di Tullia Toscani
Alan Schore (20103) afferma che lo psicoterapeuta, tra le diverse funzioni, svolge quella di “regolatore emotivo degli stati disregolati del paziente”.
Il terapeuta offre, nel processo di cura, un ambiente protetto e una relazione sintonizzata sui bisogni del paziente, in grado di favorire il processo d’ integrazione dei sistemi di elaborazione cognitiva, emotiva e corporea.
Discipline come la neurobiologia, la medicina e la psicologia, condividono oggi l’assunto che il cervello è plastico, dinamico, capace di rispecchiamento e mantiene queste sue qualità per tutto l’arco dell’esistenza dell’essere umano.
Ricercatori e clinici di diversi modelli teorici affermano che l’ambiente, le esperienze e la qualità della relazione concorrono significativamente a formare e modificare sia la struttura del cervello sia le sue funzioni.
La mente dell’essere umano costituisce un sovra-sistema, che comprende insieme all’unità psicofisica della persona, anche la coreografia delle relazioni e l’ecosistema nel quale è inserito. La mente dell’individuo si forma dentro la qualità dell’accudimento parentale e delle pratiche educative.
Stern indica l’interazione reale come il “contesto” privilegiato nel quale prende forma la mente individuale, e considera la qualità del legame una condizione indispensabile perché si sviluppino i nessi significativi tra percezione, emozione, e cognizione.
Bateson, riteneva che la mente fosse sovra-individuale, non riconducibile alla sola “calotta cranica”. Una “mente relazionale” e “sistemica”.
Il concetto di “sistema” comporta una visione olistica dell’esistenza. L’olismo ,dal greco όλος, cioè “la totalità”, “globalità”, è una posizione teorica basata sull’idea che le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti. La parola, insieme all’aggettivo olistico, è stata coniata negli anni venti da Jan Smuts (1870-1950), uomo politico, intellettuale e filosofo sudafricano, autore di Holism and Evolution (“Olismo ed evoluzione”), del 1926. Essendo Smuts un convinto evoluzionista, l’olismo è secondo lui anche esprimibile come il frutto strutturale di un'”evoluzione emergente”, dove la complessità strutturale che ne deriva in un ente non è riducibile ai suoi aggregati. Secondo l’Oxford English Dictionary, Smuts ha definito l’olismo come: «la tendenza, in natura, a formare interi che sono più grandi della somma delle parti, attraverso l’evoluzione creativa». (da https://it.wikipedia.org/wiki/Olismo )
La concezione olistica dell’esistenza porta inevitabilmente a concepire il rapporto mente-corpo come un insieme che può essere rappresentato solo con metafore. Nell’atto di descriverlo si entra inevitabilmente nella sua scomposizione e riduzione. Se guardiamo al funzionamento dell’essere umano nella sua totalità, vediamo che la sua esistenza è garantita dalla ricerca incessante di un equilibrio psicofisico che viene creato e mantenuto, come adattamento al suo ambiente, per processi che non sono del tutto consapevoli. Nel nostro corpo avvengono ogni giorno trasformazioni , riparazioni, che normalmente non notiamo, ma che concorrono a mantenere un equilibrio dinamico. Il nostro sistema “mente-corpo” corregge automaticamente ogni squilibrio nella stessa maniera di come il nostro termostato interno assicura il mantenimento di una temperatura costante.
Pat Odgen mette in evidenza come il cervello confronta le percezioni attuali con i ricordi del passato producendo segnali corporei complessi che guidano le nostre azioni senza alcuna necessità di pensarle, permettendoci così di esplorare tranquillamente il mondo. Movimenti, posture, fisiologia del corpo si adattano alle circostanze esterne e ai contesti relazionali anche senza un intento consapevole. Da questo punto di vista, anche la sofferenza psichica, la patologia, deve essere considerata come la ricerca di un equilibrio funzionale, che trova non solo nella comunicazione e nello stile relazionale un suo riscontro, ma anche nei segnali del corpo. Ogni psicopatologia ha un linguaggio del corpo che sotto forma di intense reazioni fisiche di sopravvivenza, costituisce adeguate strategie di difesa dal pericolo e dai deficit delle relazioni di accudimento.
