EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

L’invenzione dell’illegal alien e le prospettive dell’accoglienza. Intervista a Michel Agier

di Alberto Basoalto

 

(ITA/FRA, versione originale in fondo)

 

Le cronache e gli esodi di questi ultimi anni impongono un’accurata riflessione sulle politiche e le pratiche di accoglienza dei paesi occidentali. Ma ancor di più sulla capacità di vedere, nell’altro, non un alien, assoluto e disumanizzato, ma la donna o l’uomo concreto che viene e bussa alla nostra porta. Michel Agier, antropologo e ricercatore francese, è autore del libro Lo straniero che viene, edito dalla Raffaello Cortina.

– Nell’introduzione del suo libro, lei cita il filosofo Jean-Luc Nancy a proposito del corpo straniero, per sostenere che occorre considerare l’accoglienza dello straniero come un fatto politico legato a una scelta. Qual è l’importanza di questa scelta?

-Il problema di chi vede arrivare uno straniero si poggia sulla domanda: occorre farne un ospite e come? È importante riconoscere che, in questo primo momento, due impulsi coabitano, quello dell’ospitalità e quello della ostilità. Il filosofo Jacques Derrida ha parlato, in proposito di “ospi-ostilità”. Questi due impulsi o sentimenti hanno in comune di designare una persona come straniero. Per questo motivo ho consacrato l’ultimo capitolo del libro ad una definizione molto relativa dello straniero, si può essere tutti stranieri a secondo del contesto, del luogo, del momento. Per tornare alla domanda di partenza, il gesto dell’ospitalità – aprire la porta, allargare le braccia, iniziare una conversazione – è una scelta tanto politica che antropologica: si propone una relazione piuttosto che una chiusura, si apre una frontiera.

– L’accoglienza, l’ospitalità, devono essere senza condizione o a quali condizioni?

– Mi sono rifatto alle dichiarazioni di Derrida della metà degli anni ’90, il filosofo vedeva dell’ospitalità una definizione assoluta, incondizionata e anche religiosa (“io non sono religioso ma ciò che dico è compatibile con il religioso”, diceva in sostanza). Dal suo punto di vista, l’ospitalità non è giustificabile dal punto di vista della vita reale, sociale. Essa non può che essere un valore assoluto, una “legge” incondizionata e superiore che, certamente, si scontra contro le leggi terrestri, cioè nazionali. È una sorta di aporia, non se ne esce. Senza mancare di rispetto a questo immenso filosofo, vorrei tentare di correggere questa definizione di ospitalità, rendendola meno assoluta, forse meno bella, ma ben ancorata nel sociale. È li che l’antropologia, le scienze sociali e umane, sono necessarie, solo così ci si rende conto che l’ospitalità è una forma sociale che è, o è stata, profondamente ancorata nella società. È questo aspetto che io ho colto, tanto nella ricerca etnografica nell’Europa attuale, studiando la mobilitazione di certi abitanti per una degna accoglienza degli stranieri in Francia, in Italia, Spagna, Germania, quanto nei territori più lontani, come in Africa occidentale, dove ho studiato, qualche anno fa, le pratiche e i codici di ospitalità in un particolare gruppo sociale, quello dei migranti e commercianti degli Hausa.

C’è anche una dimensione strategica nel mio approccio. Appoggiare l’ospitalità all’incondizionalità richiama una dimensione spirituale, sacra e infine religiosa, che non corrisponde più allo stato delle nostre società europee, allo stesso tempo secolarizzate e individualiste. Ho dunque pensato, col pretesto di questa critica a Derrida, di approfondire questo metodo cercando di definire quali sono “le condizioni dell’incondizionalità”. Sono arrivato, in particolare, alla messa in evidenza della necessità di un tessuto comunitario (collettivi, reti, associazioni create in questi ultimi anni per difendere ed accogliere i migranti) che ricrei una sfera di fiducia nella quale il gesto individuale, anche intimo, dell’ospitalità a domicilio di uno straniero sconosciuto, diventi possibile.

– Perché oggi ci sono problemi ad accogliere gli stranieri, i migranti, nella nostra Europa e, in generale, in Occidente?

