EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

L’ignoto che mi porto dentro. L’adolescenza e il dramma famigliare in un racconto di Anna Danielon

di Gianfranco Brevetto

L’infanzia e la giovinezza di Étienne hanno come sfondo gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Anna Danielon, autrice del racconto Una ferita in fondo al cuore, ci conduce attraverso personaggi e luoghi di una vita apparentemente come tante altre.

– Il suo libro si sviluppa intorno alle vicende familiari e abbraccia un periodo che va dall’infanzia all’età matura di Étienne, attraversando un periodo importante della storia politica e sociale del nostro paese e particolarmente gli anni ’70. Cosa hanno significato e significano quegli anni in termini formazione culturale di un giovane?

– È stato il decennio dei referendum, dei cortei, delle proteste, della partecipazione alla vita politica e studentesca. Sono gli anni in cui la famiglia indissolubile e patriarcale entra in crisi. Una svolta sociale che segna un divario tra generazioni. E poi c’erano le assemblee, i comitati di base, le manifestazioni, con le tematiche che facevano da collante. Ogni cosa era evoluzione, rottura e rivoluzione, e tutti i sogni sembravano realizzabili. Per i ragazzi, che per natura vogliono ribaltare il mondo, è stato un periodo di grandi utopie. Erano anche gli anni di piombo… o stavi da una parte o stavi dall’altra, e trovarsi nel mezzo, non prendere posizione… per un adolescente in cerca di riconoscimento poteva essere un problema, come succede a Etienne. Ricordo che a scuola c’era un forte dualismo. Il gruppo, che è fondamentale per chi è alla ricerca della propria identità, era sempre schierato.

– Veniamo ora alla trama, quello che balza subito agli occhi è l’apparente assenza delle figure genitoriali. Perché questa scelta?

– L’allontanamento di Étienne dai genitori avviene in un momento particolare della vita, quello in cui i bambini iniziano a farsi domande. Credo sia un sentire abbastanza comune, dal quale siamo passati tutti. Non è un caso se nei romanzi di formazione i genitori sono spesso assenti. Una scelta che ci fa provare empatia per i protagonisti, che si raccontano in prima persona attraverso le emozioni che provano. Volevo anche trovare lo spunto per parlare di una famiglia allargata, dove le figure di riferimento possono essere altre. In quegli anni di distacchi e lontananze era una situazione piuttosto comune. I figli crescevano lontano dai genitori che cercavano lavoro a migliaia di chilometri di distanza. La famiglia di Étienne appartiene a questo contesto. I pensieri e il sentire di questo ragazzo, che diventa adulto portandosi dentro l’assenza di un padre e di una madre, sono il motore della storia.

– Uno dei temi attorno ai quali si sviluppa la narrazione è quello dell’emigrazione. La Puglia, la Svizzera, Como, fanno da sfondo alla vita di Étienne che si muove a proprio agio tra luoghi, dialetti e lingue differenti. Una disinvoltura che forse si sta perdendo nelle nuove generazioni…

– Negli anni 60 l’uso del dialetto era ancora molto diffuso, soprattutto in famiglia. In pochi avevano frequentato la scuola media, e il dieci per cento delle donne era analfabeta. Ricordo le lezioni in televisione del maestro Manzi, che ebbero un grande ruolo nell’istruzione popolare per il recupero degli adulti non scolarizzati. I dialetti in realtà erano un ostacolo all’integrazione, un po’ come lo sono oggi le lingue. Ma mi piace pensare che per noi bambini fossero una finestra sull’Italia che avevamo visto soltanto in cartolina. Le canzonette, i proverbi, gli accenti e le parlate che risuonavano nei nostri cortili … ho immerso il mio protagonista nella babele linguistica della mia infanzia. A quei tempi non c’erano i viaggi e le vacanze culturali. Il mondo era uno spazio immenso da esplorare. Quale bambino non ne sarebbe stato entusiasta?

– Negli ultimi anni si sta sviluppando un particolare interesse per l’importanza del segreto in ambito familiare. Senza voler anticipare nulla del suo romanzo, le chiederei di dirci la sua opinione su quanto un segreto possa determinare e condizionare la vita di diverse generazioni, soprattutto in termini trasmissione della memoria familiare

In passato il giudizio degli altri e la condanna sociale costringevano a tenere certe situazioni nascoste all’interno del nucleo familiare. Bastava poco per essere additati e perdere la rispettabilità. Mantenere il segreto a volte era persino un dovere giuridico. Penso all’omosessualità, che era “tollerata” – anche se di fatto repressa – a condizione che non se ne parlasse apertamente. Un figlio illegittimo, un padre in galera… i segreti erano un modo per evitare la vergogna e il disonore. Anche il dolore era un fatto privato. Agli uomini era vietato piangere. Oggi sappiamo che questo tenersi tutto dentro può essere causa di grandi sofferenze. Si tace e non si affronta il non detto, finché la matassa diventa difficile da sgrovigliare. È quello che succede in certe forme di depressione. La citazione di Paul Valery “è l’ignoto che mi porto dentro a fare di me ciò che sono” dice proprio questo. Ora se ne parla più facilmente grazie alla psicoanalisi. Il problema è che a volte, quando arriva il momento di guardare in faccia il passato, è troppo tardi e le domande rischiano di restare senza risposta. Come quelle che avremmo voluto fare ai nostri genitori o ai nostri nonni, e che per pudore non abbiamo mai fatto.

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Anna Danielon

Una ferita in fondo al cuore

Eretica edizioni, 2021

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