La visione olistica del funzionamento dell’essere umano, inserito a sua volta in un ecosistema, rinforza la fiducia nella tendenza organica e spontanea del paziente ad andare verso uno stato di armonia, di equilibrio e pertanto di salute. La mente dell’essere umano ha le capacità di raccogliere informazioni attraverso tutti i canali sensoriali e di procedere verso la loro integrazione in funzione di adattamenti evolutivi. La mente dell’uomo è “attrezzata” biologicamente a svolgere una funzione adattiva, riparativa e trasformativa. Quanto più impariamo ad ascoltare i segnali che arrivano dal nostro corpo e a conoscere le nostre risorse relazionali e somatiche, tanto più sapremo attingere alla saggezza e alle competenze che abbiamo sviluppato per trovare nuovi adattamenti non condizionati dalle esperienze del passato.
La ricerca clinica si è orientata negli ultimi vent’anni sempre di più verso la stessa direzione: considerare la “relazione” come interfaccia tra funzionamento intrapsichico e interpersonale e contesto privilegiato di integrazione tra psiche e soma.
Se assumiamo questo principio, considereremo lo psicoterapeuta in modo diverso dalle rappresentazioni che ne sono state date nelle epoche precedenti.
Lo psicoterapeuta è pensato oggi come un professionista che non forza, non induce, non deve far “accadere” per forza “qualche cosa” nel paziente, al contrario, è un “facilitatore relazionale” che accompagna la mente del paziente a integrare le esperienze sensoriali con gli affetti e i significati.
Lo psicoterapeuta assume un assetto mentale e relazionale “maieutico”. Questa definizione comprende concetti ben noti ai clinici, quale ad esempio quello di “mente riflessiva vicariante” e di “regolatore biologico interattivo”.
Allan Schore ha fatto una ricerca concentrandosi sul passaggio di informazioni che avviene tra l’emisfero destro del neonato e quello di chi lo assiste (caregiver) e viceversa. Poiché, nel neonato, la capacità di fronteggiare attivamente le situazioni difficili è poco sviluppata, chi lo assiste è lo strumento di regolazione del suo stress e quindi del suo senso di sicurezza.
I sistemi di regolazione che integrano la mente col corpo sono prodotti dai circuiti limbici spontanei (Rinam, Levitt, & Card, 2000) e, dal momento che il loro
sviluppo dipende dall’esperienza, nei periodi critici della crescita sono vulnerabili ai traumi che possono derivare dalle relazioni. Schore ha esteso al processo terapeutico le scoperte derivanti dall’analisi della relazione tra il neonato e la persona che si prende cura di lui. Egli afferma che la comunicazione tra cliente e terapeuta è un’esperienza percettiva basata su segnali somatosensitivi che il terapeuta, come una madre sufficientemente buona, deve interpretare per poter offrire l’intervento appropriato in quel momento. Afferma inoltre che tutto ciò ha delle importanti ricadute su tutte le terapie che pongono al centro dell’attenzione il corpo, la dimensione somatica.
Secondo Mundo, l’esperienza terapeutica produce effetti sull’attività cerebrale, la terapia cambia il cervello; è una terapia biologica, affermano Merciai e Cannella; “Lo psicoterapeuta è un regolatore psicobiologico dello stato del paziente” afferma Schore; secondo LeDoux la psicoterapia è un processo per insegnare alla nostra neocorteccia a controllare sistemi emotivi .Per Kandel l’effetto psicoterapeutico va ricercato nelle aree coinvolte nei processi impliciti, quali la neocorteccia e l’amigdala.
Secondo Schore, le patologie mentali sono espressione di disregolazione emotiva e tutte le psicoterapie sono modelli di regolazione affettiva. Louis Ploton, nei suoi studi sull’Alzheimer, parla di matrici affettive del pensiero, quali essenziali strutture relazionali del paziente.
La psicoterapia oggi è sempre più concepita come una psicoterapia integrata, focalizzata sulle esperienze non verbali che intercorrono tra terapeuta e cliente o famiglia, e sul modo in cui la relazione tra loro è utilizzata per regolare l’affettività.
