EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

L’istinto logico della paura. Intuizione, razionalità, mimetismo: pensiero allo stato nascente

di Primavera Fisogni

***

Il problema

Emozione che blocca e insieme attiva, la paura viene generalmente considerata una circostanza in cui la lucidità cognitiva è pesantemente messa a dimora, per dar spazio a risposte immediate, quasi automatiche: la reazione (fight), la fuga (flight), il blocco (freeze), l’adulazione (flawn). Molti comportamenti dettati dalla paura, in effetti, sembrano portare nella direzione dell’irrazionalità. Pensiamo soltanto ai racconti gialli, dove l’autore di un delitto lascia sempre qualche indizio che condurrà gli investigatori al suo riconoscimento; imprecisioni, difetti nell’azione spesso comprensibili alla luce della paura e all’assenza di (completa) lucidità.

A tutti gli automobilisti è capitato di dover frenare all’improvviso per evitare un ostacolo e quasi sempre l’azione è arrivata prima, se così si può dire, dell’intenzione, cioè della pre-visione delle diverse fasi che conducono alla performance dell’atto. Nel periodo della pandemia da Covid-19 si sta diffondendo, pur restando un fatto di nicchia, il ricorso al pensiero magico, all’irrazionale, nonostante gli strumenti critici di cui dispone il nostro pensiero dovrebbero agevolmente portare alla scelta di azioni ragionevoli contro la paura del morbo: vaccinarsi, dare ascolto ai risultati scientifici acclarati. Dunque, tanti aspetti della nostra vita tendono ad avallare l’idea che la paura, anzi le paure, piccole o grandi, riescano a staccare la spina della razionalità.

Ma non può essere vero proprio il contrario? O meglio, le quattro principali risposte dell’uomo alla paura non si possono interpretare come le vie maestre al pensiero? Non soltanto perché esse fanno apprendere comportamenti utili ad affrontare l’evento critico (Debiec, 2004) e li stabilizzano nella memoria (Davey, 2006; Dodhy, 2017; Huddy, 2004), ma anche perché strutturano il pensiero stesso. Cioè il principale strumento che l’essere umano ha a disposizione per risolvere i problemi della vita. In questo breve saggio si vuole sostenere proprio questa tesi. Precisamente che fight, flight, freeze, flawn – le quattro più comuni risposte alla paura – adombrano lo stato nascente dell’attività mnestica dell’essere umano, sia ad un livello intuitivo, sia magico, sia mimetico, sia critico.

Più che la sospensione momentanea della ragione (ma siamo sicuri di averla attivata?), la paura ci fa vivere, ogni volta, la preistoria della mente umana. Si capisce, quindi, perché questo stato antropologico sia così connaturato alla condizione personale e per quale ragione saperlo affrontare consenta la maturazione delle capacità cognitive. Le diverse componenti cognitive sono il fattore che differenzia la paura umana da quella animale. La più istintuale tra le risposte emotive si dà quindi a vedere, paradossalmente, come la più fine, nonché completa, per quanto concerne la tessitura cognitiva.

Nei prossimi paragrafi, le risposte comportamentali alla paura saranno messe in relazione con alcune figure del pensiero. In ciascuno di essi sarà tracciata una lettura sistemica della stoffa cognitiva propria della paura, alla luce di una visione generale di razionalità (Urbani Ulivi e Fisogni, 2021) che abbraccia tutte le molteplici componenti dell’agire umano, comprese le risposte emotive alle quali attribuiamo, spesso e per lo più, un deficit di comprensione del mondo. L’articolo non si pone l’obiettivo della completezza, quanto piuttosto auspica l’avvio di una discussione interdisciplinare.

Lo shock – Lo stupore

Un tentativo di aggressione, la mano di uno sconosciuto che si avvicina, per offenderci. Un animale che attraversa la strada, all’improvviso, mentre siamo alla guida. La prima reazione è di solito quella di bloccarsi, di irrigidirsi. È il sintomo primario dell’attivazione del sistema biochimico che predispone l’organismo ad affrontare il momento traumatico (Steimer, 2002; Tovote, 2015), facendo entrare in campo ormoni e adrenalina (Carlsson, 2005; Huddy, 2004). Sul piano cognitivo siamo all’inizio di tutto, perché va in scena lo stupore, come Charles Darwin aveva rilevato nel suo libro The Expression of the Emotions in Man and Animals (1872), cioè lo stato della meraviglia: si spalancano gli occhi e la bocca; sembra di non poter dire nulla, ed in effetti è così, perché l’intenzione supera la capacità di intuizione.

