di Vinicio Pacca
Quando Svevo pubblica La coscienza di Zeno presso l’editore bolognese Cappelli, nel maggio 1923, l’accoglienza di pubblico e critica non è dissimile da quella toccata ai primi due romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898): un silenzio pressoché totale, almeno al di fuori di Trieste. Ma questa volta lo scrittore non si rassegna: dopo un quarto di secolo ha ormai sviluppato una piena consapevolezza del proprio valore; e l’amicizia con James Joyce, che prima della guerra gli aveva impartito lezioni di inglese a Trieste, che a partire dal 1920 si era stabilito a Parigi e che nel 1922 aveva pubblicato Ulysses raggiungendo fama internazionale, gli apre ora nuove prospettive. È dunque a lui che Svevo sottopone il romanzo, ricevendo nella lettera del 30 gennaio 1924 parole di incoraggiamento (“Sto leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il Suo migliore libro”) e soprattutto una concreta offerta di aiuto consistente nell’invito a mandarne copie a Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Thomas Stearns Eliot e Ford Madox Ford, che Joyce promette di contattare. Nelle successive lettere di Joyce a Svevo possiamo seguire l’evoluzione della vicenda: il 20 febbraio gli comunica di aver preparato l’accoglienza da parte dei due critici francesi (“Mandi i libri senz’altro. Ho già parlato di Lei a Larbaud ed a Crémieux”) e il 1° aprile registra le prime reazioni positive (“Buone notizie. M. Valery Larbaud ha letto il Suo romanzo. Gli piace molto. Ne scriverà una recensione nella «Nouvelle Revue Française»”).[1] La macchina messa in moto da Joyce, sia pure con qualche ritardo, produce i suoi effetti: un anno dopo, l’11 gennaio 1925, Larbaud scrive a Svevo una lettera altamente elogiativa (“ho fatto tutto quello che ho potuto per fare conoscere in Francia questo libro ammirevole”) e annuncia di volersi occupare della sua opera;[2] e infatti il fascicolo di “Le Navire d’Argent” del febbraio 1926 contiene la traduzione di alcuni passi di Senilità e della Coscienza, accompagnati da un saggio di Crémieux.[3]
Nel frattempo, però, qualcosa si era mosso anche in Italia grazie a un amico triestino di Svevo, Roberto (Bobi) Bazlen, trasferitosi a Genova e qui entrato in rapporti con Montale, che in sede di commemorazione postuma rievocherà la loro amicizia in questi termini:
Quando venne a trovarmi, nell’inverno ’23-’24, mandatomi non so da chi, egli fu per me una finestra spalancata su un mondo nuovo. Ci vedevamo ogni giorno in un caffè sotterraneo presso il Teatro Carlo Felice di Genova. Mi parlò di Svevo, facendomi poi pervenire i tre romanzi dell’autore stesso; mi fece conoscere molte pagine di Kafka, di Musil (il teatro) e di Altenberg. Conoscevo già la poesia di Saba, ma Bobi mi rivelò anche Giotti, Bolaffio e, più tardi, Carmelich. Di mio, aggiunsi alla lista Benco, Stuparich e, anni dopo, Quarantotti Gambini.[4]
Effettivamente in questi anni Bazlen, letterato irregolare dotato di una straordinaria capacità di disseminare spore di cultura, assume per Montale un ruolo di mentore, dando norma ai suoi gusti in fatto di letteratura mitteleuropea: lo si può vedere con chiarezza nel caso del narratore sloveno Ivan Cankar, a proposito del cui racconto Il servo Bortolo e il suo diritto suggerisce nella lettera del 5 maggio 1925 una formula interpretativa (“È, come purezza di linea epica, una delle cose più perfette che conosca. Vorrei leggere una tua critica in una rivista decente”)[5] diligentemente ripresa da Montale in sede di recensione (“non ci sembra di poter definire altrimenti [scil. il racconto] che riferendoci ai caratteri dell’epica vera e propria”).[6]