– Io penso che ci sia una spiegazione politica ed una culturale, e questo non sono dello stesso ordine. Iniziamo da quella politica. Quando si parla di “accoglienza”, si fa allusione (e questo accade generalmente in Europa) alle politiche pubbliche relative agli stranieri in generale: i diritti, il diritto del lavoro, d’asilo, i meccanismi d’integrazione, e le relative istituzioni. Questi meccanismi di accoglienza statali, oggi dipendendo molto dagli orientamenti politici e ideologici degli stati-nazione. La maggior parte di questi, tende a stigmatizzare gli stranieri, a farne un problema, principalmente sul piano economico e culturale. A designare, le frontiere nazionali, come mezzo di protezione contro gli stranieri associati all’immagine del nemico. Si sa, molti ricercatori, in particolare economisti e demografi, dimostrano che più che un problema, i migranti sono una soluzione, in primo luogo per l’impiego (domestici, sanitari, edilizia). Invece, numerosi responsabili politici cercano di fondare la loro legittimazione con una chiusura su se stessi, che essi associano all’idea di sovranità. La mobilità è così messa in causa per numerosi paesi del Sud, mentre è favorita per altri, le ineguaglianze sociali si aggiungono alle ineguaglianze delle origini.

Veniamo ora alla spiegazione culturale. Le nostre forme di organizzazione sociale, in Europa, si sono profondamente trasformate. Le famiglie si sono ridotte fino alla taglia di famiglia elementare, nucleare, anche di un solo individuo o di una diade genitore-figlio, nel caso delle famiglie separate, ricomposte, monoparentali. A questo individualismo crescente sul piano sociologico, si aggiungono la riduzione della dimensione delle abitazioni nelle città (si vive sempre più in città) e l’individualizzazione dei progetti economici e, in generale, delle modalità di impegno nella società stessa. Tutto questo non crea uno spazio per lo straniero. Per questo motivo quando si è iniziato a parlare di solidarietà a livello personale, a partire dal 2010,  in occasione della cosiddetta “crisi migratoria”, vi è stato un divario tra queste proposte, insieme intime e politiche, e lo stato della nostra vita in comune. Non abbiamo, oggi, più i mezzi per rispondere a questa domanda essenziale: come fare dello straniero un ospite?

– Lei scrive che occorre ripensare l’ospitalità ma come fare e dove iniziare?

– La crisi dell’accoglienza in Europa e le mobilitazioni che si sono fatte in nome dell’ospitalità, della solidarietà, della dignità, nei confronti dei migranti in situazione precaria, hanno messo in evidenza dei punti deboli e dei bisogni delle nostre società. Per rispondere alla sfida dell’ospitalità, ognuno di noi, individualmente, ha a avuto bisogno di trovare un quadro collettivo che l’aiutasse, lo rassicurasse, gli permettesse di impegnarsi senza essere isolato. È cosi che io spiego la nascita di numerosi movimenti collettivi, di antiche rimobilitazioni o di mobilitazioni di gruppi d’interesse in questi ultimi anni, per di supportare l’accoglienza domiciliare dei migranti. Mettere le persone in contatto, garantire la buona moralità dello straniero che sarà accolto, garantire un sostegno giuridico di chi alloggia in casi di problemi con l’amministrazione, organizzare la circolazione dei migranti ospitati in numerose famiglie, tutto questo ha avuto bisogni di esperienze collettive. Ho analizzato questo processo come un modo di rifare comunità in una società altamente individualista. Se c’è una cosa che l’antropologo ricerca in permanenza, sono proprio i modi, sempre nuovi, di fare comunità.

Occorre ripensare l’ospitalità anche per ridarle l’aspetto cosmopolita che, un altro filosofo Emmanuel Kant, aveva messo in evidenza nel XVIII secolo. L’ospitalità deve essere universale, scriveva, per mettere in piedi un mondo in primo luogo cosmopolita, nel quale lo straniero non sia in nessuna parte trattato da nemico. In questo caso, l’universalità dell’ospitalità, corrisponde alla sua dimensione planetaria. Noi viviamo tutti in uno stesso pianeta in cui nessuno ha più di un altro il diritto di essere. Questa eguaglianza planetaria di diritto, è politica. D’altronde, Kant sottolineava che l’ospitalità non è una questione di filantropia ma diritto. Dobbiamo, infine, interrogarci su di un’altra comunità, la cosiddetta “comunità internazionale”, che per il momento resta un’utopia, ma, lo credo fortemente, un’utopia necessaria.

