EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

L’illusione dell’individualità: L’Essere e l’Io. Intervista a Gianfranco Pecchinenda

di Federica Biolzi

  

– Professor Pecchinenda, leggendo il suo ultimo libro, ci si rende conto di essere in presenza di un testo articolato e interessante. Lei tiene insieme aspetti provenienti da più discipline che appaiono convergere in un unicum. Essere e Io sono tra i temi più investigati dalle scienze filosofiche e sociologiche, i suoi riferimenti, a cominciare dal titolo, sono fin troppo evidenti e riportano, in primo luogo, alla fenomenologia e all’esistenzialismo. Ci aiuti a capire la sua personale chiave di lettura.

– Occorre dire che questo è un libro che si differenzia da altri miei saggi per il modo critico in cui mi sono confrontato con i modelli teorici ai quali mi sono sempre ispirato, primo tra tutti la fenomenologia. Temo che questo renda il libro alquanto complesso. Ho suddiviso il mio lavoro in due parti, la prima in cui propongo quella che ritengo essere la teoria più innovativa. Si tratta di una tesi forte in cui in sostanza dico: il tema dell’identità è sempre stato affrontato in sociologia, a partire dagli inizi del Novecento, assumendo una parte della teoria fenomenologica.

Questo approccio si sostanzia nell’idea che quando si studia l’identità bisogna intenderla non come un “oggetto” ma come un fenomeno relazionale. Non si può parlare di identità umana, insomma, se non in relazione a una dialettica: l’identità è un processo, non è una “cosa”. Io posso parlare dell’identità umana se tengo insieme l’identificazione oggettiva e quella soggettiva. Non posso mai staccare l’una dall’altra; posso dire di essere quello che sono solo se gli altri mi riconoscono in quanto tale.

– Quindi lei si pone apertamente in contrasto con tutti quelli che ancora continuano a considerare l’identità come essenza?

– Direi di sì, decisamente! Sin dagli inizi del Novecento, come dicevo, grazie alla fenomenologia, ogni concezione essenzialista può ritenersi definitivamente superata. Almeno dal punto di vista sociologico, chi intende riferirsi all’identità come a un’essenza non fa sociologia, ma qualcos’altro. Un punto di riferimento fermo in tal senso lo ha posto G. H. Mead con la sua concezione interazionista. Tuttavia – ed è quello che con molta difficoltà ho provato a sostenere in questo mio lavoro – bisogna però anche aggiungere che questo punto fermo è stato talvolta ritenuto talmente solido che, almeno dal secondo dopoguerra in poi, non è stato più messo criticamente in discussione. Una tale forma di stabilizzazione ha pertanto fatto dimenticare che, dallo stesso tronco fenomenologico da cui era nato l’interazionismo simbolico, era intanto maturato anche un altro ramo, quello dell’esistenzialismo, il quale aveva anch’esso molto da dire sul tema dell’identità: è vero che il Sé è un fenomeno relazionale, insomma, ma questo non esaurisce del tutto la questione.

Se è vero che l’identità è un “processo” e non una “cosa”, è anche vero che essa è sempre proiettata nel tempo. Essa può essere considerata come un dato stabile e oggettivo, dicono gli esistenzialisti, solo se ci si dimentica che l’uomo, a differenza di tutti gli altri animali, possiede una coscienza del mutamento, del futuro e – soprattutto – della morte.

– A prima vista, questi ultimi, sembrerebbero argomenti appartenenti ad ambiti non proprio sociologici…

– Questo è quello che hanno sostenuto molti di coloro che si sono occupati di questi temi, per pura comodità o per banali interessi disciplinari, nell’ambito della sociologia accademica. In pratica si è ritenuto che, quando ci si occupa di questioni di tipo esistenzialista – pur riconoscendo la grandezza di intellettuali del calibro di Camus o Sartre – si tratta di roba che ha a che vedere con la metafisica, con la speculazione filosofica, e non con le scienze sociali. Come dire: “noi facciamo i sociologi, a noi interessano i dati oggettivi”. Tutti i temi relativi alla coscienza, ad esempio, sono sempre stati tenuti a distanza nell’ambito della ricerca sociale, per timore di non poterli affrontare con gli strumenti e le metodologie adeguate. In tal modo, va da sé che si rischia di indagare il comportamento umano in modo eccessivamente riduzionista. Valga in tal senso la famosa metafora di coloro che, avendo smarrito delle chiavi lungo una strada buia, si affannano a cercarla solo dove c’è un piccolo lampione, perché è solo in prossimità di quella luce artificiale che potrebbero eventualmente vedere e trovare le loro chiavi. Ecco, io ritengo che compito della ricerca sia invece anche quello di far luce negli anfratti più bui del nostro sentiero esistenziale.