Per quanto riguarda Svevo, l’epistolario conferma puntualmente l’attivismo di Bazlen, che a più riprese sollecita Montale a interessarsene, non rinunciando neanche questa volta a indirizzarlo nella ricezione critica:
Mi ho fatto dare, da Italo Svevo, i suoi due primi libri: dimmi se devo mandarteli a Monterosso, o pure a Genova. Il secondo libro: “Senilità”, è un vero capolavoro, e l’unico romanzo moderno che abbia l’Italia (pubblicato nel 1898!). Stile tremendo! Te ne scriverò, più a lungo, quando l’avrai letto. […] Hai letto “la coscienza di Zeno”? Devi superare le prime 200 pagine, che sono piuttosto noiose. [1° settembre 1925]
Domani ti manderò i primi due libri di Svevo; me li ha dati l’autore, per te, e te li potrai tenere. Il terzo (Zeno) pel momento non te lo posso mandare, e, se non l’avrai ricevuto, o trovato da qualche libraio, quando avrai letto questi due, te lo manderò. [6 settembre 1925]
Che impressione ti ha fatto “Senilità”? (Il primo romanzo: Una vita, non l’ho ancora letto). [10 settembre 1925]
“Senilità”, per Somaré, a tua disposizione. Devo mandarla a Genova, o, direttamente a Milano? In questo secondo caso, mandami il suo indirizzo. – Ho letto, finalmente, tutta “coscienza di Zeno” di cui non conoscevo che poche pagine. Mi è sembrata infinitamente superiore a Senilità; ti avverto che non è autobiografica che in piccola parte, e ti consiglio di guardarla, p. es., sub specie bovarismi. [16 novembre 1925]
Il risultato immediato di questi scambi è il primo dei contributi sveviani di Montale, Omaggio a Italo Svevo, apparso sulla rivista milanese “L’Esame” di novembre-dicembre 1925: Svevo ne ringrazia Montale in una lettera del 17 febbraio 1926, confermando l’impressione di Bazlen sulla Coscienza (“pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità”)[7].
La prima fortuna critica della Coscienza, giova sottolinearlo, procede dunque su due linee distinte e autonome: una linea francese, che arriva a Larbaud e Crémieux tramite Joyce, e una linea italiana, che arriva a Montale tramite Bazlen; la prima si muove più precocemente, la seconda più rapidamente. Proprio questa tempestività appare sospetta a Carlo Linati, che nel velenoso attacco di un articolo del 1928 insinua essere dovuta all’intenzione di ottenere una facile visibilità da parte di Montale:
Due anni fa, trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovine scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso il celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui della letteratura italiana moderna, gli aveva detto:
“Ma voialtri italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete”.
“Quale?”.
“Italo Svevo, triestino”.
Il giovine rimase mutolo poiché quel nome non gli era mai passato neanche per l’anticamera del cervello. E si volse a noi sperando ne sapessimo qualcosa di più.
No, nessuno di noi aveva mai udito un tal nome e uno di noi corse subito alla vasta biblioteca del Circolo nella speranza di rintracciare qualche libro dell’illustre Carneade; ma ne ritornò deluso.
Il fatto però di essere stato elogiato dal Joyce e un poco anche nella fiducia di scoprire all’Italia qualche nuovo grande scrittore, il che è sempre una cosa piacevole, indusse il direttore del Club a ricercare per mare e per terra i libri dello Svevo. Ma la ricerca fu difficile e infruttuosa. In tutta Milano non si trovò una sol copia dei suoi libri. Ed ecco che finalmente, passato qualche mese, un altro giovine capitò al Club con una copia sgualcita di Senilità sotto il braccio, da lui ottenuta in prestito, dopo grandi difficoltà, da un suo amico studioso di Trieste. Ora la copia c’era ma non c’era nel giovine la buona volontà di farcela leggere. Geloso come tutti gli scopritori di rarità e fiutando una prelibata rivelazione, egli s’era tenuta la copia per sé, e poi aveva scritto intorno allo Svevo un articolo sull’“Esame” di Somaré.
