di Federica Biolzi
“Gli sviluppi del pensiero di Bion rappresentano una delle novità importanti nel campo della psicoanalisi internazionale e stanno contribuendo a cambiarne il paradigma di base—per dirla in breve, da una psicoanalisi basata più sulla conoscenza (epistemologica) a una psicoanalisi basata più sullo sviluppo di funzioni psichiche (ontologica). Al centro del processo dell’analisi non è più tanto la ricerca di contenuti rimossi come corpi estranei della psiche da scoprire ed eliminare, bensì creare le basi affinché si possano realizzare momenti di at-one-ment ossia di riconoscimento intersoggettivo o di sintonizzazione emotiva.” Così Giuseppe Civitarese, Psichiatra e psicoanalista, dà vita a un approfondito dialogo che ha per oggetto la sua ultima pubblicazione.
– Lei inizia il suo interessante volume chiarendone l’ipotesi che vi è sottesa: l’estetica del sublime “racconta” la nascita psichica. Il concetto di sublime, appartenente a diversi ambiti, è qualcosa che ha da sempre affascinato gli studiosi. Ci può chiarire qual è l’accezione da lei usata e perché lo ritiene importante?
-Ho iniziato a interessarmi al sublime attraverso lo studio delle teorie di Wilfred Bion, uno degli autori più importanti della storia della psicoanalisi. Gli sviluppi del pensiero di Bion rappresentano una delle novità importanti nel campo della psicoanalisi internazionale e stanno contribuendo a cambiarne il paradigma di base—per dirla in breve, da una psicoanalisi basata più sulla conoscenza (epistemologica) a una psicoanalisi basata più sullo sviluppo di funzioni psichiche (ontologica). Al centro del processo dell’analisi non è più tanto la ricerca di contenuti rimossi come corpi estranei della psiche da scoprire ed eliminare, bensì creare le basi affinché si possano realizzare momenti di at-one-ment ossia di riconoscimento intersoggettivo o di sintonizzazione emotiva. L’idea è che le persone che soffrono dal punto di vista psichico abbiamo carenze importanti in quest’area e che per difendersi dall’angoscia abbiano fatto ricorso a processi di scissione. I bisogni spirituali e affettivi sono stati sacrificati ai bisogni della mera sopravvivenza. Per il soggetto nascente l’adesione rigida ai principi di un’agenzia critica interna è diventata la soluzione per scongiurare l’abbandono da parte dell’oggetto. La rinuncia a differenziarsi è il sacrificio offerto a una sorta di crudele dio interiore. È ovvio che questa soluzione restringe enormemente gli spazi di libertà e la vitalità dell’individuo. A modificare un assetto di questo tipo non possono certo bastare informazioni, spiegazioni, istruzioni e rassicurazioni.
