suggestiva intuizione di George Steiner il tempo, e in particolare la percezione umana del tempo futuro (“la capacità di discutere fatti che potrebbero succedere il giorno dopo il proprio funerale o fra un milione di anni nello spazio interstellare”), sarebbe una caratteristica apparsa relativamente tardi nell’evoluzione del linguaggio umano. E, cosa a mio avviso del massimo interesse, lo stesso vale per il congiuntivo e per i modi controfattuali collegati ai tempi futuri. «Soltanto l’uomo – scrive Steiner – per quanto possiamo concepire, dispone dei mezzi per modificare il proprio mondo attraverso le subordinate ipotetiche, generando espressioni come: “se Cesare non si fosse recato al Campidoglio quel giorno”. Mi sembra che questa “grammatologia” immaginaria, formalmente incommensurabile, dei futuri verbali, dei congiuntivi e degli ottativi abbia svolto un ruolo indispensabile, ieri come oggi, per la sopravvivenza e per l’evoluzione dell’animale linguistico».
Sulla base di tali considerazioni l’asse della ricerca sembrerebbe evidenziare un tendenziale spostamento da un orientamento di carattere prevalentemente ontologico ad uno fondato principalmente sui processi comunicativi; ovvero, una ricerca orientata non più verso un’analisi descrittiva e formalizzata di determinati modi dell’essere, ma verso un’analisi narrativa delle intenzioni dell’essere nell’ambito di una realtà da coniugare “al congiuntivo”.
Questa cosiddetta congiuntivizzazione della realtà implicherebbe a sua volta la produzione di un universo di riferimento in cui abbiamo a che fare non più con delle stabili certezze ma con delle ipotetiche possibilità umane; quelle denotate dagli ottativi, dai modi grammaticali del desiderio che aprono il carcere della necessità fisiologica e delle leggi meccaniche. Secondo una felice espressione di Milan Kundera, si tratta di porre al centro dell’attenzione non tanto la cosiddetta realtà ma l’esistenza. E quest’ultima non è necessariamente limitata a ciò che si è effettivamente realizzato, ma è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace.
Sono questi i motivi che inducono coloro che, come me, tendono ad abbracciare tale prospettiva teorica, a concordare con una immagine del Sé come artificio narrativo mai completamente definibile, ma in continua evoluzione di fronte alle innumerevoli possibili alternative che si producono nel corso di un’esistenza:
l’identità, insomma, è il nome attribuito ad uno stato dell’essere “al congiuntivo”.
nono movimento
Come hanno giustamente teorizzato alcuni brillanti filosofi appassionati di neuroscienze, il cervello umano potrebbe essere definito una macchina che produce futuri.
L’evoluzione ci ha dotati con esso del più straordinario strumento di lotta contro ogni possibile antagonista presente nell’ambiente circostante. Non siamo la specie più forte, né tanto meno la più resistente presente sulla terra. Siamo però i più preparati per prevedere il futuro e agire di conseguenza.
Invece di affidarci alle pur efficaci, ma lente, direttive dei geni, prevediamo soluzioni inedite alle sfide dell’ambiente. Il nostro cervello costruisce immagini della realtà – simboli, rappresentazioni, copie – e ogni volta che percepisce una situazione rischiosa, non solo trova qualcosa di simile o di equivalente nella sua straordinaria memoria, ma addirittura è in grado di costruirne una ad hoc, con la sua immaginazione. Invece di calcolare (come fanno le macchine intelligenti), il cervello immagina distinti scenari possibili e sceglie quello che giudica il più conveniente in un frammento di secondo. Se il modello, il pattern (insomma questa configurazione neuronale efficace) funziona, esso si rafforza e si stabilizza; se non funziona, si autoelimina grazie a un meccanismo straordinariamente utile (quanto sottostimato): l’oblio.
Il flusso di informazioni che circola dai sensi al cervello e dal cervello ai sensi, produce modelli del mondo di una intricata complessità. Sarebbe praticamente impossibile indovinare quando questi modelli, nelle loro infaticabili e incessanti riconfigurazioni, abbiano potuto produrre quel salto logico ipotizzato da Dougles Hofstadter nel suo I’m a Strange Loop: l’istante in cui un’idea si trasforma all’improvviso in qualcosa di autoreferenziale. Ciò non impedisce di comprenderne i vantaggi: per quanto, nell’insieme della complessa architettura in parallelo dei neuroni l’Io possa apparire come un’anomalia (una specie di virus informatico o di infezione – come suggerisce Daniel Dennett), si tratta di un’anomalia benefica che ci consente di tenere uniti un’insieme infinito di dati e di sensazioni di camera iperbarica.
Grazie a una tale illusione (illusione nel senso che un tale io non si po’ ritrovare materialmente in nessuna parte del cervello), siamo ben attenti e concentrati nel fare attenzione, preservare e curare il corpo che lo contiene. Lo sforzo è destinato a realizzare il nostro principale obiettivo in quanto esseri viventi: permettere che i nostri geni si replichino.
Se volessimo accontentare i materialisti alla Crick citati in precedenza, potremmo dire che siamo semplicemente (!) macchine indaffarate ad assicurare la sopravvivenza dei nostri geni.