Fortunatamente è accaduto che, nel corso degli ultimi trent’anni, altre discipline sono venute in soccorso alle scienze sociali. Le neuroscienze, ad esempio, ci stanno mostrando che la coscienza si può studiare con metodi scientifici. Anche in questo caso gli studiosi si sono però divisi. Da una parte ci sono ancora coloro che cercano all’interno del cranio la materia in cui si potrebbe annidare la coscienza, un po’ come voleva fare Cartesio; fortunatamente ci sono però anche coloro che pongono la questione in termini fenomenologici; coloro che – come sostenevo poc’anzi – condividono con la sociologia (almeno come la intendo io) l’orientamento a studiare non degli “oggetti” ma dei “processi”.

Sostanzialmente questi ultimi ci dicono: badate che il cervello non è quella materia che sta nella scatola cranica, ma è una relazione; essa esiste solo come parte di un processo in cui il corpo (che contiene la materia grigia) è in relazione con altri corpi: il cervello umano si è evoluto per risolvere i problemi di carattere esistenziale. Nella struttura cerebrale ci sono dei modelli formali, narrativi, che servono a rispondere organicamente. Si attivano reti neurali che interagiscono con l’ambiente, con la cultura, con le narrazioni. Essi sono estremamente plastici, si formano o si modificano in base al modo in cui ci relazioniamo agli altri, non solo in termini fisici ma anche attraverso le rappresentazioni, il linguaggio, le narrazioni, il pensiero.

– In che senso?

– Questo è un passaggio un po’ delicato. L’oggetto del pensiero diventano le narrazioni. Significa che, sia dal punto di vista della sociologia dell’identità, sia dal punto di vista delle neuroscienze, si converge sul fatto che l’uomo, quando agisce, è dotato di schemi narrativi che, in termini neuroscientifici, potremmo definire frames neurali. C’è come un punto di unione tra l’organico e il pensiero che è quella cosa che storicamente abbiamo chiamato anima, spirito, coscienza, e che i neuroscienziati riescono oggi a ricondurre in termini molto simili a quelli che nelle scienze sociali definiamo “narrazioni”. Insomma appare estremamente stimolante il fatto che oggi le neuroscienze ci dicano che la coscienza sia in ultima istanza definibile come un modello narrativo.

– Ed è per questo lei ha dedicato una parte del suo libro a Wilhelm Schapp, erede della tradizione fenomenologica di Husserl ?

– Sì, negli anni ’50 è uscito in Germania questo libro (oggi finalmente tradotto per la prima volta in Italia con il titolo Reti di storie) nel quale il pensiero fenomenologico di Husserl è stato riformulato criticamente in maniera molto originale. Per Schapp, Husserl non aveva capito che l’Eidos non è qualcosa di metafisico ma sono le storie, le narrazioni. Questa è una di quelle teorie che tiene molto bene insieme la visione sociologica dell’uomo con quella vicina alla sensibilità delle neuroscienze e delle nuove scienze cognitive.

La questione epistemologicamente determinante è quella di comprendere che tutta la nostra conoscenza è invischiata in quella degli altri, e che la società in cui viviamo modella le nostre credenze e i nostri atteggiamenti. I nostri processi di pensiero, il nostro linguaggio e le nostre emozioni sono stati tutti progettati per innescare ragionamenti causali che aiutino ad agire in modi ragionevoli.