Solo l’istituzione di relazioni durature, stabili e autentiche può aspirare a modificare la struttura profonda della personalità. Bion è uno degli autori che hanno messo al centro della psicoanalisi la relazione madre-bambino o, meglio, madre-infante. Infatti il punto che la teoria della nascita della psiche deve chiarire è come sia possibile che una mente nasca a partire da un’altra mente, ma quando si trova ancora in una condizione in cui non vi è accesso al significato semantico del linguaggio. La psiche non smette mai di ‘nascere’. In situazioni ‘normali’ o patologiche è sempre questione di ampliare lo spazio della mente in cui contenuti emotivi potenzialmente distruttivi possono essere accolti e trasformati. Scorrendo l’elenco dei concetti originali che Bion si è forgiato per raccontare come appunto avviene la nascita psichica, sono stato colpito e intrigato dai numerosi riferimenti ad autori del periodo romantico della letteratura inglese e da tutta una serie di espressioni attinte direttamente da quell’ambito. Mi sono chiesto allora se il concetto estetico di sublime, nel suo pensiero, non abbia avuto il ruolo di un operatore teorico fondamentale. Ne è nato un articolo, ‘Bion e il sublime’, che è stato pubblicato sulla maggiore rivista nel campo della psicoanalisi e successivamente tradotto in varie lingue. Per esempio, Bion prende da Keats i concetti di ‘capacità negativa’ e di ‘linguaggio dell’effettività’, cita Milton, Coleridge, parla di Fede, Follia, Genio, Infinito, Mistico, Nulla, Notte, Non-cosa, Passione, Soffrire, Infinito, Cambiamento catastrofico, Sublime matematico, Terrore senza nome, Stupore, Tigre-La Cosa Stessa-O, e così via. Non solo, anche se sarà sviluppato principalmente da Donald Meltzer, si deve a Bion il concetto di conflitto estetico. Pensiamo alle tante ‘sacre rappresentazioni’ o ‘Madonne con bambino’ di tanta pittura italiana del Rinascimento. Schematizzando, il conflitto estetico è l’ansioso tormentarsi del bambino sulle reali intenzioni di un’alterità da cui dipende in tutto e per tutto. Il ‘visibile’ dello sguardo amorevole e luminoso dell’oggetto esprime la verità dell’‘invisibile’ dei pensieri che sono nella testa oppure no? Non è che un modo di riproporre il concetto kleiniano di ambivalenza affettiva, ma al tempo stesso arricchendolo con sfumature del tutto inedite e personali.
Il riferimento alla Klein, che è stata la seconda analista di Bion, viene utile. Nessuna più di lei ha raffigurato in maniera drammatica le vicissitudini della nascita psichica—in effetti le descrizioni dei fantasmi estremi che si destano nella psiche dell’infante sanno di film dell’orrore (ma pensiamo a quanto orrore c’è nelle fiabe). Siamo insomma obbligati a riconoscere che diventare soggetti, essere capaci di pensare i pensieri, acquisire la capacità di rappresentare, da un lato è una faccenda radicalmente intersoggettiva; dall’altro, non è affatto scontato ma ha in sé qualcosa di eroico. Dalla nascita fisica in poi è sempre questione di trovare la giusta distanza, non solo ovviamente nelle relazioni esteriori ma che in quelle del mondo interno. Se a tutte queste suggestioni aggiungiamo quelle ereditate da Freud, per esempio quando ci dice che sul piano del fantasma il paesaggio materiale non smette mai di essere il corpo della madre; che si anela sempre a tornare alla ‘prima dimora’; che trovare l’oggetto è sempre ritrovarlo; oppure quando parla di ‘sublimazione’, concetto che pure descrive il processo che porta alla più ‘alta’ spiritualità umana, mi pare ci siano abbastanza motivi per indagare come con strumenti diversi teoria estetica, arte e psicoanalisi si stiano interrogando sulla stessa questione essenziale. Nel libro provo a indagare le convergenze tra pensiero psicoanalitico della sublimazione e teoria estetica del sublime. Tra l’altro sostengo che il concetto si sublimazione vada reinventato in senso relazionale—non più una specie di descrizione dell’idraulica psichica delle pulsioni sessuali, bensì come la costruzione ‘sociale’ della soggettività umana. Se dunque accettiamo l’idea che esplorare queste risonanze o trasposizioni possa dirci qualcosa di nuovo e interessante e farci progredire in varie direzioni, ecco che un guadagno che possiamo avere dal diretto confronto con l’arte è la comprensione dall’interno, emotiva, che essa ci rende accessibile (o più facilmente accessibile). Se per esempio vedo Pietà, di Kim Ki-duk, il puro orrore della prima parte del film, dove si mostra la mancata nascita psichica del protagonista, e anche in qualche modo dello spettatore, che è totalmente incapace di empatizzare con un essere così ripugnante, diventa nella seconda parte stupore e commozione. Un processo di umanizzazione si realizza assolutamente in parallelo dentro e ‘fuori’ dal film. Come spettatore ho accesso non solo a una comprensione intellettuale o astratta, ma anche fisica, corporea, emotiva. Mi sento arricchito dall’esperienza estetica, più me stesso, più umano, con più fili di ‘intersoggettività’. Il sublime è importante perché racconta questo processo di ascesa all’umanità che sentiamo più nobile, ma senza smarrire la terra delle emozioni e del corpo.
