EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

L’inquietudine della coscienza. Contributi per una fenomenologia della mente

di Gianfranco Pecchinenda

Riflessioni a partire dal volume di Shaun Gallagher – Dan Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive (I ediz. originale, The Phenomenological Mind, Routledge 2008; III ediz. 2021. I ediz. Italiana Raffaello Cortina 2009; Nuova edizione 2022).

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Secondo una suggestiva quanto verosimile ricostruzione narrativa, il giorno in cui Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir vennero per la prima volta a conoscenza di una nuova filosofia proveniente dalla Germania, il cui nome sinuoso era fenomenologia, la loro vita ne fu letteralmente stravolta.

Sartre, in particolare, nonostante i nazisti fossero appena saliti al potere (correva l’anno 1933), decise di recarsi in Germania alla ricerca di tutto il materiale disponibile relativo a quella nuova corrente di pensiero. Quando rientrò in Francia, le teorie fenomenologiche apprese diventeranno, come è noto, il nucleo fondamentale del nascente esistenzialismo moderno, di cui egli stesso sarà infine considerato uno dei padri fondatori.

Ma che cos’è la fenomenologia?

Lasciando da parte le complesse questioni storiografiche che da oltre un secolo vedono impegnati, in un incessante dibattito teorico, studiosi appartenenti a molteplici scuole di pensiero, uno dei modi più interessanti per provare a rispondere a tale domanda è quella di ritornare alle idee fondamentali sottese al programma del suo fondatore, Edmund Husserl.

Una critica della ragione logica e pratica

In una pagina manoscritta del 1906, Husserl scrive: “Al primo posto voglio menzionare il compito generale che devo assolvere per me stesso, se devo potermi chiamare filosofo. Intendo una critica della ragione. Una critica della ragione logica e pratica, della ragione valutante in genere”.

Questo richiamo ai problemi kantiani è considerato da Husserl in un modo assolutamente rivoluzionario per la storia del pensiero occidentale: egli dichiara, in sostanza, di non voler più accettare scienze-guida che offrano criteri di successo e di senso che precedano l’intenzionalità del soggetto che conosce.

Ci troviamo, dunque, di fronte a un totale capovolgimento dell’atteggiamento conoscitivo tradizionale e all’emergere della proposta di una vera e propria attitudine fenomenologica. Laddove i filosofi che lo avevano preceduto – da Platone allo stesso Kant – partivano da assiomi astratti o da teorie, Husserl intendeva muovere invece direttamente dalla vita come essa viene esperita, momento dopo momento. Per procedere in tal modo, il primo passo da compiere era quello di “porre fra parentesi” ogni “conoscenza naturale” (o data per scontata) del mondo e promuovere una riduzione di ogni oggetto o entità da conoscere a “fenomeno”.

Il filo del ragionamento è il seguente: dato che ogni filosofo che si ponga questioni relative alla “realtà” delle cose si trova già egli stesso catapultato in un mondo pieno di cose, ovvero di un mondo che lo precede, perché, allora, non concentrarsi sulla relazione, ovvero sull’incontro con le cose e ignorare domande di tipo ontologico sulla loro presunta “realtà” o veridicità?

In pratica ciò che la fenomenologia predica, già nella sua versione originaria, è un ritorno “alle cose stesse”, che metta “tra parentesi “ogni possibile interpretazione su di esse.

Avere un approccio fenomenologico significa dunque sforzarsi di considerare ciò che ci si presenta e descriverlo nel modo più accurato possibile.

Dati questi presupposti, appare evidente la difficoltà di poter sintetizzare la complessità e le profonde implicazioni, anche esistenziali, di un programma di questo genere. E difatti è davvero molto arduo trovare manuali, antologie o anche semplici tentativi di sintesi che riescano a rispondere in modo efficace alla domanda “che cos’è la fenomenologia”.

Tuttavia, alcuni autori – in questo caso mi riferisco appunto al lavoro di Shaun Gallagher e Dan Zahavi – sono riusciti nel difficile compito di restituirci una brillante e a mio avviso esaustiva ricapitolazione delle principali questioni affrontate da questa filosofia, concentrandosi in particolare su quella che essi ritengono essere (a mio parere giustamente) il fenomeno fondamentale al centro del programma fenomenologico: la mente cosciente.

Mente e coscienza

Concentrarsi, come fanno i due autori, sulla questione della mente cosciente, consente infatti di comprendere a fondo la centralità e, soprattutto, l’attualità di questo approccio nell’ambito della filosofia e delle scienze contemporanee. In particolare, essi evidenziano quanto sia difficile affrontare i temi legati alla coscienza in discipline al centro del dibattito e della ricerca scientifica contemporanee – quali le neuroscienze, le scienze cognitive, l’ingegneria delle macchine e dell’intelligenza artificiale, per non parlare delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione – senza un’adeguata conoscenza dell’approccio fenomenologico.