Nel “fenomeno saturo” (Marion, 2005) ci viene contro il mondo, nelle sembianze di un’alterità minacciosa. Per il pensiero questo istante muove tutto, perché – come avevano compreso i filosofi antichi – nella dinamica dell’urto è suscitatore di domande. Domande in cui trova casa la filosofia allo stato nascente, nel suo slancio ad abbracciare, la totalità (to pan). Non dimentichiamo Giambattista Vico dei Principi di una scienza nuova (1725), che per spiegare l’origine del divino si muove a ritroso, approdando fino alla grande paura dei primi viventi, dovuta agli agenti atmosferici estremi: nel guardare i fulmini cadere, terrorizzati dal loro fischio e dal fuoco, i nostri antenati avrebbero pronunciato, dopo lo shock, una parola: dhe. Un monosillabo da cui avrebbe avuto origine l’idea stessa di eternità e creazione ex nihilo, attraverso una parola: dio. Poco o nulla è cambiato rispetto ai nostri antenati. Paura, shock e stupore si intrecciano in modo circolare.

Nel libro veterotestamentario del profeta Daniele viene descritto un caso di terrore da manuale, quello del re Baldassar che, al culmine di un banchetto, con l’uso sacrilego di vasi d’oro sottratti al tempio degli Ebrei, vede materializzarsi le dita di una mano d’uomo impegnate a scrivere una frase sul muro. Leggiamo che «il re cambiò d’aspetto: spaventosi pensieri lo assalirono, le giunture dei suoi fianchi si allentarono, i ginocchi gli battevano l’uno contro l’altro» (Dan. 5, 6). L’esito verbale dello shock, allora come oggi, è dato dal grido («Allora il re si mise a gridare», 5, 7). In apparenza espressione disumana, animalesca, esso è prettamente domanda, così carica di energia vitale da spegnere qualsiasi altra espressione verbale. Lo shock, dunque, in quanto attivatore di senso (stupore), apre la porta all’elaborazione stessa dell’esperienza, attraverso una modalità propria, di tipo anzitutto non verbale (grido). È interessante notare come, nell’ebraico biblico, il termine “paura” (yirah) sia precisamente e intenzionalmente in rapporto con la conoscenza e persino con la saggezza. Basti citare, a questo proposito, Proverbi 9, 10: «La paura del Signore è l’inizio della saggezza»

Che significa? L’autore biblico trasmette certamente l’idea di un apprendimento “oscuro”, non attraverso la logica tradizionale. Non si pensi di essere agli antipodi della razionalità. Attraverso le lenti del pensiero sistemico, tematizzato da Ludwig von Bertalannfy nel ‘67 e oggi considerato il paradigma (interdisciplinare) di riferimento per le scienze umane, dalla filosofia all’economia, questo tipo di apprendimento emozionale è ben noto. Siamo di fronte alla cosiddetta “conoscenza opaca”, espressione desunta dall’ottica. Per comprenderne l’importanza, si pensi a un tubo, colpito da un lato da stimoli luminosi: quello che esce, dall’altra parte, non è più lo stesso segnale. Durante il percorso avvengono cambiamenti fondamentali. È questa “opaque knowledge” (Vitiello, 2019) che si ravvisa in molteplici processi cognitivi, dai processi metamorfici (Fisogni e Urbani Ulivi, 2019) a quelli propriamente razionali (Urbani Ulivi e Fisogni, 2020).

Nello shock della paura viene alla luce anche la componente che “allerta” sul potenziale cognitivo dell’emozione. Come ha chiarito Vitiello (2010, p. 118):

«(…) in questo vedere assieme e tutto d’un tratto, in questo stupore, è l’atto di coscienza, con la sua caratterizzante imprevedibilità e irripetibilità, con la sua impossibilità di essere imbrigliato in strutture logiche o computazionali».

La paura, proprio nella fase dello stordimento, rivela la sua caratteristica marcatamente intenzionale: orienta all’alterità, all’ambiente circostante, a quello che Vitiello ha tematizzato come il Doppio. Senza questo “andare contro” prima ancora di “andare verso” trova una giustificazione l’esperienza dello stupore, anche e soprattutto nella forma più scioccante, paurosa. Giacché, sostiene Vitiello:

«Il dialogo col Doppio è dunque caratterizzato dalla dimensione della novità, della sorpresa, dello stupore (astonishment) e pertanto esso vive solo nel presente» (ibidem).

Anche questa considerazione serve a comprendere la stoffa cognitiva della paura, abitatrice dell’istante. Infatti tutte le risposte – freeze, fight, flight, fawn – scaturiscono nell’immediato, da un processo che non è ir-razionale ma pre-razionale o sovra-razionale.

Il blocco – La quiete del giudizio

La risposta freeze non è sovrapponibile allo stupore, anche se presenta la caratteristica della momentanea immobilità. Si tratta, infatti, già di una strategia cognitiva volta, da un lato a contenere il potenziale reattivo, senza disperderlo, dall’altro a valutare la minaccia.