Significativa è l’attenzione che viene data ai segnali somato-sensoriali, che sono fondamentali per esplorare le memorie sensoriali, in particolar modo quando la cura riguarda le memorie traumatiche.
In questo caso, è fondamentale distinguere tra emozioni che si possono riconoscere e descrivere ed emozioni che non possono raggiungere il livello di consapevolezza se non attraverso un attento lavoro di ascolto ed osservazione del corpo. Attraverso l’attenzione focalizzata a micro eventi corporei.
Il terapeuta esplora insieme al paziente l’area dell’esperienza corporea e della consapevolezza.
Jerome Liss, afferma che l’emozione di cui siamo consapevoli e che verbalizziamo (“sono spaventato”, “sono sopraffatto dall’angoscia”, “mi sento terribilmente triste”) è connessa con processi corticali. Questo non rappresenta la dinamica centrale dell’emozione. La regolazione dell’emozione, che influenza pensieri, comportamenti e processi ormonali e viscerali è, invece, sub-corticale.
I processi corticali sono correlati con la coscienza, mentre i processi sub-corticali possono influenzare la coscienza ma non correlarsi direttamente con la consapevolezza degli eventi. i processi sub-corticali fisiologicamente inconsapevoli non possono essere direttamente colti dalla coscienza. Lo psicoterapeuta ascolta la dinamica emotiva, consapevole, elaborata a livello corticale, ma il centro principale di regolazione, l’amigdala, che lo psicoterapeuta vorrebbe poter influenzare, non può essere direttamente raggiunto dalla coscienza e pertanto dall’uso della parola.
L’orientamento sistemico-relazionale fin dagli anni ’70, in maniera intuitiva e per riscontro clinico, ha introdotto il concetto che il livello della comunicazione verbale, nella relazione, non è quello che maggiormente permette la comprensione e l’accesso ai nodi di sofferenza che compongono l’insorgenza di un sintomo. Maurizio Andolfi e in seguito Rodolfo de Bernart, hanno sviluppato in Italia nella terapia familiare ad orientamento strutturale-esperienziale, l’importanza dell’uso dell’immagine e del lavoro corporeo attraverso tecniche già presenti nella storia della terapia familiare e dei contesti artistici italiani ed europei, ma non altrettanto valorizzati come elemento centrale per la trasformazione e il cambiamento. Nell’esperienza clinica sistemico-relazionale, l’utilizzo delle tecniche non verbali dentro una buona alleanza terapeutica, ha permesso di esplorare le memorie implicite e come esse “abitano” il corpo. Il terapeuta è oggi più consapevole dell’importanza del corpo nella psicoterapia grazie ai contributi delle neuroscienze e della psicotraumatologia ed esplora insieme al paziente le memorie implicite, sensoriali e in particolar modo le memorie sensomotorie. Nelle memorie sensomotorie risiedono quelle informazioni procedurali utilizzate per mettere in pratica automaticamente alcune abilità, comportamenti e strategie di sopravvivenza che connotano l’esperienza di crescita e anche le esperienze critiche che risalgono agli accudimenti primari precedenti al formarsi dello stile di attaccamento. La memoria procedurale è registrata nella nostra abituale postura, nei gesti, negli schemi di tensione e rilasciamento muscolare e non può essere richiamata alla consapevolezza attraverso l’uso della parola. A questa memoria si collegano percezioni e affetti che difficilmente emergono attraverso un lavoro solo verbale o simbolico.
Le memorie sensoriali e procedurali sono quelle che costituiscono per tutte le persone la maggior fonte di sollievo o tormento. Esistono inoltre diversi livelli di elaborazione dell’esperienza. Normalmente per “elaborazione cognitiva” si intende la capacità di costruzione concettuale; per “elaborazione emotiva” si intende la capacità di esperire e riconoscere una gamma completa di sensazioni e di emozioni e la loro espressione e articolazione; per “elaborazione sensomotoria” si intende la capacità di apprendere procedure attraverso il corpo; essa e si affida a un numero ampio di schemi di azione fissi. Comporta movimenti sequenziali associati ad impulsi di movimento, cambiamenti posturali, e altro ancora.