Prendiamo, ad esempio, una delle rivisitazioni del grande quesito di origini cartesiane, che ancora oggi possiamo considerare tra le più delicate per chi si occupi, al di là delle speculazioni puramente filosofiche, di ricerche scientifiche su intelligenza artificiale, etica della cultura digitale, neuroscienze: è il cervello a causare la mente cosciente, oppure questa dipende da entità non riducibili alla materia organica?

L’approccio fenomenologico ha il pregio di essere molto chiaro al riguardo: dovendo “partire dall’esperienza”, il suo primo compito è quello di sospendere questo genere di risposte. Si tratta della celebre epoché.

Il primato dell’esperienza: l’epoché

Ma cosa significa, esattamente, mettere in atto questa epoché? Rifacendoci ad un celebre esempio di Sarah Bakewell (tratto da Al caffè degli esistenzialisti, Fazi 2016), potremmo capirlo meglio indagando l’esperienza di un fenomeno specifico come può essere il “caffè”.

Cominciamo, dunque, chiedendoci: cos’è, in realtà, una tazza di caffè?

Potremmo definirla – risponde la Bakewell – “in base alla sua composizione chimico- farmacologica; dal punto di vista botanico, rispetto alla pianta del caffè, e aggiungere una sintesi di come i suoi chicchi vengano coltivati ed esportati, del processo di macinazione, di come l’acqua calda venga fatta filtrare attraverso la polvere di caffè e quindi versata in un recipiente modellato per essere presentato a un membro della specie umana che lo ingerisce per via orale.

Potremmo analizzare l’effetto della caffeina sul corpo o discutere del commercio internazionale del caffè. Potremmo riempire un’enciclopedia con questi fatti, senza però riuscire a chiarire che cosa sia questa particolare tazza di caffè che abbiamo davanti. Diversamente, se avessimo seguito un’altra strada e rievocato un insieme di associazioni squisitamente personali e sentimentali – come fa Proust quando inzuppa la sua madeleine nel tè e da lì parte a comporre sette volumi –, nemmeno questo ci avrebbe consentito di cogliere questa tazza di caffè (collocata qui e ora di fronte a me) come un fenomeno immediatamente dato.

Al contrario, questa tazza di caffè è un aroma ricco, a un tempo terroso e fragrante; è il pigro movimento di un riccio di vapore che sale dalla sua superficie.  Quando la portiamo alle labbra, è un liquido che ondeggia placidamente e un peso nella nostra mano contenuta in una tazza dal bordo spesso. È un tepore sempre più prossimo, dopodiché diventa un gusto scuro e intenso sulla nostra lingua, che inizia con una scossa lievemente austera per poi rilassarsi in un piacevole calore, che si diffonde dalla tazza lungo tutto il nostro corpo, recando con sé una promessa di lucidità e ristoro duraturi.

Questa promessa, le sensazioni già descritte, l’aroma, il colore e il gusto, fanno tutti parte del caffè in quanto fenomeno. Ed emergono tutti dal suo essere esperito.

Se li trattassimo come degli elementi puramente “soggettivi”, da dover rimuovere per poter essere “oggettivi” riguardo al nostro caffè, non rimarrebbe più nulla della nostra tazza di caffè in quanto fenomeno – ossia, come essa appare alla nostra esperienza, di noi che beviamo il caffè.

Questa tazza esperenziale di caffè è la sola di cui noi possiamo parlare con sicurezza, mentre tutto ciò che concerne la crescita dei chicchi e la composizione chimica sono voci riportate. Possono anche essere delle voci interessanti, ma per un fenomenologo sono del tutto irrilevanti”.

Come opportunamente sottolineano Gallagher e Zahavi, se partiamo dall’epoché – cioè da un’esperienza percettiva e da una sua accurata descrizione – possiamo essere in grado di cogliere la differenza tra percezione e, ad esempio, un frammento di immaginazione o ricordo. E possiamo inoltre comprendere in che modo tale percezione sia strutturata e giunga a fornirci un’esperienza del mondo dotata di significato, evitando così di dover valutare (negare o affermare) se e come i processi cerebrali contribuiscono causalmente alla percezione, per il semplice motivo che tali processi non manifestano sé stessi nell’esperienza del percipiente.

Prima persona intenzionale

Nella misura in cui il fenomenologo parte dall’esperienza, egli sarà costretto evidentemente a adottare una prospettiva in prima persona; il che significa che il fenomenologo sarà impegnato a comprendere la percezione nei termini del significato che essa avrà per il soggetto.