Richard Dawkins, in un suo celebre saggio, sosteneva che l’insieme dei nostri organismi sarebbero in un certo senso succubi dell’egoismo dei nostri geni, in quanto questi ci obbligano a soddisfare la loro ansia di immortalità. I nostri io, non sarebbero altro, da questo punto di vista, che una sorta di pilota automatico che serve a far atterrare i suoi passeggeri nel modo migliore possibile: una geniale invenzione.
Nulla avrebbe potuto però far prevedere che le idee che circolano nel nostro cervello potessero acquisire una loro vita propria. I memi – secondo un’altra brillante definizione dello stesso Dawkins – non meno egoisti dei geni, hanno fatto in modo che il cervello divenisse un organo completamente e indistinguibilmente ibrido: anche se a livello materiale esso è costituito da neuroni, sinapsi, atomi, molecole, sostanze chimiche e spinte elettriche, esso è inestricabilmente integrato dalle idee che emergono al suo interno, che ad un certo punto sono a loro volta diventate capaci di modificare la materia stessa da cui erano state prodotte. Il punto cruciale è quello di rendersi conto e di accettare il fatto che le idee non sono però così immateriali ed eteree come potrebbe apparire ad uno sguardo superficiale, bensì sono il risultato di configurazioni ben precise di sinapsi e reti neuronali.
Uno dei fenomeni più interessanti a tal proposito, è che esse sembrano sottomesse alle stesse regole evolutive che governa tutti gli esseri viventi: quelle che meglio si adattano all’ambiente, sopravvivono; quelle che non si adattano, si estinguono irrimediabilmente.
Da questo punto di vista l’io andrebbe considerato come uno dei memi (o insieme di memi) più adatti e vincenti mai concepiti dal cervello.
Quale capacità adattativa potrebbe mai essere migliore, per un’idea, di quella di integrarsi in quella parte della coscienza che consideriamo essenziale per noi? Quando un meme entra a far parte della nostra identità si assicura la sua stessa sopravvivenza.
Ultimo movimento
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio… Si tratta di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale, scritto da Albert Camus, un altro degli imprescindibili padri del pensiero esistenzialista.
Non si può affrontare il tema dell’identità senza considerare l’universale dimensione esistenziale della morte, l’esperienza empirica più evidente dell’altrimenti inesprimibile sentimento del vuoto. Sentire l’assenza è, forse, la dimensione più caratterizzante della vita di ogni essere umano.
Un giorno mia madre è morta. Al vedere il suo corpo, mi sono detto tra me e me (ho detto in silenzio al mio io): Lei non è lì. Mia madre non è il suo corpo. Oggi continuo ad essere convinto che mia madre non fosse quell’insieme di organi inerti adagiato sulla barella della stanza da letto di mia sorella. Sono costretto però a dover riconoscere che mia madre era anche quel corpo.
Mi resta un’esperienza; la memoria di un’esperienza. L’esperienza di un dolore intensamente vissuto, che è ancora oggi dolore. Sono talvolta incappato in saggi scientifici che provano ad indagare, anche dal punto di vista neuronale, se il dolore possa essere associato a un fenomeno fisico. Credo sia indifferente in certi casi: il dolore è quell’esperienza che viene espressa come dolore. In certi casi il dolore è provocato dall’assurda (proprio perché, forse, anche fisica) sensazione dell’assenza.
Questo saggio su L’Essere e l’Io aveva preso le mosse da una riflessione sulle origini di un organismo: un organismo che vive. Chiudiamo, dunque, riflettendo su un uomo che muore.
Quando l’oggetto della riflessione si è spostato dall’organismo in questione all’essere umano, ho provato a collocare al centro del discorso – una mia precisa scelta teorica – una considerazione propria del pensiero esistenzialista; quella secondo cui l’atteggiamento principale dell’uomo è il prendersi cura del suo Essere.
Si tratta di una condizione basata sul fatto che l’esistenza dell’essere umano non è una pura contemplazione, ma una vera e propria inquietudine, un bisogno, una cura, appunto. L’essere umano è empiricamente costretto fare i conti con le sue possibilità e impossibilità. Tale atteggiamento – ineludibile – si sviluppa nel tempo e attraverso il tempo; un tempo che – altrettanto ineludibilmente – conduce verso la fine dell’esistenza. La coscienza è sempre rivolta verso un oggetto con il quale non giungerà mai a coincidere del tutto. È questa la mancanza, l’assenza costitutiva dell’essere umano.
La morte, se si intende abbracciare la prospettiva esistenzialista qui delineata, deve essere considerata la principale dimensione esistenziale dell’uomo, nonché il fondamento di ogni elaborazione della sua identità.
La morte, che colpisce l’uomo nella singolarità e unicità della sua esistenza, strappandolo ai suoi simili, e quindi anche a tutte le possibili “congiuntivizzazioni” del suo essere in relazione profonda e sentita con il mondo, deve sempre e comunque essere considerata la condizione a priori che caratterizza la natura umana.
La responsabilità intellettuale dell’essere umano deve innanzitutto consistere nel voler esaminare questa sua verità esistenziale, fronteggiando con coraggio e consapevolezza l’inevitabile prova dell’angoscia.
[1] Non mi potrò soffermare qui su questo tema, per il quale rinvio a miei precedenti saggi.
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