di Giacomo Dallari
Possiamo affermare che il ricordo e la memoria siano atti esclusivamente privati? In altre parole, è opportuno asserire che, siccome il ricordo è nostro, allora non appartiene a nessun altro e non include nessun altro?
Il ricordo, innegabilmente, appartiene all’individuo che lo possiede e per certi versi lo costruisce e lo ri-costruisce. In questo caso è un fatto privato che emerge da un preciso passato, scandito da eventi ed esperienze personali. Il ricordo che ognuno di noi ha della propria infanzia, per esempio, è un complesso sistema di sensazioni e di interpretazioni nel quale le esperienze si combinano tra loro, assumendo forme a volte contraddittorie e significati che possono mutare continuamente, costringendoci ad una rilettura dei suoi contenuti. Quante volte, nel momento in cui ripensiamo ad un fatto avvenuto nel passato, esso assume un significato diverso in relazione allo stato d’animo che abbiamo nel momento in cui riemerge o in relazioni ad un evento che nel frattempo è accaduto e che ha modificato la nostra percezione della vita e il nostro approccio alla realtà. In ogni caso, esso appare comunque come un qualcosa che riguarda unicamente la nostra persona e la nostra soggettività più profonda.
Gli esseri umani, però, sembrano mostrare una connaturata inclinazione a socializzare i propri ricordi. Se il ricordo è, prima di ogni altra cosa, una narrazione di qualcosa a noi stessi, esso è anche una narrazione agli altri. L’atto di narrare qualcosa agli altri prefigura sempre una reciprocità e una complicità tra noi e i diversi destinatari. Di conseguenza, ciò che noi di volta in volta raccontiamo, non è sempre lo stesso racconto, ma muta in relazione agli interlocutori con i quali ci confrontiamo.
La specificità della nostra natura ci conduce ad una sorta di presunto paradosso: nel ricordare qualcosa del nostro passato, siamo contemporaneamente soggetti del nostro racconto e oggetti dei fatti narrati. La soggettività emerge nell’atto della selettività, cioè nel fatto che il coinvolgimento diretto e la non neutralità degli eventi, operano come una sorta di setaccio che filtra e blocca alcuni aspetti del nostro narrare: alcuni vengono ricordati e riferiti in modo assai fedele, altri vengono modificati anche in modo sostanziale, altri ancora vengono cancellati o rimossi. In altre parole, il ricordo tradisce sempre un atteggiamento di parte, un egocentrismo con il quale difendiamo la nostra identità nucleare da possibili incursioni esterne, adattiamo i contenuti ai diversi contesti in cui ci troviamo, stabiliamo nuove regole in relazione alla tipologia di rapporto che noi abbiamo con i nostri interlocutori.
In quanto oggetti del nostro narrare, però, siamo esposti alle contaminazioni esterne per cui ciò che riteniamo essere una auto-narrazione è, in realtà, una co-narrazione di significati per cui la nostra memoria è reciprocamente influenzata dalle memorie degli altri. In tal caso il ricordo diviene un fatto sociale, una rimembranza che potremmo definire comune e unitaria nella quale non è così semplice distinguere nettamente il ricordo di un episodio che abbiamo vissuto in prima persona, dalle interpretazioni che gli altri ci hanno fornito su di esso.
L’oggettività della memoria individuale si mostra nella sua caratterizzazione sociale e nella sua forza pragmatica nel momento in cui la nostra identità è chiamata a lottare fra il suo nucleo stabile e la molteplicità dei diversi ed eterogenei ruoli che ognuno di noi riveste nella propria vita. Pensiamo, ad esempio, ai ruoli naturali come quello di padre, madre, figlio o a quelli caratterizzati socialmente come, ad esempio, quello di avvocato, insegnante, operaio e a quelli culturali che ci caratterizzano come italiano, europeo, cattolico o musulmano.
L’identità deriva quindi dalle scelte, consapevoli o meno, che una persona fa all’interno di un sistema che si va strutturando nel tempo e, soprattutto, in funzione degli altri. E tali scelte sono la risultante di un processo nel quale la memoria ricopre un ruolo dominante e funzionale. Nel rapporto fra memoria e identità non va quindi sottovalutato il fatto che nel corso della nostra esistenza ricopriamo ruoli differenti, abbiamo cioè molte identità dissimili, ausiliarie e aggiuntive e, in definitiva, possediamo diverse memorie di noi stessi.