– Veniamo alla questione della nascita psichica, In che modo il sublime può narrare la nascita delle psiche e quali le implicazioni in campo psicoanalitico?
Quando diciamo che qualcosa è sublime, anche nella vita quotidiana, alludiamo a un sentire e non solo a un capire. È un ‘esperienza, un vissuto, per cui non abbiamo parole, che ha a che fare con il piacere, la bellezza, il sentimento di vitalità e integrazione personale. Difatti non lo si potrebbe dire in parole. Per definizione è ineffabile. E tuttavia sentiamo questo vissuto come l’apice di ciò che in piccolo o in grande, possiamo sperimentare. Non solo che possiamo sperimentare perché per così dire già provvisti di questa sensibilità. No, avvertiamo che l’esperienza stessa ci ‘dona’ questa capacità, ci fa crescere dal punto di vista psichico, ci ‘trascina’ un po’ più in alto. Verso dove? Nietzschianamente, nella direzione che ci porta a diventare noi stessi. Chi potrebbe dire di essere davvero diventato se stesso, cioè di aver realizzato tutte le proprie possibilità umane? Il paradosso è che diventare se stessi, riuscire ad avere una ‘grande anima’, va di pari passo con il diventare infiniti, se con questa espressione intendiamo la capacità di avere più occhi, più prospettive possibili sulle cose. In condizioni favorevoli questa capacità nasce dal commercio intersoggettivo conscio e inconscio. Pensiamo al concetto di ambiguità della poesia o del sogno. La poesia e il sogno ci danno precisamente questa straordinaria opportunità ogni volta di avere più punti di vista sul mondo, tante interpretazioni ma, in quando condivise, non arbitrarie. È allora che posso definirmi una persona matura (o sana), quando posso uscire da quel sistema di scissioni mutilanti, cui accennavo sopra, che limitano la mia umanità, e per esempio mi obbligano, siccome sono in preda alla paura, a una visione ristretta, chiusa, fanatica o fondamentalista. Come si intuisce facilmente, in analisi il problema è di promuovere una crescita che non avvenga in maniera scissa. Con Winnicott potremmo dire che si tratta ogni volta di ridare il corpo alla psiche o di reinsediare la psiche nel corpo. Ma allora usciamo dal paradigma di una psicoanalisi che pensa di curare perché traduce al paziente l’inconscio nel conscio.