Lo scopritore era Eugenio Montale, poeta e critico di squisita sensibilità; e fu così che attraverso la sua prosa vibrante lo Svevo ebbe, ancorché umile e forse troppo entusiasta, la sua prima e vera consacrazione di romanziere italiano.[8]
Non è dato sapere quanti abbiano letto a suo tempo l’articolo di Linati, ma è pressoché certo che un pubblico di gran lunga più numeroso abbiano avuto nel dopoguerra i Quaderni del carcere di Gramsci, nei quali si trova il paragrafo La “scoperta” di Italo Svevo, datato 1934:
Italo Svevo fu rivelato al pubblico dei letterati italiani da James Joyce, che lo aveva conosciuto personalmente a Trieste […]. Commemorando lo Svevo, la “Fiera Letteraria” sostenne che prima di questa rivelazione c’era stata la “scoperta” italiana: “In questi giorni parte della stampa italiana ha ripetuto l’errore della ‘scoperta francese’ […]; anche i maggiori giornali par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta che gli italiani colti furono per i primi informati dell’opera dello Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse sulle riviste l’‘Esame’ e il ‘Quindicinale’, lo scrittore triestino ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro; soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro omaggio all’amico scomparso”. […] Ma questa prosetta untuosa e gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma Carlo Linati, nella “Nuova Antologia” del 1° febbraio 1928 […]. Ecco come i letterati italiani hanno “scoperto” Svevo “fieramente”. […] In realtà questa gente si infischia della letteratura e della poesia, della cultura e dell’arte: esercita la professione di sacrestano letterario e nulla più.[9]
Va detto anzitutto che neanche Montale nasconde di aver voluto anticipare i francesi, per non dare l’impressione di muoversi sulla loro scia; lo riconosce nella commemorazione sveviana del 1928 Ultimo addio (introdotta dalla redazionale “prosetta untuosa e gesuitesca” che suscita il fastidio di Gramsci):
ci occorreva precedere di qualche tempo la “rivelazione” francese di Svevo, della quale da pochi giorni si anticipava l’annunzio da parte di gente bene informata. Se tale aiuto d’oltr’alpe non poteva che renderci lieti per i nomi più autorevoli dei nostri che tirava in giuoco, è certo che a noi sarebbe spiaciuto veder gabellare la nostra antica e motivata convinzione – per colpa di un ulteriore ritardo – quale uno dei troppi casi di grossolano retour de Paris.[10]
E tuttavia l’accusa di Linati, enormemente amplificata da Gramsci, troverà udienza ampia e duratura, al punto che Montale dovrà difendersene ancora nel 1951 scrivendo a Bruno Maier, che l’aveva riportata nel suo Profilo della critica su Italo Svevo (1892-1951):
non è vero, egli diceva, che “io – cattivo italiano! – mi precipitassi a cercar Senilità dopo che Linati ebbe incontrato Prezzolini… Il mio primo scritto su Svevo (novembre 1925) fu consegnato al Somaré qualche mese prima; fin dalla primavera del ’25 il triestino Roberto Bazlen mi aveva fatto mandare da Schmitz i suoi tre libri con dedica, che conservo; secondo il Bazlen i tre libri avevano valore più che altro documentario. Io seppi subito che Joyce apprezzava lo Svevo ma solo dopo seppi che quell’autore sarebbe stato lanciato in Francia: il che mi fece piacere, ma il mio scritto era già fatto…”.
Riguardo alla correzione ch’Ella gentilmente si offre di fare, io ci terrei che Ella rilevasse che l’errore è passato nel diario di carcere del Gramsci, a riprova dell’esterofilia e dello scarso patriottismo dei letterati italiani! Così la rettifica avrà doppio effetto. Forse Ella potrebbe condensare in una sola breve nota le sparse citazioni a me dedicate. In essa si dovrebbe chiarire che io non sono affatto (né mai ho preteso di esserlo) lo scopritore di Svevo, ma sono certamente il primo critico che ha scritto un saggio d’insieme su Svevo, saggio precedente all’articolo di Crémieux (il quale conosceva solo La coscienza di Zeno) e del tutto indipendente da questo. Linati afferma che Svevo giunse a Milano dopo il clamoroso lancio francese; che fu festeggiato da letterati e che io mi precipitai in biblioteca, scovai una copia di Senilità e scrissi il mio primo articolo… (stampato 4 mesi prima dell’apparizione del “Navire d’Argent”!!!). Smemorato com’era, scrivendo a distanza di molti anni, non ricordò che Svevo era comparso per la prima volta a Milano in veste di autore (coi relativi festeggiamenti) solo all’inizio della primavera del ’26, cioè quando ben due saggi miei su di lui erano già apparsi per le stampe.[11]