La memoria, e con essa le memorie che ci portiamo dietro e condividiamo con gli altri, sono lo strumento con cui decifriamo il mondo, diamo significati agli eventi e con cui costruiamo e ri-costruiamo ruoli e relazioni. Se così non fosse, il tempo vissuto avrebbe una semplice natura lineare e sommativa e la nostra esistenza sarebbe un banale susseguirsi di fatti disgiunti gli uni dagli altri, chiusi nella loro unica dimensione spaziale e temporale.
Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, potremmo affermare che l’Io e il Mondo, nella loro più radicale concettualizzazione, non siano affatto dati di realtà, così come l’immediatezza potrebbe suggerirci, ma siano costrutti della memoria. Noi, infatti, non potremmo dichiarare la nostra identità, definirla come Io, se non avessimo la possibilità di riconoscere come “nostri” comportamenti, pensieri e sentimenti che ci appartengono intimamente. Contemporaneamente, però, non potremmo neppure riconoscere il mondo se il ricordo non ci fornisse quelle basi solide sulle quali erigiamo relazioni fra gli oggetti, incaselliamo eventi e situazioni che altrimenti ci apparirebbero costantemente nuovi e sconnessi, simili ad apparizioni rapide e discontinue. La realtà, dunque, nasce dalla memoria.
«Io voglio più vita …» dirà il replicante Roy Batty, protagonista dell’indimenticabile Blade Runner del 1982, a suo padre poco prima di ucciderlo. Quando il replicante comincia a dubitare della propria natura umana chiede al suo “progettista” di dotarlo di vita, cioè di ricordi reali, realmente vissuti, come se la sua natura robotica e meccanica non fosse in grado di provare nostalgia per un passato che, seppur vissuto, sembra non appartenergli. La vita è dunque fatta di ricordi, di memorie concentriche che danno forma all’identità, la vivificano al punto che la mancanza di ricordi può essere considerata al pari della morte.
Molto spesso, nella nostra personale autobiografia, l’aspetto più importante non riguarda la verosimiglianza dei nostri ricordi con la realtà e non ha una grande importanza se il nostro racconto sia più o meno conforme ai fatti, così come sono realmente accaduti, ma riguarda ciò che ricordiamo di aver fatto, le motivazioni che ci hanno spinto ad agire, piuttosto che le azioni stesse; le situazioni nelle quali abbiamo scelto determinati comportamenti, piuttosto che i comportamenti stessi, cioè il “che cosa” abbiamo fatto; il tessuto relazionale sul quale abbiamo agito, piuttosto che il semplice rapporto con questa o con quella persona.
Il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come siano state effettivamente e la memoria cessa di essere un qualcosa per divenire un luogo, uno spazio che veicola nuovamente la realtà e, tramite essa, emozioni e sensazioni che non saranno mai identiche a se stesse. Nessuna autobiografia sarà mai realmente completa, ogni nuovo “capitolo”, infatti, apporterà delle modifiche a quelli precedenti e influenzerà quelli successivi.
È in questo che, con ogni probabilità, risiede il grande segreto dell’immaginazione. Essa non è altro che una forma di memoria modificata, dilatata e ri-adattata. Le possibilità che l’immaginazione apre al nostro personale racconto non sono aspetti completamente distaccati da ciò che noi recuperiamo dall’esperienza. Essa ri-trova informazioni dal mondo con il quale ha un rapporto diretto e bidirezionale: l’immaginazione recupera informazioni dalla realtà, crea nuove combinazioni e restituisce l’immagine modificata del mondo. Non deve spaventare il fatto che l’immaginazione, al contrario di altre nostre abilità cognitive, non possa essere considerata una vera e propria facoltà intellettiva. Essa, più che altro, simula e in un certo senso si “burla” di tutte le nostre facoltà superiori come la percezione, l’attenzione, la memoria e il ricordo senza per questo essere meno importante o meno produttiva per la nostra esistenza. La potenza dell’immaginazione è data dal fatto che essa è strettamente connessa alla memoria al punto che potremmo dire che è un aspetto della memoria e, come ci ricorda Stanley Cavell, «è una misera idea della fantasia quella che la considera un mondo a parte rispetto alla realtà, un mondo che mostra chiaramente la propria irrealtà. La fantasia è precisamente ciò con cui può essere confusa la realtà. È attraverso la fantasia che viene stabilito il valore della realtà. Rinunciare alle nostre fantasie sarebbe rinunciare al nostro contatto con il mondo»[1].
[1] S.Cavell, The World Viewed: Reflections on the Ontology of Film, Harvard University Press, Cambridge,1971, p.102 (trad).