EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Nel passato in quello specchio c’era stato di tutto

di Maria Bologna

 

In psicopatologia c’è un aspetto della costellazione narcisistica che ha a che vedere con il vissuto del tempo e con il tentativo di cristallizzare il passato come luogo di ogni inattingibile idealizzazione.

Il tempo con il suo carattere eracliteo ed irrevocabile è per definizione il luogo di tutte le angosce di cifra narcisistica. L’offesa del tempo, questa grande epifania della corruttibilità delle cose, si può considerare la matrice di tutte le più gravi insidie che assediano la struttura narcisistica.

In alcune configurazioni psicopatologiche la percezione unitaria delle dimensioni temporali fondata sul presente si frammenta. Come nella esperienza melanconica in cui il passato, la memoria ed il rimorso diventano le coordinate di un mondo della necessità, in cui la sofferenza è già stata decisa ed è dunque irrevocabile, immutabile, eterna. Il tempo che smette di scorrere genera l’idea della decomposizione, che contamina l’Io attraverso il paradigma del male e della colpa. L’oscuro e perturbante pozzo del passato e della memoria riflette allora un’immagine dell’Io irrimediabilmente imbruttita e macchiata dalla imperfezione, dalla perdita e dalla mancanza inemendabili.

Freud sottolinea come nella melanconia la perdita riguardi un oggetto-specchio, su cui si riflette la luce dell’Ideale dell’Io [1]. Una volta perduto l’oggetto, il rispecchiamento diviene il momento in cui ogni gradiente si azzera, il tempo si spazializza facendosi semplice distanza, la memoria prende corpo attraverso una immagine riflessa. Il passato in quanto tale diviene ipostasi della persecutività, dal momento che custodisce un’immagine idealizzata dell’Io, irraggiungibile ed immodificabile.

Non è un caso che nella lingua araba esista una distinzione tra due tempi verbali, il mudi che esprime il passato, il perfetto, il compiuto e il mudari ad esso subordinato, tempo della contingenza e dell’abitudine che esprime il presente e l’imperfetto; è in mudi che è narrata agli arabi spodestati la storia degli arabi trionfanti in un passato inteso come origine, fondamento perfetto, garanzia di eternità [2].

 Questa declinazione psicopatologica del narcisismo è magistralmente descritta in alcuni testi letterari, che anticipano qualsiasi definizione teorica. Come Il senso del passato, ultimo romanzo di Henry James rimasto incompiuto a causa dello spalancarsi dell’abisso di sangue ed oscurità provocato dalla Prima Guerra Mondiale e della malattia finale dell’Autore [3].

Il giovane protagonista, autore non a caso di un “Saggio sussidiario all’Interpretazione della Storia”, arriva dall’America nella vecchia Londra per prendere possesso di una casa ricevuta in eredità. In questa casa il passato promette di mantenere la propria immanenza soltanto per colui che sia dotato della sensibilità necessaria per decifrarla. Le generazioni l’hanno attraversata e vi hanno lasciato trame nascoste del loro passaggio.

Il giovane si ritrova allora padrone di una scena nella quale un capitolo oscuro di storia familiare può per suo intervento tornare alla luce, tocca ora a lui riscoprirne il senso attraverso un processo di iniziazione che è una sorta di viaggio a ritroso nel tempo.

Per temperamento egli è indifferente all’attuale ed al possibile, il suo interesse si concentra su quanto è già accaduto ed ha smesso finalmente di agitarsi, modificarsi, vivere. Sa che solo quando la vita è incorniciata dalla morte, allora il quadro sta realmente appeso. Ma per recuperare il momento perduto, “tastare il polso interrotto” del tempo è necessario tornare ad essere coscientemente la creatura che è esistita, respirare come essa aveva respirato e sentire la pressione che essa aveva sentito. In questo stato di coscienza quasi dissociativo il presente si fa “cospicua assenza” ed il protagonista si trasforma nel prigioniero ammaliato di un ineffabile genius loci.