Pensiamo più a una psicoanalisi che renda automatica, abituale, acquisita, inconscia, quella competenza relazionale che all’inizio può solo essere pensata consciamente. Una logica di mera conoscenza—in realtà non è mai stata solo tale, ma è vero che anche l’esperienza della relazione analitica (il cosiddetto transfert) alla fine è sempre stata messa al servizio della conoscenza del passato reale del paziente e della ricostruzione storica—lascia il campo, per dirla con la parola che usa Freud alla fine de Il disagio di civiltà alla logica della Liebe. Come si vede, per la psicoanalisi ripensare la teoria anche alla luce dell’estetica del sublime, e quindi avere le idee più chiare su cosa vuol dire parlare di costituzione estetica (nel senso di basata sulle sensazioni) e sociale del soggetto, implica di rinnovare le sue concezioni dell’inconscio, del sogno, del pensiero e della tecnica. Il passaggio essenziale è a mio avviso abbandonare una psicoanalisi da scuola del sospetto (Ricoeur). Occorre superare una modalità di ascoltare l’inconscio basata su una scissione io/tu, su chi fa cosa a chi consciamente e inconsciamente. Quel che per me più conta è invece cogliere la dimensione terza o radicalmente intersoggettiva in cui nella costruzione inconscia del significato si vede all’opera il ‘noi’. Ipotizzare che all’opera vi sia sempre il noi inconscio nel determinare i fatti dell’analisi, mi permette di riconoscere nel ‘noi’ anche l’altro come separato e di rischiare meno di assumere atteggiamenti insidiosamente ideologici. Il cuore del processo analitico diventa, come si vede chiaramente raffigurata in chiave allegorica nei dipinti classici del periodo romantico (Turner, Friedrich) la giusta distanza. La giusta distanza è quella che permette di realizzare una felice dialettica di identità e differenza. Nell’arte questa ‘felicità’ sta proprio nel piacere che ne ricaviamo. Ma questo piacere è sempre negativo, ha sempre a che fare con l’arricchimento personale che nasce dalla possibilità intrinsecamente sociale di sognare l’angoscia e di trasformarla. È da questa trasformazione che per esempio, come dice Freud in Al di là del principio di piacere, ricaviamo paradossalmente un “alto godimento” anche dall’assistere alla tragedia. In realtà, in primo luogo, non assistiamo mai solo alla tragedia di Antigone o di Edipo, ma alla nostra; in secondo luogo, non è più per niente una tragedia, ma quello che potremmo definire il miracolo della forma.
– Tra le varie opere che lei prende in esame ve ne è una che, per la sua descrizione colpisce in modo diretto e profondo. Mi riferisco a Can’t help myself di Sun Yuan e Peng Yu. Perché l’ha scelta?
Come spiego nel libro, il criterio che mi sono dato nello scegliere gli esempi di opere d’arte contemporanee che mi sembrano possano più facilmente rientrare in un discorso sul sublime, è di partire dall’esperienza vissuta in prima persona. Sono opere che mi hanno stupito o commosso o divertito o fatto pensare quando ho avuto l’occasione di vederle in occasione di mostre nel corso degli anni. Questa è anche una presa di posizione teoretica, non una scelta dettata dal caso. In tutto il mio discorso è essenziale proprio l’aspetto propriamente estetico dell’affettività e della corporeità. È come se dentro queste opere e questi autori mi avessero lasciato qualcosa che continuava a interrogarmi e dunque mi sollecitava a pensare, ma, appunto, portando sempre con me il ricordo del senso di meraviglia e di gratitudine provati nel momento della scoperta. All’istallazione di Sun Yuan e Peng Yu nell’ultima Biennale di Venezia è stato dato uno spazio importante, e a mio giudizio meritatissimo. L’ho scelta per l’impressione che mi ha fatto e perché mi pare un ottimo esempio di sublime contemporaneo. Ma la ‘risonanza’ (devo a Vera Minazzi questa interpretazione; io nel libro penso più in termini di ‘trasposizione’) che più continua a commuovermi è tra la macchina infernale ma anche così umana e l’immagine dello spettacolo di Pita tratto dalla Metamorfosi di Kafka. L’arte attiva potentemente in noi una funzione immaginativa, onirica ed ermeneutica. Nei casi più fortunati lo spazio onirico dà spessore e profondità alle cose. Attivando un gioco di risonanze o trasposizioni ci mette in contatto con un qualcosa che sentiamo come vero e reale, e noi con esso. Può sembrare assurdo rispecchiarsi in un braccio meccanico automatizzato che ossessivamente e disperatamente spazza via un liquido scuro come sangue dal pavimento. Ma dopotutto non è che il linguaggio dei sogni. Gioco, divertimento stupore, sorpresa, potenza espressiva, ironia: giri attorno all’istallazione come attorno a un oggetto mostruoso e insieme affascinante e ti senti pervaso da tutta una gamma di sensazioni. Ma l’oggetto assolutamente nuovo, come appena sbarcato da un altro pianeta, è ovviamente quello da sempre conosciuto ma non pensato. Un’analogia simile è quello che si trova nel libro tra l’immagine degli alieni di Arrival di Villeneuve e quella del ragazzino che allunga la mano per toccare il volto ingigantito e in dissolvenza della madre in Persona di Bergman.
