di Marinella Ciamarra
Le pagine conclusive del romanzo “La Coscienza di Zeno” sembrano quasi costituire una parte a sé. In esse Zeno appare trasformato: non è più l’antieroe inadatto alla vita, che sente su di sé tutto il peso della sua inettitudine e la dissimiglianza con quel mondo borghese a cui pure aspira di far parte. È un uomo nuovo, afferma di essere guarito dalla sua malattia e possedere finalmente una salute perfetta, acquisita mediante non la psicanalisi, che egli non ha mai inteso come uno strumento volto alla guarigione, ma grazie al successo negli affari.
Resta comunque l’inattendibilità di Zeno per la quale non si riesce mai a cogliere quel confine preciso tra verità e bugia, quell’ambiguità che conferisce al romanzo intero una fisionomia totalmente aperta, per cui ogni gesto e ogni affermazione di Zeno rivelano un groviglio complesso di motivazioni ambigue, diverse, se non opposte, rispetto a quanto dichiarato.
In lui si fondono cecità e chiaroveggenza, menzogna e acutezza critica, in modo che non è mai possibile stabilire confini.
Egli è un personaggio poliedrico, problematico, tormentato, campione di falsa coscienza borghese da un lato e strumento di straniamento e conoscenza dall’altro.
Nelle ultime pagine, Zeno afferma dunque di essere guarito, favorito dalla nuovo contesto conseguenza della I guerra mondiale: egli ha infatti cominciato a comprare merci di ogni tipo, aspettando il momento più adatto per rivenderle ad acquirenti bisognosi di tutto.
In un’ottica decisamente machiavelliana, ha saputo adeguare il proprio comportamento alla situazione, con le modalità proprie degli speculatori, e ha così ottenuto non la “ruina”, ma il successo. E, in linea con Machiavelli, emerge una visione fortemente pessimistica del personaggio e, con esso, dell’autore.
Riflettendo più in generale sulla vita e sull’uomo, Zeno non riesce a vedere, intorno a sé, altro che segnali di morte e distruzione.
Egli si dice infatti convinto che tutta la vita attuale “è inquinata alle radici”.
La malattia di Zeno, in precedenza velata da costante autoironia, viene ora ad essere identificata con la vita stessa, per cui è tutta l’umanità che deve essere considerata malata.
Ritorna il tema costante e centrale dell’intero romanzo: il rapporto tra salute e malattia.
La diversità di Zeno, la sua “malattia”, per tutto il romanzo funge da strumento straniante nei confronti dei cosiddetti “sani” e “normali” (il padre, il suocero, la moglie, Ada, Guido e tutti gli altri borghesi che fanno da sfondo alla narrazione).
La “malattia” che impedisce a Zeno di integrarsi pienamente nel mondo borghese di cui disperatamente lui aspira a far parte, intriso com’è di quel bisogno di normalità che lo vorrebbe un buon marito, padre di famiglia ed abile uomo d’affari, porta pian piano alla luce l’inconsistenza della “sanità” degli altri, come si evince nettamente nel rapporto che Zeno ha con la moglie Augusta.
Lei, che alla fine rappresenta un perfetto sostituto della figura materna e di quella dolcezza di cui lui necessita, appare, nel suo limitato e saldo sistema di certezze, un perfetto campione di “normalità” borghese, chiusa nella ristretta cerchia delle sue abitudini, nel suo piccolo mondo familiare caldo e rassicurante.
Zeno afferma d’amarla e di volerle somigliare, di ammirare le sue certezze e la sua sicurezza, ma il ritratto perfido e corrosivo che ne fa, rivela diffidenza, inconscio disprezzo e ostilità.
Zeno è il suo esatto opposto, è mutevole, incostante, inafferabile.
È un essere fluido in costante divenire.
È preda di quel magma pirandelliano e di quella concezione vitalistica affine a varie filosofie contemporanee, in particolare Henri Bresson, per cui tutta la realtà è vita, è perpetuo movimento vitale, inteso come incessante trasformazione da uno stato all’altro “flusso continuo, incandescente, indistinto”, come lo scorrere di un magma vulcanico, appunto.
“[…] Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto.
Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.”
E Pirandello, già quasi vent’anni prima della Coscienza, teorizzava nel suo saggio l’Umorismo del 1908 quanto esseri come Zeno, immutabili nella loro diversità, non riescono a cristalizzarsi in delle forme, a morire, ad integrarsi nell’ovattato mondo borghese privo di turbamenti e movimenti, incapaci di evolversi, ma saranno sempre fuori da quel sistema, incompiuti, irrimediabilmente inadatti al mondo ed in continuo divenire, capaci di autoanalizzarsi, di modificarsi, di crescere, di cambiare, di migliorare.
