di Rosella Tomassoni e Monica Alina Lungu
L’indagine psicologica sul prodotto letterario kafkiano, di cui questo breve saggio costituisce un esempio[1], è volta ad esaminare le determinanti ultime del pensiero dell’autore, ovvero le motivazioni inconsce che trovano una via di espressione sublimata nella produzione creativa. L’analisi prende le mosse dalla decriptazione dei simboli e dalla descrizione dei personaggi, considerati come proiezioni inconsce della personalità dello scrittore.
Gli scritti kafkiani, per lo più frammentari, possono essere definiti nel loro insieme come trascrizioni metaforiche di una complessa vita interiore in cui il dato biografico, che è una nota costante, si sublima in rappresentazione emblematica di una condizione umana più universale.
E’ il caso del racconto che prenderemo in esame, Poseidone, in cui la dissacrazione del mito diviene anche simbolo di molte dimensioni della vita umana.
La prima immagine del racconto ci rappresenta il dio al suo tavolo di lavoro intento a fare i conti; appena dopo, si legge: «l’amministrazione di tutte le acque gli procurava un lavoro immenso. Avrebbe potuto trovare aiuti quanti ne voleva e ne aveva anche moltissimi, ma siccome prendeva molto sul serio il suo ufficio si faceva tutti i conti da sé, sicché gli aiutanti poco gli potevano giovare».
Come è normale nella prosa kafkiana le prime affermazioni spesso sono logiche e dettate dall’Io razionale. Poseidone infatti, dovendo amministrare tutti mari del pianeta, aveva sicuramente un lavoro immenso, ma subito segue un’affermazione negativista (sulle potenzialità di azione concreta) quando dice che potrebbe trovare moltissimi aiuti ma che non si fidava di nessuno di essi[2].
Dal punto di vista metaforico il concetto che ci sembra di cogliere è che Kafka è convinto che se si prende sul serio uno dei tanti uffici affidato all’uomo sulla terra bisogna portarlo al termine da sé perché l’uomo non può contare veramente sull’aiuto dell’altro uomo, anche se questi avrebbe teoricamente la capacità di aiutarlo[3].
Eseguire tutto il lavoro da solo non comporta come conseguenza il fatto che si possa essere soddisfatti del lavoro svolto e questo non per stanchezza ma perché è tipico nel pensiero kafkiano che non vi è sul pianeta per l’uomo un lavoro che possa veramente piacergli.
«Lo eseguiva soltanto perché gli era imposto, anzi più volte aveva chiesto, diceva, un lavoro più allegro, ma ogni qualvolta gli si facevano proposte diverse, risultava che nulla era per lui così adatto come l’ufficio affidatogli».
Le notazioni psicologiche sono varie perché non si capisce chi esattamente possa imporre al fratello di Zeus, con esclusione dello stesso Zeus che aveva altri infiniti lavori da fare, di essere il dio del Mare (se non per sua scelta); tornando alla metafora si può dire che il significato del suo disagio psichico possa estendersi al disagio che l’uomo prova nell’eseguire un qualsiasi lavoro, anche se di grande rilievo, come può essere l’amministrazione di tutti i mari del mondo.
Altra osservazione è che Poseidone avrebbe chiesto più volte un lavoro diverso, più allegro, ma si può osservare che questa richiesta è messa in dubbio dalla frase: «diceva lui» (e forse non è stata mai fatta). È chiaro che non è precisato neppure a chi è rivolta la richiesta anche se si può pensare a un ipotetico Consiglio degli dei. Ancora meno chiaro è individuare in che senso si era constatato che nessun altro ufficio era più adatto di quello affidatogli.
Il significato latente è che l’uomo, che non è mai contento del proprio lavoro, risulta però paradossalmente il più idoneo a ricoprire l’ufficio che svolge per un giudizio dato da altri, come sempre anonimi, che hanno il potere di giudicare.
Segue la considerazione che sarebbe difficile trovare qualcosa di diverso per lui.
Un’eventuale proposta alternativa, infatti, che potrebbe porsi a Poseidone e cioè l’amministrazione di un solo mare (cosa che porterebbe i suoi compiti contabili non a essere più piccoli ma, dice l’Autore, «soltanto più meschini») è del tutto inaccettabile.
D’altra parte qui si tratta, in linea metaforica, di un personaggio di altissimo rilievo e evidentemente a un personaggio del genere non si può offrire un posto che non sia dominante.
E qui inizia un discorso diverso ma che vuole indicare come ogni persona, in un certo senso, sia condannata a vivere nell’ambiente in cui il caso l’ha collocata (anche se questo gli procura disagio e sofferenza) perché uscire fuori dall’ambito in cui si è costretti a vivere determina immediatamente una condizione di autentica angoscia (vedi in proposito il protagonista di “Un mondo di Marionette” di I. Bergman[4], che appena uscito dall’ambiente asfissiante in cui vive cade in un stato peggiore di psicosi aggressiva)[5].
Poseidone, inoltre, alla sola idea di avere un lavoro fuori dall’acqua si sentiva immediatamente male: «il suo respiro divino si scompigliava, il bronzeo torace perdeva equilibrio».
Ciò significa che l’uomo che esce dal proprio ambiente perde quell’equilibrio instabile e precario, ma pur sempre equilibrio, che aveva svolgendo mansioni per lui abituali.
«D’altro canto le sue lagnanze non erano prese sul serio; quando un potente assilla, bisogna fingere di accontentarlo, anche nei casi più disperati; nessuno pensava a esonerare veramente Poseidone dal suo ufficio perché fin dalle origini era stato destinato a fare il dio del Mare e così bisognava continuare».
Si pone l’accento sul fatto che i soliti anonimi interlocutori non prendono sul serio le lagnanze del dio ma trattandosi di un “potente” bisogna ricorrere a un altro degli elementi della favola kafkiana e cioè alla “finzione”.