L’atto di donazione gli si rivela pian piano così nobile, così privo di condizioni e compiuto da somigliare ad un raggiro. Varcando verso il passato la soglia del tempo, insieme alla fascinazione egli avverte presto una percezione di minaccia e ripugnanza, durante le contemplazioni clandestine e notturne della buia facciata l’essenza stessa dell’estasi finisce con il confondersi con una certa profondità di apprensione.

Ma il punto di non ritorno è ormai superato. Sulla soglia della casa egli si lascia alle spalle il presente ed inizia una pericolosa risalita del corso del tempo fino a “bagnarsi nelle acque superiori e più naturali, ad arrischiarsi addirittura a berne”, come nella vertigine di un tuffo; scala l’alto muro dove gli anni susseguentisi si ammassano alle sue spalle, si affaccia a scrutare con l’occhio del senso nell’interno, quando non fosse più esatto dire dall’interno, del vasto cortile della prigione.

In questa progressiva caduta nella spirale di un assedio persecutorio, lo sguardo dei ritratti virili alle pareti gli sembra seguire ogni suo spostamento nella stanza. Tra tutti il singolare ritratto di un uomo di spalle cattura la sua attenzione. Che sia lì giusto per ingannarlo? E’ l’insidia che si impadronisce di lui.

Si insinua in quel momento il dubbio che questo atteggiamento possa cambiare, anzi si afferma la certezza che sia probabilmente, che sia ripetutamente già cambiato. Quel ritratto di spalle cela una scommessa, uno scherzo, una particolare vanità o dissimula piuttosto una deformità o una identità compromessa? E si volterà ancora non appena egli uscirà dalla stanza?

Vani sono i tentativi di cogliere sul fatto l’abitatore segreto della casa nell’atto di voltarsi. Sembra vivere per imbrogliarlo, giovane, cavalleresco e generoso. In realtà, l’affronto maggiore l’uomo del ritratto glielo infligge fissando lo sguardo in un mondo suo proprio, laggiù nel buio fondale del tempo che solo ai suoi occhi disvela una oscurità, che tanto attira ed insieme sfugge il protagonista.

Una notte nel buio della casa, dopo l’impressione fugace del riflesso di una candela, accade il miracolo atteso ed insieme temuto, la figura del quadro si gira ed egli vede finalmente venirgli incontro l’uomo del ritratto, quello che gli era sembrato un riflesso era in realtà un’altra candela. L’agnizione apofanica si compie, i movimenti del giovane dai capelli bruni, pallido, eretto con la giacca blu scuro dall’alto collare sono speculari ai suoi e con sgomento egli deve riconoscere il proprio volto nel volto dell’altro.

Da questo momento in poi la scelta iniziale di tuffarsi deliberatamente nell’abisso del passato diviene una condanna, l’altro incombe e lo minaccia beffandosi di lui per averlo truffato del presente. “Un gelo, una paura, la crescita della disperazione e del terrore gli calano addosso e significano in certo modo che deve cominciare a sentirsi perduto (…). E’ come se quel tizio sentisse, conoscesse, indovinasse grazie a qualche mezzo incalcolabile, il suo indebolimento, mentre lui non corre neanche lontanamente il rischio di indebolirsi”, scrive James nelle note al testo.

L’identità si sgretola inesorabilmente, mentre il tempo privo di coordinate si spazializza in una distanza sempre più abissale che lo separa definitivamente dalla realtà. L’esplorazione di quel senso del passato, iniziata come ricerca affascinata delle cose perdute, lo fa sentire giunto al suo aleph sempre più dislocato, sconnesso, atterrito. “Ciò che è terribile, egli dopo un  po’ percepisce, è il sentirsi immerso, chiuso, perduto e dannato, in effetti oltre ogni salvezza”, in una discesa agli inferi che non consente nessun ritorno al salvifico presente.

Al di là delle intenzioni dell’Autore, che avrebbe voluto concludere la storia con un felice ritorno al presente ed al nuovo mondo, il romanzo è destinato a rimanere sintomaticamente incompiuto. La parabola del giovane ha toccato un punto di non ritorno, il viaggio a ritroso nel tempo si compie a patto di una irreversibile rottura del tempo lineare della ragione, che apre ad una esperienza di spaesamento e perplessità.