Certo votati all’alta infelicità, forse, perché non c’è mai consapevolezza del sé senza dolore, non c’è mai scoperta senza sofferenza, non c’è mai orgoglio delle proprie fragilità senza solitudine.
Non si guarda mai nell’abisso del sé senza il terrore di cadere nel vuoto.
Ma tutto questo ha sempre un controcanto: che è l’alto sentire.
E l’autenticità del vivere.
Zeno scopre che sono gli altri ad essere i veri malati. Che la moglie, il padre, il cognato, i borghesi che lo circondano e che sono ingabbiati in quella salute “atroce”, sono in realtà coloro che hanno bisogno di cure:
“[..] poi, invece, seppi ch’essa [Augusta, la moglie, ndr], neppure sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se stessa e neppur si guarda allo specchio.
Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi…”
Proprio in quanto essere duttile, la visione di Zeno fa risaltare tutto il “veleno” insito nella condizione cristallizzata dei buoni borghesi “normali” e soddisfatti di sé.
Per questo egli diviene, nel romanzo, uno strumento acutissimo di critica delle limitate certezze del mondo borghese, incapace di adattarsi alla mobilità del reale.
Nelle ultime pagine del romanzo, Zeno, portavoce della visione pessimistica e quasi nichilista di Svevo, fa un passo ulteriore: arriva a considerare tutta l’umanità come “malata”, poiché la malattia è un tratto caratterizzante della civiltà del falso progresso.
L’uomo, con l’espansione delle città, ha occupato gli spazi che erano della natura, degli animali, delle piante, e ha inquinato l’aria con i suoi fumi.
Riprendendo le tesi dell’economista inglese Thomas R. Malthus, Zeno prospetta un futuro nel quale l’umanità dovrà patire una sempre maggiore mancanza di mezzi di sussistenza, in quanto gli uomini si moltiplicheranno in progressione geometrica, mentre le risorse alimentari seguono una progressione aritmetica, per cui la crescita del genere umano arriverà ad occupare tutto lo spazio disponibile.
Al contrario degli animali che, come sostiene Darwin, si evolvono, l’uomo, non conoscendo evoluzione verso uno stato migliore, e non facendo evolvere il proprio organismo, diventa sempre più debole.
Mentre secondo la legge della selezione naturale solo i più forti trasmettono i loro caratteri ai discendenti, l’uomo, con le macchine e con gli “ordigni”, ha cancellato tale legge, consentendo la sopravvivenza anche ai più deboli.
La conseguenza, per Zeno, è l’indebolirsi generale dell’umanità e il proliferare delle malattie:
“[…] Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che pisco-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati…”
L’uomo è, dunque, sempre più furbo, come dimostra la sua capacità di inventare nuovi ordigni, ma in questo modo cresce la sua debolezza, perché ne diventa vittima.
Appare quasi immediato il richiamo alla seconda fase dell’evoluzione poetica di Salvatore Quasimodo, quando si distacca dell’Ermetismo e dà vita, nel secondo dopoguerra, a raccolte poetiche come Giorno dopo giorno, del 1947.
Nella lirica “Uomo del mio tempo” il tema centrale è la guerra, presente dalla notte dei tempi nella vita dell’uomo che rimane un primitivo perché continua a provocarla e combattere.
Quello che cambia sono solo le tecniche di guerra, le armi, gli ordigni.
La scienza compie passi da giganti ma l’uomo rimane sempre lo stesso, quello della pietra, che utilizza la sua conoscenza esclusivamente per perfezionare le armi e per portare al mondo morte e distruzione.
Come ai tempi di Caino e Abele, l’uomo non ha smesso di tradire l’uomo, di mentire, di ingannare. Ha solo raffinato le sue tecniche e i suoi strumenti.
La civiltà non ha fatto altro che dare la possibilità di fare guerre sempre distruttive e l’uomo non ha imparato nulla dagli errori del passato.
La crudeltà umana rimane nei secoli uguale a se stessa: l’uomo era e rimane un primitivo, istintivo, selvaggio e spietato come quando per uccidere utilizzava utensili approssimativi.