Damasio sostiene che nella realtà questi diversi livelli di elaborazione sono interconnessi e integrati attraverso un sistema organizzato gerarchicamente. In questa gerarchia l’elaborazione sensomotoria è considerata
il fondamento delle altre, la prima a formarsi nell’embrione, che coinvolge le strutture cerebrali più “basse” e antiche. Le tecniche non verbali che lavorano sulla postura, muscolatura, e sull’equilibrio, sollecitano l’elaborazione sensomotoria e influenzano l’elaborazione cognitiva partendo dalle vie subcorticali.
La possibilità di utilizzare le tecniche corporee per prestare attenzione alla memoria implicita e in particolar modo a quella sensomotoria, richiede come presupposto fondamentale che il terapeuta possa offrire un contesto esperienziale caldo, temperato, sfumato. Un contesto nel quale il terapeuta, rimanendo sintonizzato con il paziente, possa accogliere anche quelle percezioni di allarme e sofferenza veicolate da micromovimenti corporei.
Il terapeuta richiama l’attenzione del paziente a sensazioni ed emozioni, piccoli movimenti, vibrazioni sia degli organi esterni che interni al corpo, cercando di sentire la propria centratura. Lo sollecita a fermarsi nel presente, nel “qui ed ora”, a osservare cosa accade nel suo corpo dentro la relazione con l’altro. Sappiamo bene che come un paziente si percepisce mentre racconta è importante quanto il contenuto del racconto. Il terapeuta allora cerca la correlazione tra lo stato della mente e lo stato del corpo, il proprio ,quello del paziente e degli altri significativi, e accompagna l’individuo o la famiglia verso l’osservazione partecipata di cosa succede nel presente e nello scambio, partendo dalle percezioni corporee per poi arrivare alle emozioni e da qui, ai significati relazionali.
Questa esperienza di osservazione può essere fatta anche nella terapia familiare e di coppia, utilizzando le posizioni triadiche e rendendo l’esperienza una crescita condivisa.
Quali cambiamenti il terapeuta deve fare nella propria formazione? Il terapeuta deve poter integrare le conoscenze acquisite nella formazione personale con le conoscenze che derivano dal lavoro sul corpo, a partire dal corpo, attraverso il corpo.
Il terapeuta per essere un “regolatore” deve poter sperimentare a fondo cosa significa “essere” nel corpo e “sentire” il corpo, raggiungendo a sua volta una consapevolezza dei propri sistemi di funzionamento corporei durante la terapia.
Questo è un passaggio fondamentale e non scontato per poter essere in grado di osservare, comprendere e accompagnare il paziente e i suoi familiari, aiutandoli a rimanere in quella “finestra di tolleranza”, cioè dentro quell’area ottimale di funzionamento psicofisico che garantisca a ognuno di loro di poter riconoscere e distinguere le esperienze senza esserne sopraffatti.
Del resto “Non puoi cambiare ciò che stai facendo finché non sai cosa stai facendo”.
Concludendo questa riflessione, preferisco definire lo psicoterapeuta come colui che libera lo spazio relazionale da tutto ciò che costituisce ostacolo perché la mente della persona, nella sua saggezza e unitarietà, possa evolvere trovando le proprie soluzioni. Gregory Bateson chiamava questo, capacità di “apprendere ad apprendere dall’esperienza”.
Lo psicoterapeuta pertanto è un regolatore psicobiologico? È un ”professionista dello “sgombero” di cantine e soffitte relazionali? È un “architetto e arredatore di spazi da abitare”? O un “coreografo di movimenti evolutivi sintonizzati”?
Per i terapeuti a orientamento sistemico-relazionale allenati a guardare la complessità senza perdere il dettaglio e il nesso che lo collega al tutto, ogni definizione apre ad un livello di intervento possibile che non esclude gli altri. La sfida è trovare l’intreccio che renda le nuove conoscenze occasione per accrescere l’armonia della conoscenza clinica.
Bibliografia
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