– Lei mette in evidenza come il sublime sia qualcosa dalla quale non ci si può avvicinarsi troppo e nemmeno allontanarsi. Sembrerebbe, ai nostri occhi un qualcosa che ci impone una sorta di campo gravitazionale. È così? E quali rapporti con la psiche?
La situazione-prototipo dell’estetica del sublime prevede uno spettatore che assiste a uno spettacolo umano o di natura che per contenuto e dimensioni sia spaventa sia attrae. Mari di ghiaccio, tormente, vulcani in eruzione, rovine monumentali, deserti, gole, cime montuose, ma anche naufragi oppure, come nell’esempio dell’Anonimo del Sublime, il silenzio di Aiace nell’Ade. La domanda è: come mai qualcosa che dovrebbe solo indurre a darsela a gambe, finisce invece per incantare? La spiegazione di Kant, ossia la capacità della ragione umana di andare con il pensiero al di là dei limiti che la natura imporrebbe, non mi convince per niente perché troppo astratta. Ciò che affascina non è l’orrore di per sé ma l’orrore che viene redento dalla forma, vale a dire il piacere estetico che si prova al contatto con la bellezza. Naturalmente dal punto di vista della psicologia non possiamo accontentarci di intendere la forma solo come perfezione di colori, linee, suoni, volumi ecc. Dobbiamo farci un’idea del perché la bellezza è necessaria alla vita; o del perché, come dice Keats, è ‘verità’. Di che verità parliamo? Io penso che parliamo di qualcosa che ha anche fare con il riconoscimento, l’at-one-ment, l’essere all’unisono; con una specie di ‘conversazione felice’ con l’altro che coincide con il processo di soggettivazione o del diventare persona. In effetti, se torniamo a dove eravamo partiti, cioè a Bion, una delle idee-guida del suo pensiero è proprio che la verità, non intesa in senso metafisico o positivistico, cioè assoluto, sia proprio l’unisono emotivo; o meglio, l’unisono emotivo è la verità che nutre la mente. Mi pare un concetto molto attuale di verità come intrinsecamente pragmatica e sociale. Non solo, è anche un concetto di verità non scisso, non intellettualistico, ma che invece contempla quella che Heidegger chiamerebbe la nostra apertura emotiva al mondo. Non c’è verità che non si fondi anche su una tonalità emotiva. Se veniamo alla clinica, chiunque chiede una cura a causa di una forma di sofferenza psichica ha sofferto di una di due forme opposte e coincidenti di assenza dell’oggetto: o è stato abbandonato, materialmente o in senso figurato, cioè emotivamente (non è stato investito); oppure è stato invaso o intruso dall’oggetto. Si tratta appunto di due forme diverse di ‘assenza’ ma che coincidono nel fatto di generare un clima di persecuzione che non facilita lo sviluppo e l’integrazione personale. Diciamo allora che l’analista è un po’ come il pittore che deve rendere pensabile lo spavento e trasformarlo in esperienza estetica–mai da intendersi come qualcosa di superficiale, nel senso di ‘estetizzante’, ma invece come la quintessenza di ciò che ci rende umani. Si capisce che la psicoanalisi è una disciplina ermeneutica e non una scienza al modo delle scienze della materia, e che ha il pensiero speculativo come interlocutore privilegiato. Al tempo stesso, per l’originalità dello Junktim freudiano, ossia la congiunzione di teoria e pratica, può aspirare, su questo ‘umano’, a dire qualcosa che nessun’altra disciplina può dire allo stesso modo.