E anche se Quasimodo, nei versi finali, apre un spiraglio di speranza per le nuove generazioni, invitandole a prendere le distanze dalle colpe dei padri, il tono pessimistico e profetico è lo stesso di Svevo: l’uomo è un essere crudele, non c’è amore né solidarietà nel nostro tempo e la crudeltà umana rimane nei secoli uguale a se stessa.
Certamente queste visioni apocalittiche sono influenzate dallo sviluppo della civiltà delle macchine che, proprio nei primi decenni del Novecento, tocca il culmine, generando diffidenza e paura nell’uomo, che si sente minacciato ed oppresso e i versi di Quasimodo nascono dallo sconvolgimento interiore del poeta che ha vissuto gli orrori della Seconda guerra mondiale.
Il suo dolore è impotente, come quello di tutti noi innanzi alle grandi tragedie della storia, di fronte alle tragedie attuali e alle guerre che continuano stupidamente a proliferare in tutte le parti del mondo, nel tentativo di saziare l’avidità umana, di sfamare quella lupa di dantesca memoria che ha natura sì malvagia e ria,che mai non empie la bramosa voglia,e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Di fronte all’orrore della guerra, la poesia non può che offrire il silenzio, divenire muta, priva di ogni valore e significato, come nell’immagine icastica delle “cetre” che, appese “Alle fronde dei salici”, l’albero che rappresenta il pianto ed il dolore, oscillano lievi al triste vento.
Così come per Quasimodo, anche la conclusione de “La Coscienza di Zeno” assume un’inquietante valenza profetica e presenta forti tratti di attualità, considerando quello che negli anni successivi alla stesura del romanzo sarebbe stato il potenziale distruttivo degli armamenti militari del XX secolo e l’incubo delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, oppure, in un futuro a noi più vicino, l’incubo delle centrali nucleari di Cernobyl e Fukushima o ancora, oggi, la minaccia della infinite centrali nucleari sparse per il mondo.
Ma le ultimissime righe della profezia di Zeno, non possono risuonare con un so che di inquietantemente attuale, con il riferimento alla pandemia che ha segnato il mondo in questi anni e che è stata un segnale, seppur inascoltato, di come l’uomo presto o tardi arriverà ad autodistruggersi, e di come la Natura si vendicherà di tutte le angherie subìte, di come sia stata calpestata, violentata, violata in ogni singolo essere di cui è composta, in ogni singolo animale privo di qualsivoglia rispetto che ogni essere vivente, nessun escluso, merita.
Allevamenti intensivi, gabbie, shock elettrici, camion della morte, catene, sfruttamento, multinazionali, nubi e rifiuti tossici, pandemie, piogge acide, disserbanti, disastri idrogeologici, cementificazione, inquinamento, disboscamenti, desertificazione, non sono che simboli grondanti di sangue di un’umanità violenta, machista, barbara, che ha ancora tanto, tanto da imparare da quella Natura da cui proviene.
Da quella Pachamama di antica memoria, fonte ancestrale e primaria di tutta l’energia, madre nutriente che dona la Vita con l’acqua, il calore con il Sole, dai seni floridi come montagne, dal grembo fertile come un campo dorato ma che può mostrare il suo lato crudele e trasformarsi in “matrigna” per ricordare ai suoi figli che devono sempre onorarla.
Come il genio di Leopardi, d’altro canto, aveva già polemizzato a proposito del suo secol superbo e sciocco, e con amara ironia, rivolta a chi, da posizioni ottimistiche, esalta l’uomo come creatura privilegiata, destinata ad futuro di straordinaria felicità, aveva sottolineato come la natura, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile può distruggere un luogo in parte o può, con scosse più forti, annientare quel luogo e l’umanità del tutto:
[…] A queste piagge/ venga colui che d’esaltar con lode/ il nostro stato ha in uso, e vegga quanto/
è il gener nostro in cura/ all’amante natura. E la possanza/ qui con giusta misura/ anco estimar potrà dell’uman seme,/ cui la dura nutrice, ov’ei men teme,/ con lieve moto in un momento annulla/ in parte, e può con moti/ poco men lievi ancor subitamente/ annichilare in tutto./ Dipinte in queste rive/ son dell’umana gente/ le magnifiche sorti e progressive./
E se per Leopardi è la Natura che potrebbe portare all’estinzione del genere umano, per Svevo è l’uomo stesso che sarà vittima e causa della sua stessa scomparsa.
Solo così la terra, tornata allo stato originario di nebulosa, errerà nello spazio, finalmente libera da malattie:
“[..] ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Se la vita umana è malattia, solo la scomparsa dell’uomo potrà eliminare la malattia della terra.