Si è più che mai esposti all’attacco, tuttavia esiste anche un margine per aggirare la situazione di pericolo. Arrestarsi significa voler valutare se il pericolo è reale, e quali spazi di fuga esistono, oppure se la situazione deriva dal timore soggettivo di non farcela. Come si comprende, il freeze attiva il giudizio, un’attività razionale di primissimo piano perché conduce a un guadagno di conoscenza attraverso un processo di sintesi. O, per dirla con Aristotele, il primo tra i pensatori ad occuparsi di questa figura del pensiero, esso mette in relazione un soggetto con un predicato. Per Immanuel Kant sono giudizi sintetici a priori quelli che portano un effettivo avanzamento del sapere, quelli a posteriori (qui il predicato proviene dall’esperienza) sono tautologici. Durante la fase del blocco la mente è impegnatissima a trarre conclusioni originali, applicando alla situazione analogie e differenze di stati. E sempre a proposito di Kant, non possiamo trascurare il giudizio del sublime, quella valutazione insieme cognitiva, estetica ed etica che scaturisce da circostanze estreme, sotto il limite (sub-limine). Nella cornice romantica degli esempi kantiani, tutti desunti dal mondo naturale, lo smarrimento (un certo tipo di paura) provato dall’individuo porta a una conoscenza decisiva. La persona, pur fragilissima rispetto a oceani o deserti, possiede una forza (morale) che nessuno può sottrarre. L’uomo romantico è freeze. Sta ben dritto di fronte all’abisso; rispetto ai progenitori dell’Eden, che nello scoprirsi vulnerabili optano per risposta flight, i cavalieri del sublime fanno dell’istante un’opera d’arte.

 Ad un livello cognitivo il freeze si può paragonare alla rotella del motore di ricerca di un computer; a differenza della macchina, che tramite i suoi algoritmi, impiega uno spazio brevissimo per arrivare a una risposta, l’essere umano entra in relazione con la complessità, trasmette input all’ambiente e ne riceve di continuo. Sul piano sistemico, questa risposta denota l’avvenuta dissipazione, termine preso a prestito dalla fisica quantistica, indicante la dispersione dell’energia. In breve: la paura equivale ad una perturbazione, di noi stessi e dell’ambiente circostante. Oltre alle dinamiche biochimiche ben note, nella fenomenologia della paura, ad un livello cognitivo si dà l’esigenza del cervello di adattarsi a quanto sta accadendo per raggiungere una nuova coerenza.

La reazione – Pensiero polemico e dialogico

La risposta fight, nella paura, porta al centro della scena l’essenza stessa dell’emozione: si ha paura di qualcuno o di qualcosa, di un oggetto. Si può reagire all’esperienza terrorizzante perché la si vede, in modo reale (un incidente) o figurato (una fobia), a differenza dell’angoscia, il vuoto spinto entro cui si può soltanto sprofondare.

Ecco, la fase reattiva, dal punto di vista cognitivo, getta luce sul rapporto con l’alterità, nella sua duplice veste di pericolo rispetto al quale siamo vulnerabili e di cartina di tornasole dell’identità. Nello scendere in campo per affrontare la paura, la mente si orienta alla relazione: prende le distanze dall’oggetto dell’emozione, lo disarma, per così dire. Siamo nell’attimo in cui si affina il processo razionale, inteso come messa a fuoco del contenuto intenzionale, in un processo di taglia e cuci continuo. L’immagine di una partita di scherma rende plasticamente questa speciale attività: un passo avanti, un passo indietro, un affondo; l’attacco e poi la difesa e poi ancora l’attacco. Non è la risposta più impulsiva. Nessuna, a ben guardare, lo è. La fase fight passa dallo shock allo stupore, al giudizio, per culminare nel fiat dell’azione. Nella risposta fight l’altro che incute paura, è un nemico (persona, animale, fenomeno atmosferico) da addomesticare.

Il pensiero della relazione fa propri i modi del conflitto, fino a demistificarli e attuare una riconversione degli stessi. Non meraviglia che il dialogo – esito sublime dell’attitudine razionale di cui siamo equipaggiati – segua esattamente questo percorso (Fisogni, 2006). In una prospettiva sistemica questa fase è funzionale a ristabilire la coerenza, dopo la dissipazione energetica seguita alla perturbazione dello shock iniziale. Se vogliamo, è il momento – inteso come sincope di movimentum – che più si avvicina al processo razionale, caratterizzato dalla composizione, anche degli opposti. La fase fight è, in questo senso, fortemente costruttiva per l’identità, perché, nel riconoscimento dell’altro da sé il soggetto consolida sé stesso.

Pensiamo alla paura di guidare l’auto, dopo un incidente oppure al timore di prendere il treno dopo attacchi di panico. Il recupero avviene nel momento in cui la persona annienta la carica minacciosa della situazione, ricomponendo un nuovo equilibrio, nella consapevolezza di poter dominare l’emozione negativa.