Michel Agier

Lo straniero che viene

Ripensare l’ospitalità

Cortina Editore, 2020

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(versione originale)

– Dans l’introduction de votre ouvrage vous citez le philosophe Jean-Luc Nancy à propos du corps étranger, pour soutenir qu’il faut considérer l’accueil de l’étrangère comme un fait politique lié à un choix. Quelle est l’importance de ce choix ?

Toute la problématique de celle ou celui qui voit arriver un étranger porte sur la question : dois-je en faire un hôte et comment ? Mais il est important de reconnaître ce tout premier moment où deux élans cohabitent, celui de l’hospitalité et celui de l’hostilité. Le philosophe Jacques Derrida a même parlé d’« hostipitalité ». Ces deux élans ou sentiments ont en commun de désigner une personne comme étrangère. C’est pourquoi en écho à cette question, je consacre le dernier chapitre de l’ouvrage à la définition très relative de l’étranger, en disant qu’on peut tous devenir étranger selon les contextes, les lieux et les moments. Mais pour revenir à ma question de départ, le geste de l’hospitalité – ouvrir la porte, ouvrir les bras, engager la conversation – est un choix autant politique qu’anthropologique : il propose la relation plutôt que la fermeture, il ouvre une frontière.

– L’accueil, l’hospitalité, doivent être sans conditions ou à quelles conditions ?

Je suis revenu aux déclarations de Derrida au milieu des années 1990, constatant qu’il ne voyait comme définition efficace possible de l’hospitalité qu’une définition absolue, inconditionnelle et même, a-t-il reconnu, religieuse (« je ne suis pas religieux mais ce que je dis est compatible avec le religieux » dit-il en substance). C’est reconnaître que, de son point de vue, l’hospitalité est injustifiable du point de vue la vie réelle en société et qu’elle ne peut être qu’une valeur absolue, une « loi » inconditionnelle et supérieure mais qui, bien sûr, se heurte aux lois terrestres, c’est-à-dire nationales, et il voit là une sorte d’aporie. On n’en sort pas. Or, mon propos est justement de corriger (sans rien céder, bien sûr, au respect immense que j’ai pour la pensée lumineuse du philosophe), cette définition de l’hospitalité, en la rendant moins absolue, moins belle peut-être, mais bien ancrée dans le social. C’est là que l’anthropologie, les sciences sociales et humaines sont nécessaires, parce qu’on se rend compte alors que l’hospitalité est une forme sociale qui est ou a été profondément ancrée dans les sociétés. C’est de cela que  je me saisis, en revenant à l’enquête ethnographique, autant en Europe actuellement, en étudiant les mobilisations de certains habitants pour un accueil digne des étrangers en France, en Italie, Espagne, Allemagne, etc., que sur mes terrains plus lointains, en l’occurrence en Afrique de l’ouest où j’ai étudié, il y a quelques années, les pratiques et les codes de l’hospitalité dans un groupe social particulier, celui des migrants et commerçants haoussa.

Il y a aussi une dimension stratégique dans ma démarche. Adosser l’hospitalité à l’inconditionnalité fait appel à une dimension spirituelle, sacrée et finalement religieuse, qui ne correspond plus tout à fait à l’état de nos sociétés européennes, à la fois plus sécularisées et individualistes. J’ai donc entrepris, sous le prétexte de cette critique de Derrida, de prolonger cette démarche en cherchant à dire quelles sont « les conditions de l’inconditionnalité ». J’arrive en particulier à la mise en évidence de la nécessité d’un tissu communautaire (collectifs, réseaux, associations créés ces dernières années pour défendre et accueillir les migrants) qui recrée une sphère de confiance dans laquelle le geste individuel, intime même, de l’hébergement à domicile d’un étranger inconnu, devient possible.

– Pourquoi, aujourd’hui, on a du mal à soutenir l’accueil des étrangers, des migrants, dans notre Europe et, en général, en Occident ?