La possibilità di condividere competenze e conoscenze è uno dei grandi vantaggi del vivere in comunità; nel linguaggio della scienza cognitiva – così come in quello di Schapp e della sociologia fenomenologico-narrativa – noi umani condividiamo intenzionalità, condividiamo storie. I nostri crani possono delimitare l’estensione del nostro cervello, ma non delimitano i confini della nostra conoscenza. La mente si estende al di là del cervello comprendendo il corpo, l’ambiente e le atre persone che non sono noi; di conseguenza lo studio della coscienza non potrà mai essere ridotta allo studio del cervello (inteso come materia grigia). L’idea di una mente individuale, di un’autocoscienza unica e indipendente da quella di tutti gli altri, è assolutamente sopravvalutata. Così come l’idea dell’intelligenza individuale: il modo migliore per imparare è pensare insieme agli altri. Come dire: “Quello che succede tra le nostre orecchie è straordinario, ma dipende strettamente da ciò che accade altrove”. Siamo sempre irretiti in storie di storie.

– Ci ha descritto la prima parte del suo libro, ci parli ora della seconda.

– Qui riparto dalla considerazione che noi sociologi abbiamo elaborato teorie che sono ancora ferme a un’immagine dell’uomo determinato dalla società in termini puramente strutturali. Se consideriamo Durkheim, Weber, Marx, Simmel o lo stesso Freud, possiamo considerarli tutti come degli tutti strutturalisti. La classe sociale, la coscienza collettiva, l’idealtipo weberiano o il super Io, sono sempre delle strutture esterne che in ultima analisi ci determinano. Si tratta di concezioni che risentono più o meno profondamente dell’eredità cartesiana dell’uomo dualista. Non dobbiamo dimenticare che, nella nostra tradizione occidentale, un certo Spinoza sosteneva che spirito e materia fossero invece inscindibili: proprio quello che poi hanno affermato la fenomenologia e l’esistenzialismo nel Novecento. Lo stesso che peraltro sostengono oggi le nuove scienze cognitive. Dobbiamo entrare nell’ottica che, fermo restando che io faccio il sociologo, e credo in ultima istanza in una sorta di determinismo sociale, l’immagine dell’uomo è cambiata. L’uomo oggi non è più un pezzo di carne agito da uno spirito, da una classe sociale o da una coscienza collettiva, ma è un elemento di una relazione in cui il corpo, e soprattutto il cervello, hanno una funzione significativa. Non è un puro oggetto, ma una fase di una complessa dinamica, di un processo, e bisogna riconoscere, senza per questo diventare deterministi neuronali, che l’uomo ha delle predisposizioni connesse all’evoluzione del suo cervello che è in continua interazione. I neuroscienziati lo definiscono “cervello incarnato”.

– Dopo la filosofia lei prende in prestito teorie che vengono dal mondo delle neuroscienze…

– Chiariamoci, non bisogna avere paura d’integrare nel nostro sapere, in quando sociologi, insegnamenti che vengono dalla biologia, dalla genetica, dalle neuroscienze, altrimenti si finisce per semplificare. Una sociologia che faccia riferimento solo alle sue tradizionali categorie, rischia di rendere le sue spiegazioni del comportamento umano troppo riduzioniste.

– Ma affidarsi troppo alle vele della neuroscienza non rischia di far dipendere da questi gli avanzamenti della teoria sociologia?

– No, noi abbiamo già avuto un’esperienza di questo genere negli anni ’70: la sociobiologia. In quel caso si trattava di un vero e proprio determinismo biologico. Si sosteneva che la sociologia non serve perché dipende dalla biologia. Oggi viene fuori il contrario, cioè un tentativo di mettere insieme dialetticamente le cose. I sociologi oggi appaiono in difficoltà perché attualmente scarseggiano teorie che tengano insieme la complessità dei fenomeni relazionali. La sociologia, quando è nata, è nata con l’idea che la società non è una cosa semplice ma complessa. Il metodo in vigore era quello che preso in prestito dalla tradizione positivista, il metodo della fisica meccanica. Ma anche la fisica, oggi, non è più quella di una volta; anch’essa è cambiata. La fisica quantistica (non è un caso che le basi teoriche della fisica siano state rivoluzionate nello stesso periodo storico in cui si affermava il metodo fenomenologico) ha reso superata quella meccanica. E se in fisica i metodi sono cambiati, noi sociologi saremmo un po’ ingenui a mantenere come metodo quello che deriva sostanzialmente da questa. Ma sarebbe un discorso troppo complesso per pensare di poterlo esaurire in una breve intervista…

– Professore, non che io ce l’abbia con le neuroscienze, ma si deve pur riconoscere che stanno diventando una moda.