– Veniamo, infine, al rapporto tra il sublime e il nulla. Il sublime, lei scrive, ci svela l’immanenza del nulla in tutte le cose. Ci aiuti a comprendere meglio questa suggestiva posizione.
Se ci sembra sensato ipotizzare che la teoria estetica del sublime sia una maniera indiretta di teorizzare come nasce la psiche; e se ci pare ragionevole vedere nell’arte ispirata al sublime una maniera allegorica di proseguire in questa teorizzazione, cui pertanto riconosciamo una particolare qualità “metanarrativa”—voglio dire che non le appartiene in maniera esclusiva, poiché in fin dei conti qualsiasi forma d’arte non può che rispondere agli stessi principi, anche quella che appare come “semplicemente” bella o piacevole – ne discende che ciò con cui abbiamo a che fare è l’origine della simbolizzazione. Da un punto di vista psicoanalitico l’elemento primo della simbolizzazione lo potremmo ravvisare nella sensazione tattile ‘puntiforme’ che si genera nel contatto ‘felice’, ossia che genera ordine, tra bocca del bambino e capezzolo, oppure tra guancia e seno. Quando le cose vanno bene, lì nasce una forma che contiene l’angoscia, e che diventa il prototipo di altre forme, sempre più complesse che sedimenteranno in strutture della psiche. Si capisce che da subito la psiche è intersoggettiva e che l’affrontamento tattile su descritto tra madre e bambino non è che il prototipo di qualsiasi modalità successiva di riconoscimento reciproco. Quel che conta è vedere non il bambino come entità isolata, bensì come preso da subito a costituire un sistema o campo. Se frammentiamo questo gruppo di due negli elementi di partenza non capiamo più come ne possano emergere progressivamente delle proprietà specifiche. Ora, che succede quando si crea questa felice conversazione ‘sensoriale—ma pur sempre immersa in un contesto simbolico, visto che, anche se il bambino è ‘infans’, la madre invece, perlomeno indirettamente, porta nella relazione la cultura e la socialità? Succede che ovviamente la cosa non può durare. Immediatamente la sensazione svanisce. Ne resta il ricordo. Il ricordo, a questo livello ovviamente procedurale o implicito, è la sensazione puntiforme che inizia a trasformarsi in un qualcosa che sta per qualcos’altro—e che poi diventerà il punto grafico, la linea, la lettera dell’alfabeto, ecc. La simbolizzazione nasce cioè dall’assenza; o meglio, dall’assenza che è tollerabile. Cosa rende l’assenza tollerabile? Il fatto che non duri troppo. Se dura troppo, il non-seno, ovvero l’assenza tollerabile, o anche la presenza interna (e in questo simbolica) rappresentata dalla traccia mnestica dell’esperienza di gratificazione inizia a diventare angoscia e poi “terrore senza nome”. A questo punto la via alla psicosi è aperta. Dovremmo dunque convenzionalmente differenziare il ni-ente o non-cosa o non-seno, da cui nasce il pensiero, dal nulla (in inglese noughtness) come invece la cancellazione totale della traccia, e con essa della capacità di rappresentare. Come hanno da sempre detto benissimo i filosofi, il negativo ci abita sin nelle fibre più intime del nostro essere. Ciò che sperimentiamo come consapevolezza del sé e senso di agency non è che la fotografia ormai sviluppata e stampata della negativa che ne è il presupposto necessario. Tutti corriamo sempre il rischio di sprofondare dalla non-cosa nel nulla—naturalmente non è una questione tutto o niente. Riferendoci ancora una volta alla pittura, sarebbe come cadere nel ghiacciaio, annegare in mare come Leandro, ecc., oppure, a rovescio, non avere idea dell’esistenza di paesaggi che risvegliano il nostro senso di meraviglia e, come ha scritto qualcuno, ci permettono di “sognarci nell’esistenza”.
Giuseppe Civitarese
L’ora della nascita
Psicoanalisi del sublime e arte contemporanea
Jaca Book, 2020