Je pense qu’il y a une explication politique et une explication culturelle, et elle ne sont pas tout à fait du même ordre. D’une part l’explication politique. Quand vous parlez de « l’accueil », vous faites allusion (c’est ce qu’on fait en général en Europe) aux politiques publiques à l’égard des étrangers en général : les droits des étrangers, le droit du travail, le droit d’asile, les mécanismes d’intégration, etc., ainsi que les institutions et les structures qui vont avec. Ces dispositifs d’accueil étatiques sont aujourd’hui très dépendants des orientations politiques et idéologiques des Etats-nations. Le discours des Etats tend dans la plupart des cas à stigmatiser les étrangers, à en faire un problème, notamment sur le plan économique ou culturel, à désigner les frontières nationales comme moyen de protection contre les étrangers associés à l’image de l’ennemi. On le sait, beaucoup de chercheurs, en particulier économistes ou démographes, montrent que plutôt qu’être un problème, les migrants sont une solution, notamment en termes d’emplois (emplois domestiques, de la santé, de la construction). Mais rien n’y fait, de nombreux responsables politiques cherchent à fonder leur légitimité sur une fermeture sur soi, qu’ils associent à l’idée de souveraineté. La mobilité est ainsi remise en cause pour de nombreuses nationalités des pays du Sud, alors qu’elle est favorisée pour d’autres, les inégalités sociales s’ajoutant aux inégalités selon les origines.

D’autre part, l’explication culturelle. Nos formes d’organisation sociale en Europe se sont profondément transformées, les familles se sont réduites jusqu’à la taille de la famille élémentaire, nucléaire, voire jusqu’à la taille de l’individu seul ou des dyades parent-enfant dans le cas des familles décomposées, recomposées, monoparentales, etc. A cet individualisme croissant sur le plan sociologique, s’ajoutent la réduction de la taille des logements dans les villes (alors qu’on vit de plus en plus en ville) et l’individualisation des projets économiques et en général des modes d’engagement dans la société. Tout cela ne fait guère de place pour l’étranger. C’est pourquoi lorsqu’on a recommencé à parler de solidarité au niveau personnel, d’hospitalité, dans les années 2010 à l’occasion de ladite « crise migratoire », il y a eu un décalage entre cette mobilisation, à la fois intime et politique, et l’état de notre vie en commun. Nous n’avons plus vraiment les moyens de répondre à cette question essentielle aujourd’hui « Comment faire de l’étranger un hôte ? ».

– Vous écrivez qu’il faut repenser l’hospitalité mais comment le faire et d’où commencer?

Cette crise de l’accueil en Europe et les mobilisations qui se sont faites au nom de l’hospitalité, de la solidarité, de la dignité, à l’égard des migrants en situation précaire, ont mis en évidence des failles et des besoins de nos sociétés. Pour répondre au défi de l’hospitalité, chacun-e individuellement a eu besoin de trouver un cadre collectif qui l’aide, le sécurise, lui permet de s’engager individuellement sans être isolé. C’est comme ça que j’explique le nombre impressionnant de créations de collectifs nouveaux, ou de remobilisation d’anciens, ou de mobilisation de groupes internet, etc., ces dernières années, pour être un support à l’hébergement des migrants à domicile. Mettre les personnes en contact, garantir la bonne moralité de l’étranger qui sera accueilli, garantir un soutien juridique au logeur en cas de problème avec l’administration, organiser la circulation des migrants hébergés dans plusieurs familles d’hébergeurs, etc., tout cela a nécessité de créer du collectif. J’ai analysé cela comme une manière de refaire de la communauté là où nos sociétés sont devenues hautement individualistes. S’il y a une chose que l’anthropologue recherche en permanence, ce sont bien les manières sans cesse renouvelées de faire communauté.

Repenser l’hospitalité, c’est aussi lui redonner son cadre cosmopolitique qu’un autre philosophe, Emmanuel Kant, avait mis en évidence au XVIIIe siècle. L’hospitalité doit être universelle, écrivait-il, pour mettre en œuvre un monde davantage cosmopolite, dans lequel l’étranger n’est nulle part traité en ennemi. Dans ce cas, l’universalité de l’hospitalité correspond à sa dimension planétaire, parce que nous vivons tous sur la même planète où personne n’a plus qu’un autre le droit d’être. Cette égalité planétaire de droit est politique. D’ailleurs Kant soulignait que l’hospitalité n’est pas une question de philanthropie mais de droit. C’est là que nous devons finalement nous interroger sur une autre communauté, ladite « communauté internationale », qui pour l’instant reste une utopie, mais, je le crois fortement, une utopie nécessaire.

 

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