Ed espressioni analoghe si trovano nella prefazione montaliana al carteggio di Svevo con Larbaud, Crémieux e Marie Anne Comnène pubblicato nel 1953:
Antonio Gramsci, che si occupò di molte cose e che avrebbe amato Svevo se lo avesse letto, tenne d’occhio anche il “caso” e giudicò che il mio fosse stato un tardivo e pedissequo intervento, da “sacrestano” letterario. […] Ahimè! Egli si fidò di una notizia di Linati, ch’era l’uomo più smemorato del mondo. Quando avvenne il banchetto del Pen Club che secondo Linati mi avrebbe messo in ebullizione il mio saggio era scritto da un anno e pubblicato da qualche mese; né io né il Crémieux nascondemmo mai quanto dovevamo alle indicazioni (per me indirette) di un James Joyce.[12]
In realtà Montale, forse per attenuare la malignità del suo detrattore, confonde i tempi: Linati non scrive affatto “a distanza di molti anni”, e quindi le sue affermazioni non possono derivare da smemoratezza. La sua presunta ricostruzione della scoperta montaliana di Svevo mostra una cattiveria gratuita, considerando che i dati di fatto lo smentiscono. Il primo di essi è la lettera di Montale a Linati del 26 settembre 1925, dove le notizie su Svevo appena ricevute da Bazlen (che è chiaramente l’“amico studioso di Trieste” di cui parla Linati) vengono presentate come una novità ancora fresca: “Sa che ho scoperto un forte autore italiano contemporaneo che piace infinitamente a Joyce e a Larbaud, ed è affatto ignoto in Patria? Gliene parlerò presto”;[13] si noti fra l’altro che l’espressione “affatto ignoto in Patria” verrà ripresa quasi letteralmente in apertura sia dell’Omaggio a Italo Svevo (“ignorato affatto in patria”) sia della successiva Presentazione di Italo Svevo apparsa su “Il Quindicinale” del 30 gennaio 1926 (“ignoto affatto in patria”), in un curioso corto circuito fra lettere e articoli.[14] Quindi Montale mostra di non avere nulla da nascondere a Linati: anzi, è ben lieto di poter condividere la scoperta con lui. Ma non basta: è lo stesso Montale che più tardi, in una lettera del 24 agosto 1927, esorta Linati a recensire la Coscienza trattandone “a lungo […] senza chicaner sullo stile che talvolta è perfetto”;[15] dove peraltro si rileva un’eco mentale del giudizio di Bazlen su Senilità (“Stile tremendo!”). E infatti una settimana dopo, il 1° settembre, Linati scrive a Svevo, il cui indirizzo gli è stato comunicato da Montale quel giorno stesso, per ringraziarlo dell’invio di Senilità e per chiedergli informazioni e materiali (“ho bisogno di tuffarmi in un’atmosfera totale sveviana, per parlare con passabile proprietà di Lei e delle sue opere così intense”)[16]; e in una lettera del 15 novembre successivo lo incalza più da vicino, ponendogli una serie di domande puntuali (“Che traduzioni si sono fatte o sono in corso di Suoi libri? La cronologia esatta dei Suoi tre romanzi. Ha scritto altro? Conobbe l’opera di Alberto Cantoni? È oriundo tedesco? nato dove? quando? Come si occupò la stampa italiana dei Suoi romanzi e quando uscirono? I Suoi romanzi sono piuttosto autobiografici, no? Fu amico di Joyce e conobbe Freud?”):[17] il tutto in funzione dell’articolo che sta preparando e che, come sappiamo, uscirà sulla “Nuova Antologia” nel febbraio successivo.
Dunque, a quanto si può accertare, il coinvolgimento di Linati in questioni sveviane si deve interamente a Montale: tanto più sorprendente appare il suo improvviso voltafaccia. Va infatti ricordato che nella prima edizione di Ossi di seppia (1925) era dedicata a Linati la poesia Ciò che di me sapeste, originariamente intitolata Portovenere in omaggio al libro omonimo dell’amico (1910);[18] e che, secondo la testimonianza di Piero Gadda Conti, nell’estate 1926 o 1927 tutti e tre avevano compiuto una lunga escursione a piedi nelle Cinque Terre.[19] In seguito i rapporti fra Montale e Linati sembrano però guastarsi: l’articolo del 1928 ne è la dimostrazione lampante.
Bibliografia
G. A. Camerino, Svevo ambrosiano, anzi lumbard, in “Belfagor”, LII, 1997, pp. 202-4.
B. Moloney, Montale su Svevo, in “Aghios. Quaderni di studi sveviani”, 4, 2004, pp. 11-24.
C. Marasco, Lo scrittore e il suo critico: Italo Svevo ed Eugenio Montale, in “Filologia antica e moderna”, XIV, 2004, 26, pp. 137-57.
A. Saccone, Svevo secondo Montale, in L’ultimo Svevo. Raccolta di studi per il novantesimo della morte. A cura di A. Guidotti, Pisa University Press, Pisa 2019, pp. 7-20.
F. Nassi, Montale e il “signor Schmitz”: lettere e scritti su Svevo, in “R-EM. Rivista internazionale di studi su Eugenio Montale”, 1, 2020, pp. 175-95.