La fuga – L’autoriflessione

Adamo ed Eva, i primi uomini della tradizione biblica, scappano e si nascondono dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza nel Paradiso terrestre. Ciò che hanno appreso è soprattutto la propria fragilità. Per questo si sentono nudi. Nel rispondere a Dio, che li scova alquanto facilmente, Adamo dice proprio questo: «ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura perché ero nudo, e mi sono nascosto» (Gn. 3, 10). Non la vergogna del proprio corpo senza vestiti, bensì il senso della fragilità connaturata alla condizione umana è il motore che manda allo sbaraglio i due progenitori. Altra grande fuga dell’antichità pre-classica, è quella di Sanahat o Sinuhe, l’alto funzionario del re Amenemhat I (XII dinastia) che origlia la notizia della morte del re. Vive lo shock, con sintomatologia che richiama un attacco di panico, poi scappa nel deserto libico. Non ha colpe. Ha scoperto di non avere più alcuna protezione, né sociale, né amicale. È nudo quanto Adamo ed Eva, perché un’ombra si è interposta tra lui e il suo signore. Nella Genesi si tratta del primo peccato della storia, in Sinuhe della morte di un re considerato il dio in terra.

Come sempre, nelle tradizioni più antiche brillano intuizioni radicali da prendere in considerazione con molta accuratezza. Sì, perché questa è la stessa dinamica che si sperimenta nella risposta flight, ovvero nella fuga da una situazione di pericolo. Nella scoperta del limite il pensiero compie un movimento di auto riflessione e introiezione. Nell’animale è l’istinto, frutto dell’adattamento all’ambiente, a suggerire quando è il momento di lasciare in campo.  Nella persona umana è l’esito del processo di scoperta del proprio sé, che si manifesta ritraendosi dall’alterità. Ma la fuga si dà a vedere come aggiustamento provvisorio. Anche sul piano cognitivo l’autoriflessione, nel donare consapevolezza, alimenta la frustrazione attraverso le proprie forme mancanti: l’egoismo, il narcisismo, la deriva.

L’adulazione – Pensiero mimetico

Con la modalità di fawning si intende una risposta alla paura caratterizzata da un avvicinamento mimetico alla fonte che incute terrore e all’aggressore. «I tipi “fawn” cercano di mettersi al sicuro fondendosi con i desideri, i bisogni, le aspettative degli altri – sostiene Pete Walker -. Essi agiscono come se, a livello inconscio, credessero che il prezzo da pagare per essere ammessi a qualsiasi tipo di relazione sia questo atteggiamento».

Un po’ come tentare di ammansire il cane di grossa taglia che abbaia minaccioso al nostro cospetto attraverso il lancio di un biscotto. Molto studiato nelle dinamiche aggressore-aggredito e come risposta comune nei disturbi traumatici da stress, in un contesto cognitivo il sistema fawn richiama piuttosto il mimetismo. Si tratta di una forma empatica, dettata dall’esigenza di ridurre la portata della paura o del trauma, mediante la quale si acquisiscono modi, posture, atteggiamenti dell’altro. Come in uno specchio, la mente recepisce – su comando dei neurotrasmettitori attivati dalla forte emozione – e fa propri i tratti dell’alterità. I balli tribali, le danze propiziatorie per la caccia o per la pioggia recano traccia di un’originaria imitazione di fenomeni rischiosi, in tal modo addomesticati. Ad un livello sistemico è il trionfo dello scambio di energia, tra il dentro e il fuori, la mente e l’ambiente.

«(…) occorre considerare i bilanci energetici e di altro tipo nei flussi scambiati tra il sistema (il cervello) e l’ambiente. Dal punto di vista del bilanciamento dei flussi, l’ambiente è rappresentabile come una copia esatta del sistema, dal momento che esso riceve ogni flusso (energetico) proveniente dal sistema, e questo, a sua volta, riceve ogni flusso proveniente dall’ambiente e questi flussi in ingresso e in uscita debbono comunque bilanciarsi». (Vitiello, 2010, p. 115).

Conclusione

Più che concludere, è forse il momento di iniziare. Non esistono, ad oggi, studi rivolti alla genesi del pensiero nelle fasi della paura. Il momento, però, appare propizio: la lettura del potenziale cognitivo delle emozioni, a partire dagli studi fondamentali di Antonio Damasio (1994, 1999) e Martha Nussbaum (2001), ha fatto intravedere un percorso di senso che la filosofia sistemica può affrontare, avendo dalla sua tutti gli strumenti. È quindi auspicabile che si possa procedere in questa direzione, in modo interdisciplinare, a beneficio di una pluralità di saperi e pratiche che hanno a cuore la condizione umana.


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