Tornando all’esempio appena riportato, la mia esperienza percettiva dell’aroma del caffè non mi dirà nulla sui processi che intanto staranno verificandosi nel mio cervello. In questo, pertanto, l’approccio fenomenologico sarà completamente diverso da quello di un qualunque scienziato della mente (un neuroscienziato tipico, ad esempio) che tenderà a adottare, per definizione, un approccio oggettivante in terza persona.

Dall’approccio fenomenologico emergerà, inoltre, un’ulteriore questione determinante: ogni esperienza percettiva avrà sempre, necessariamente, una certa struttura caratteristica di tutti gli atti coscienti, cioè una struttura intenzionale.

L’intenzionalità è una struttura costante della coscienza e ciò significa che tutta la coscienza è sempre coscienza di qualcosa o su qualcosa. In questo senso, la coscienza non è mai un processo isolato ma è sempre da considerarsi in termini relazionali; coinvolge cioè sempre il riferimento a un mondo, inteso in senso ampio come un ambiente fisico, sociale, culturale (il quale può a sua volta comprendere anche cose o persone “immaginarie”, come ad esempio il don Chisciotte).

L’analisi fenomenologica dell’intenzionalità è a sua volta un’esperienza di ricerca ricca di sorprese, perché non si tratta di una pura e semplice ricezione di informazioni, ma comprende piuttosto interpretazioni, che spesso dipendono dai contesti, dalla memoria di esperienze precedenti e, ovviamente, dal cervello e dalle sue caratteristiche genetiche, biologiche e fisiche più in generale. Questo senza sottovalutare il fatto che, a sua volta, il cervello è un organo dotato di una sua particolare predisposizione alla plasticità.

In estrema sintesi – scrivono gli autori – “la fenomenologia mira a conseguire una comprensione e una descrizione adeguate della struttura esperenziale della nostra vita mentale/corporea; essa non tenta di sviluppare una spiegazione naturalistica della coscienza, né cerca di svelare la sua origine biologica, la sua base neurale, la sua motivazione psicologica, o cose del genere”. Per gli scopi che gli autori si propongono, però, sottolineare l’importanza della descrizione fenomenologica è centrale per comprendere come essa sia rilevante per una scienza della percezione e del comportamento umano più in generale.

Questo tipo di analisi metodicamente controllata fornisce allo scienziato un modello della percezione con cui lavorare che risulta più adeguato rispetto a quel che accadrebbe se egli semplicemente iniziasse con intuizioni di senso comune.

Critica della coscienza digestiva

Forse è stato Sartre a rendere meglio di chiunque altro – anche grazie al suo straordinario talento per le metafore – l’importanza e l’originalità dell’approccio fenomenologico per lo studio della coscienza intenzionale. In un suo saggio del 1939 (Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità), riferendosi a quella che lui definiva il modello digestivo della coscienza su cui insistevano i filosofi dal passato, ovvero un modello fondato sull’erronea concezione secondo cui percepire qualcosa significa ricondurla all’interno di una nostra “sostanza”, scriveva: “La coscienza altro non è se non il di fuori di se stessa ed è questa fuga assoluta, questo rifiuto di essere sostanza, che la fanno coscienza (…). È questo il senso profondo della scoperta che Husserl esprime nella sua famosa frase: ogni coscienza è coscienza di qualcosa”.

È fondamentale, in tal senso, considerare quanto, oltre a trasformare il modo in cui pensiamo alla realtà, sia insita nella fenomenologia la necessità di provocare un cambiamento anche nel modo in cui pensiamo a noi stessi.

E il primo passo, per quanto riguarda la coscienza, è quello di interrogarsi non su che cosa essa è, ma su cosa essa fa.

La questione dell’intenzionalità della coscienza, ovvero del suo costante “tendere” verso qualcosa, resta pertanto una delle più significative e insuperate idee proposte dalla fenomenologia, fin dalle sue origini.

I nostri pensieri sono invariabilmente di (of) o su (about) qualcosa: nell’amore, qualcosa è amato; nell’odio, qualcosa è odiato; nel giudizio, qualcosa è affermato oppure negato. Anche quando immagino un oggetto che non c’è, la mia struttura mentale è ancora quella del dirigersi su (ofness) o riferirsi a (aboutness). Se sogno che un coniglio bianco mi superi correndo o controllando il suo orologio da taschino, il mio sogno è su un coniglio immaginario. Se fisso il soffitto cercando di dare un senso alla struttura della coscienza, il mio è un esame che riguarda la struttura della coscienza. a eccezione della fase di sonno profondo, la mia mente è sempre alle prese con questo “tendere verso”: ha, appunto, un’intenzionalità.