Inutile pensare a una concreta possibilità di cambiamento che, d’altra parte, è reso impossibile sia per l’angoscia che prende Poseidone quando pensa a stare fuori dall’acqua, sia perché da sempre egli è stato destinato a fare il dio dei Mari[6].
E qui un altro concetto:
«Si seccava soprattutto – e questa era la principale ragione del suo malcontento dell’ufficio – quando veniva a sapere dell’idea che ci si faceva di lui scavallante continuamente con il tridente sulle onde».
Evidentemente l’ipotesi interpretativa metaforica che ci sembra più probabile è quella che Kafka vede l’uomo con davanti a sé molte potenzialità che però non si traducono in dati di fatto; entrano in gioco inoltre altre caratteristiche kafkiane e cioè l’impotenza attribuita alla creatura umana ed il senso di rassegnazione, legato alla percezione che gli uomini abbiano sempre una visione parziale e stereotipata dei propri simili, al pari di quella di Poseidone ritratto sempre con il tridente in mano mentre cavalca le onde.
Il dio del mare trova una relativa pace soltanto negli abissi del mare continuamente impegnato a fare i conti. E poiché ciò comporta anche una monotonia ripetitiva delle proprie azioni, sicuramente causa un senso di sofferenza. L’unica interruzione di tale stato è un viaggio periodico che ogni tanto egli compie alla sede del fratello Zeus.
Tale viaggio però vede il dio tornare «per lo più furibondo». Non si capisce perché debba tornare in questo stato, ma come pura ipotesi si può pensare che l’incontro fra i due più grandi Dei, in un certo senso sempre rivali fra loro, abbia un carattere tempestoso perché l’incontro fra “Grandi” si risolve spesso in uno scontro (per una reciproca frequente gelosia).
E ciò che vale per Zeus e Poseidone come vale per i Grandi sulla terra.
Segue una considerazione di grande interesse per il suo significato latente e cioè che «nella fretta di salire all’Olimpo aveva appena visto i mari di sfuggita e percorsi non li aveva realmente mai». Entra in scena un’altra delle categorie del pensiero dell’Autore e cioè un’amara ironia. Poseidone che ha appena visto i mari salendo all’Olimpo ma non li ha mai percorsi realmente diviene simbolo dell’uomo che dovrebbe conoscere il mondo in cui vive e diventare attore anche non protagonista in quello stesso mondo, ma che, in realtà, è capace soltanto (come è dimostrato anche dal racconto La Finestrina[7]) di dare un’occhiata di sfuggita al mondo esterno rinchiuso nella sua “Monade” con l’aggiunta rispetto a Spinoza di una finestrina, del resto inutile.
La favola volge al termine: Poseidone «soleva dire che per farlo (percorrere i mari) aspettava la fine del mondo; allora avrebbe trovato un momento di quiete in cui nell’imminenza della fine, dopo aver riscontrato l’ultimo conto, avrebbe potuto fare in fretta un viaggetto circolare».
La demitizzazione del mito greca appare a questo punto completa. Il dio anela ad un momento di pace, o meglio di “quiete” (che è cosa diversa rispetto alla pace) ma solo nell’imminenza della fine del mondo, che non dovrebbe comprendere però la fine della sua immortalità, dopo aver per l’ultima volta verificato i propri conti, potrebbe concedersi un “viaggetto circolare”. È il destino dell’uomo, che durante la vita “si affretta e si adopra” per lavorare e raggiungere degli obiettivi e spesso solo al termine della sua parabola esistenziale comprende il valore e il senso di tante altre esperienze.
Il viaggio a cui si allude potrebbe essere dunque, in senso ampio, quello della conoscenza, cui spesso l’uomo rinuncia e che spera al termine della sua vita di poter conseguire.
Ancora una volta si reiterano le modalità di pensiero dell’Autore, basate sul dubbio, l’incertezza e l’impotenza.
Tutto questo però non libera l’uomo kafkiano da quell’angoscia di uscire dalla prigione senza sbarre in cui il destino lo ha posto e da cui deriva un angoscioso desiderio di liberazione.
Riferimenti bibliografici
Bergman, I., (1980) Film: Un mondo di marionette.
Esiodo, (2018), Teogonia, (a cura di Ricciardelli G.), Mondadori, Milano.
Fusco, A., Tomassoni, R., (1995), I racconti di Kafka. Un’analisi psicologica, Milano, Franco Angeli.
Kafka, F., (1979) Racconti, Milano, Mondadori, p. 443.
Pirandello, L., (1935) Maschere nude, Milano, Mondadori.
Postel, J., (2011), Dictionnaire de la Psychiatrie, Paris, Larousse.
[1] Vedi Fusco, A., Tomassoni, R., 1995, I racconti di Kafka. Un’analisi psicologica, Milano, Franco Angeli.
[2] Le divinità marine come anche quelle terrestri e dell’Olimpo erano così numerose che i Greci erano convinti che neppure Esiodo che aveva scritto la Teogonia ne sapeva esattamente il numero.
[3] Viene alla mente marginalmente anche l’affermazione di Pirandello nell’Enrico IV quando dice che Enrico IV preferiva avere alla sua corte non i nobili di alto livello ma quelli di basso rango di cui, forse, si poteva fidare di più. Vedi Pirandello, L., (1935) Maschere nude, Milano, Mondadori.
[4] Bergman, I., (1980) Film: Un mondo di marionette.
[5] Vedi: Postel, J., (2011), Dictionnaire de la Psychiatrie, Paris, Larousse.
[6] Siamo un po’ alla frase di Jaspers “la scelta di essere scelti”.
[7] Op. cit., pag. 131.