– Se uno ha un approccio sociologico rigoroso, la prima cosa che occorre fare è stare attento a quelle che io definisco le neuromanie. Tuttavia, anche il timore di queste ultime potrebbe far correre il rischio (altrettanto diffuso, oggi) opposto della neurofobia. È vero che oggi la neuromania ha presa facile e che molti si sono riscoperti improvvisamente esperti nel campo. Ma bisogna anche fare attenzione a non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.

Quando io dico che c’è una nuova immagine dell’uomo voglio dire che bisogna stare attenti e ricordarsi che anche nella tradizione sociologica c’è stato chi ha prestato molta attenzione all’uomo in carne e ossa. Marx, in polemica con Hegel, sosteneva di voler rimettere l’uomo con i piedi per terra. Ora, quando parlo di neuroscienze, i miei riferimenti vanno principalmente ad autori quali Antonio Damasio, Eric Kandel o il nostro Vittorio Gallese che – seppure in termini e con impostazioni diverse – convergono nel voler ricollocare le questioni relative alla mente, al pensiero e alla coscienza in un cervello inestricabilmente inserito in un corpo, a sua volta inestricabilmente irretito in un ambiente relazionale. Quella che casomai temo, non è la deriva della neuromania, ma quella della tecnofilia. Io non ho paura quando mi dicono che bisogna studiare l’uomo a partire dal corpo, ma temo chi mi dice che occorre studiare l’uomo come se fosse una macchina.

– Quello che nel libro lei indica come l’uomo genoma…

– Certo, io credo che uno dei grandi compiti delle scienze sociali oggi sia quello di difenderci da questo tipo di manie riduzioniste. Ho paura che il tanto parlare male dell’uomo, del corpo, degli istinti, delle passioni, porti a un eccesso di razionalizzazione, di semplificazione: una divinizzazione delle macchine. Accade come nel calcio: siccome io non mi fido dell’arbitro, mi affido a una macchina, la VAR, che rischia di essere un sostituto non solo funzionale dell’uomo, ma soprattutto ideologico. Da questo punto di vista, temo l’immagine di un paradiso fatto di macchine, in cui tutto è perfetto: un incubo tremendo! Immaginare un calcio gestito dalle macchine è come immaginare lo sport e ogni possibile attività umana ridotta alla playstation. Al fondo di questo mio tentativo teorico, che peraltro è in itinere, permangono una fede e una fiducia enormi nell’essere umano.

È sbagliando, e imparando dai propri errori, che l’uomo ha sempre migliorato la società. È così che la nostra specie si è evoluta. Lungi pertanto da me l’idea del cervello inteso come un software. Il cervello è solo uno dei pezzi di un essere incarnato in una società: la triade cervello, corpo e società resta un tutto inseparabile.

– Il rischio, dunque, è sempre quello dell’alienazione, il trasferire caratteristiche umane ad altro?

– Rischio di ripetermi eccessivamente, ma insisto sul principio che quando si parla di uomo non si deve parlare di cose, ma occorre parlare di processi, di relazioni. Se tu consideri il cervello senza parlare del corpo, non stai parlando dell’essere umano ma di un’altra cosa. Come parlare della società senza tener conto del cervello. La società influenza il corpo che a sua volta influenza il cervello. Le cose sono separate solo per motivi linguistici, ma sono sempre in relazione tra loro. Questo è peraltro l’insegnamento fenomenologico dell’esistenzialismo.

– Prima abbiamo accennato all’opera di Schapp, il quale sostiene che siamo irretiti in storie. Come si pone il ruolo del linguaggio?