Provateci anche voi – propone Sarah Bakewell – “se vi mettete seduti per due minuti e cercate di non pensare a nulla, probabilmente otterrete un indizio sul perché l’intenzionalità sia così essenziale per l’esistenza umana. La mente è inquieta come uno scoiattolo a caccia di cibo nel parco, afferrando in successione lo schermo di un cellulare che si illumina, un segno su un muro distante, un acciottolio di tazze, una nuvola che assomiglia a una balena, il ricordo di qualcosa detto da un amico il giorno prima, una fitta al ginocchio, una scadenza urgente, una vaga previsione di bel tempo in arrivo, il ticchettio dell’orologio”.

E non è certamente un caso – sia detto per inciso – che la fenomenologia sia oggi il modello di pensiero maggiormente compatibile con i sistemi filosofici su cui si basano le secolari tecniche di meditazione orientali (su questo tema, uno degli studiosi più sensibili è certamente Michel Bitbol, di cui si può leggere, in italiano Cambiare stato di coscienza. Fenomenologia e meditazione, Mimesis 2022, traduzione parziale di M. Bitbol, La conscience a-t-elle une origine?, Flammarion 2014).

Fenomenologia, filosofia della mente e scienze empiriche

Prima di concludere, può essere interessante notare che questa fondamentale idea dell’intenzionalità della coscienza è stata mutuata dal maestro di Husserl, Franz Brentano. L’importanza di un tale riferimento non è solo di carattere storiografico, in quanto possiamo ritrovarlo alle origini stesse di uno dei fili conduttori seguiti dagli autori de La mente fenomenologica.

Ricordiamo, innanzitutto, che il lavoro di Shaun Gallagher e Dan Zahavi al quale mi sto riferendo, era stato pubblicato, nella sua versione originale, nel 2008 e già tradotto in Italia, da Raffaello Cortina, già nel 2009. Da allora, per oltre venticinque anni, sono state pubblicate altre due edizioni aggiornate, l’ultima delle quali (datata 2021) è oggi disponibile anche in versione italiana grazie all’ottima traduzione di Patrizia Pedrini.

Ed è ancora la stessa Pedrini, nella postfazione a quest’ultima edizione italiana, a sottolineare quanto siano importanti le comuni radici filosofiche dei due approcci teorici principali allo studio della mente (quello della filosofia analitica e quello, appunto, della fenomenologia), a dispetto della storica contrapposizione con cui, ancora oggi, si tende a caratterizzarli.

L’importanza del saggio della Pedrini risiede proprio nella sua capacità di ricostruire con esemplare chiarezza le tappe di questa presunta contrapposizione e, soprattutto, i motivi storici e teorici che, unitamente ai nuovi contributi provenienti dalle scienze cognitive, possono condurre ad una progressiva convergenza ed integrazione dei due approcci.

“La proposta di questo libro – scrive la Pedrini – è che la fenomenologia possa e debba svolgere un importante ruolo di monito metodologico contro l’oggettivismo ingenuo e il realismo metafisico della scienza. Per esempio, l’insistenza di Gallagher e Zahavi sull’imprescindibilità della prospettiva in prima persona, quando si tematizzano e si studiano gli stati mentali, punta esattamente in questa direzione: l’idea di fondo che guida la stesura di questo lavoro sembra essere quella secondo cui le strutture della soggettività, che la fenomenologia ha studiato in modo rigoroso, possono e devono servire allo scienziato per farsi un’idea adeguata dei fenomeni che indaga e di come testarli sperimentalmente.

Se il monito e l’invito rimangono centrali anche per questa nuova edizione, colpisce tuttavia una sorta di maturazione metodologica degli autori e, in definitiva, si può supporre, del dibattito stesso a cui il libro e la sua storia hanno dato luogo. Dicendosi infatti ancor più convinti che la filosofia fenomenologica possa affrontare tematiche che sono centrali nella filosofia della mente e nelle scienze cognitive contemporanee, ma anche che le analisi fenomenologiche possono allo stesso tempo beneficiare ed essere migliorate dal confronto con la scienza empirica e con la filosofia analitica, notiamo un’apertura dialettica che chiede di essere ponderata.”

Tutto questo grazie a quella che essi stessi definiscono una metodologia pluralistica aperta, orientata non tanto alla semplificazione o a spiegazioni riduzioniste, quanto all’adozione di prospettive multiple e interdisciplinari su un problema che non si può evitare di considerare tenacemente e irriducibilmente complesso.

Shaun Gallagher – Dan Zahavi,

La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive

ediz. Italiana Raffaello Cortina 2009; Nuova edizione 2022

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