[1] Si cita da I. Svevo, Carteggio con James Joyce, Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Marie Anne Comnène, Eugenio Montale, Valerio Jahier, a cura di B. Maier, Dall’Oglio, Milano 1965, pp. 29-33. La data della seconda lettera, che nell’edizione è “20.11.924”, va sicuramente corretta intendendo “11” come “II”: cfr. S. Ticciati, Cinque lettere inedite di Italo Svevo a James Joyce (e una nuovamente edita), in “Nuova Rivista di Letteratura Italiana”, XXIV, 2021, 1, pp. 119-36: 122.
[2] I. Svevo, Carteggio… cit., pp. 47-48.
[3] Lo si può leggere in L. Svevo Fonda Savio – B. Maier, Italo Svevo, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, pp. 170-73.
[4] Ricordo di Roberto Bazlen (1965), in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, pp. 2727-30: 2728.
[5] Le lettere a Montale si citano da R. Bazlen, Scritti. Il capitano di lungo corso – Note senza testo – Lettere editoriali – Lettere a Montale, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1984, pp. 355-89.
[6] Un servo padrone (1925), in E. Montale, Il secondo mestiere… cit., pp. 63-70: 64.
[7] I. Svevo, Carteggio… cit., p. 144.
[8] C. Linati, Italo Svevo, romanziere, “Nuova Antologia”, 1° febbraio 1928; si cita da L. Svevo Fonda Savio – B. Maier, Italo Svevo… cit., pp. 200-9: 200-1. Come si vedrà subito, il “giovine scrittore tornato allora allora da Parigi” va identificato con Giuseppe Prezzolini.
[9] A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci. A cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 2240-41; una prima forma, intitolata I nipotini di Padre Bresciani. Italo Svevo e i letterati italiani e datata 1930, si trova alle pp. 380-81.
[10] E. Montale, Il secondo mestiere… cit., pp. 329-34: 330.
[11] Della prima lettera, datata 22 novembre, Maier riporta solo questo stralcio in L. Svevo Fonda Savio – B. Maier, Italo Svevo… cit., p. 210; la seconda, del 26 novembre, si trova alle pp. 211-14. La precisazione cronologica “fin dalla primavera del ’25”, confermata da L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito (stesura di L. Galli) con altri inediti di Italo Svevo, nuova edizione a cura di A. Pittoni, Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1958, p. 247 “[Bazlen] fece conoscere l’opera di Svevo a Montale e, dietro suo consiglio, Svevo inviò a Montale i suoi romanzi nel marzo del 1925”, è però in contrasto con le lettere di Bazlen citate sopra.
[12] E. Montale, Il secondo mestiere… cit., pp. 1488-89.
[13] Si cita da F. Roncoroni, Montale: “Grazie per la recensione dei miei Ossi”, “Corriere della Sera”, 19 giugno 1986. Dal testo introduttivo di Roncoroni si ricava anche la frase della lettera successiva, tuttora inedita nella sua interezza,
[14] E. Montale, Il secondo mestiere… cit., pp. 72 e 94 rispettivamente.
[15] La parola francese “chicaner” (‘cavillare’) è registrata da L. Bellomo, Anglicismi e francesismi rari nelle lettere di Montale. Un glossario, in “Giornale di storia della lingua italiana”, I, 2022, 1, pp. 91-127: 111.
[16] Si cita da M. Tortora, Svevo novelliere, Giardini, Pisa 2003, p. 164.
[17] Si cita da Lettere a Svevo. Diario di Elio Schmitz, a cura di B. Maier, Dall’Oglio, Milano 1973, p. 151, da leggere con le precisazioni di M. Tortora, Quattro lettere inedite di Italo Svevo, in “Filologia italiana”, 1, 2004, pp. 213-26: 217, n. 17. Non ci sono pervenute le risposte di Svevo, ma bisogna notare che nell’articolo di Linati tornano sia la definizione “oriundo tedesco” sia l’accostamento a Cantoni.
[18] C. Linati, Porto Venere. Immagini e fantasie marittime, a cura di A. Zollino, Nerosubianco, Cuneo 2009; la postfazione evidenzia alcuni possibili debiti lessicali di Montale nei confronti del libro.
[19] P. Gadda Conti, Montale nelle Cinque Terre (1926-1928), in Omaggio a Montale, a cura di S. Ramat, Mondadori, Milano 1966, pp. 407-17: 410-11.