– Schapp dice appunto che anche il linguaggio, come tutte le cose, tutti gli oggetti, vada considerato come una storia. Il linguaggio è anch’esso una cosa-per; se esiste il linguaggio è perché è finalizzato a qualcosa. Se si assume questo tipo di posizione, essenzialmente dialettica, ne consegue che anche il linguaggio vada studiato come una storia, cioè in relazione al linguaggio con cui interagisce, cioè alla rete narrativa di cui fa parte. Questo è un presupposto metodologico che risolve tutti i dubbi sul ruolo del linguaggio.

– Schapp richiama quindi i temi dell’esistenzialismo, siamo dei progetti.

– Io ritengo che l’esistenzialismo abbia, nel suo arco, tutta una serie di frecce che non sono state esplorate dalla sociologia. A mio avviso è giunto il momento di provare a recuperarle.

– Come si inserisce, in questo discorso, quello che lei fa, peraltro molto interessante, sul sistema mimetico?

– Il sistema mimetico è, nella mia impostazione, uno strumento di analisi sociologica. Per studiare il comportamento umano, è necessario affiancare all’analisi del discorso razionale e paradigmatico (il linguaggio scientifico in senso tradizionale), quello derivante dall’arte e dalla letteratura. Bisogna studiare non solo ciò che si verifica, ma ciò che si sarebbe potuto verificare “se”. La sociologia non può privarsi del contributo del linguaggio creativo, dell’arte della finzione; quello che bisogna studiare non è solo la verità ma anche e soprattutto la verosimiglianza. L’uomo è un animale che mente, un animale che finge. Le società umane sono tutte fondate su un sistema mimetico. Mentire protegge tutti noi; fa andare avanti le cose importanti. Una società senza menzogne – il sogno nel cassetto di tutte le derive totalitariste e autoritarie che abbiamo finora fortunatamente sconfitto in Occidente – sarebbe impossibile; al pari di un mondo in cui mentire non venisse pubblicamente disapprovato.

La più grande di tutte le menzogne di cui abbiamo un vitale bisogno (esistenziale) è quella dell’immortalità. Diversi sociologi, non ultimo il celeberrimo Bauman, sostengono che per poter capire le istituzioni umane è necessario comprendere come esse riescano istituzionalmente a convincere i suoi membri di essere immortali. Il che non avviene studiando istituzioni come ospedali o cimiteri ma, ad esempio, la famiglia. Questa andrebbe vista, in tale ottica, come un’istituzione i cui membri sono convinti di essere immortali, nel senso che la struttura familiare fa pensare ai propri membri di essere parte integrante di una struttura pressoché eterna composta da genitori, figli, nipoti, proprietà, eredità, etc. tutti motivi per convincerci di essere immortali. La mimesis qui va intesa nel suo doppio significato: da una parte quello del vivere come se la morte non esistesse; dall’altro, quello di far parte di una società che nasconde, mimetizza, la morte. Il sistema mimetico funziona, più o meno bene, a seconda del fatto che riesca a ripararci dai potenziali squarci che, su questo tema, potrebbero aprirsi sotto i nostri piedi, solidamente poggiati sulle certezze delle nostre convenzioni quotidiane.

– La sensazione che si ha nella lettura del suo libro è quella di una tensione verso la forzatura di un paradigma che attualmente risulta insufficiente.

– I riferimenti per tale passaggio paradigmatico li intravedo innanzitutto in questo approccio sociologico: la società e l’uomo sono un tutt’uno e sono complessi. Ogni chiusura al contributo di altri saperi non può risultare che dannoso per la nostra disciplina. Il paradigma che io perseguo è strettamente connesso al passaggio da una visione dell’immagine dell’uomo strutturale, cioè dell’essere umano considerato come l’effetto di una causa (la causa sarebbe la struttura sociale), a un approccio relazionale, che rimetta al centro l’importanza dell’essere umano in quanto organismo vivente, con un corpo in continua interazione dotato – ovviamente – di un cervello: il paradigma, insomma, dell’uomo neuronale. L’uomo è determinato dal cervello, ma non dal cervello inteso in senso puramente biologico, bensì sociale. Società, corpo e materia cerebrale sono indistinguibili: l’uomo è un animale relazionale.

 

 

Gianfranco Pecchinenda

L’Essere e l’Io

Fenomenologia, esistenzialismo e scienze sociali

Meltemi, 2018

 

 

 

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