La vaga, oscura, angosciosa percezione del protagonista è legata al perpetuo ritorno dell’eguale nella forma del passato e del doppio speculare, che riemerge come mnemon narcisistico[1], che infiltra ed interrompe la continuità temporale ed incrina il senso di identità che ad essa è strettamente legato. Il passato, dapprima evocato ed anelato, esce dalla cornice temporale per materializzarsi in un doppio persecutorio, depositario di tutte le cose perdute, giovinezza, ricchezza, nobiltà.

Il ritorno del desiderio a tale perfezione un tempo familiare dà origine a quella che Freud definisce esperienza del perturbante [5], di ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto ed è invece affiorato. Benjamin la descrive con estrema sensibilità: “… Alcune cose ci colpiscono come un’eco, il cui suono originario sembri essere stato emesso in qualche oscuro recesso della vita anteriore”. Quasi mai si riesce ad afferrarne compiutamente il senso, rimane soltanto “… il presentimento che un giorno si ritroverà qualcosa di perduto” [6].

Non è un caso che il termine tedesco ‘perturbante’ (unheimlich) riconosca la stessa radice di ‘casa’ (heim) e che proprio alla casa si ricolleghi in una estrema ambiguità di senso sia la percezione di qualcosa che è familiare e piacevole che di qualcosa che è nascosto e segreto, da cui l’inquietudine e lo smarrimento.

In una prospettiva psicopatologica è possibile affermare che “… è inscritta nel narcisismo la possibilità di uno scacco definitivo, che coincide con la sua espressività psicotica; questa polarità estrema si può ipotizzare nella figura di un narcisismo irrimediabilmente ferito nell’incontro con il proprio Io narcisisticamente disinvestito e spogliato di ogni illusione, un Io che non amiamo e che, simmetricamente, non ci ama e che possiamo rintracciare nell’immagine mitica del gemello nemico o del sosia persecutore” [7].

O del demone, come nella esperienza riportata dal giovane F. che si fa testo clinico caratterizzato da una estrema curvatura psicotica.

 Vedere una deformazione della faccia… io li chiamo demoni. In passato li ho avuti e temuti, poi ne sono uscito, li ho cacciati via tutti, poi mi è risuccesso perché sono andato allo specchio in un certo modo. Quando vai lì non per rispecchiarti ma per un motivo non tanto buono, tipo sei arrabbiato e ti guardi allo specchio per sfogarti o sei depresso e ti guardi allo specchio, vedi la faccia che si aggrotta e come un diavolo su di te, ti vedi più arancione ed aggrottato e a vederti hai paura.

Ho cominciato quattro-cinque anni fa, avevo sedici-diciassette anni… Una volta mi è successo dal barbiere e ho visto tutto il volto deforme, come se si fosse mossa cioè spostata la bocca con il naso.

Ho avuto anche la sensazione come se fossi entrato di là dallo specchio e fossi rimasto dall’altro lato… non so se il corpo lo avevo lo stesso e mantenevo un contatto terreno o meno. La prima volta sono entrato, ma ho lasciato il corpo al di là ed è stato come se fossi bloccato nello specchio me, la mia persona, c’era solo il corpo fuori che vedeva un po’ tutto nero. La seconda sono entrato nello specchio come un pensiero, sono entrato ed ho proseguito come se dentro lo specchio ci fosse una strada, non ricordo se ho portato con me il corpo.

Da quattro mesi ho coperto lo specchio in camera mia con un telo… nel passato in quello specchio c’era stato di tutto, mi ero visto deformato, ero diventato un calciatore con le gambe gonfie e muscolose ed il petto in fuori… avevo un’aura nera intorno a me, che forse era la psicosi ma assumevo anche sostanze… mi ero visto scienziato, la testa mi si era ingrandita.

Era il periodo in cui facevo viaggi nel tempo.

 Nella esperienza di F. la crisi di identità implode nella psicosi attraverso il discoprimento di una irrimediabile ferita alla stima di sé nell’incontro col proprio Io mortalmente ferito nell’onore, depauperato e spogliato di ogni illusione. E’ il momento dell’incontro speculare con se stesso e del confronto fatale con la sua inguaribile imperfezione. Lo specchio rimane l’ultimo oggetto, l’ultimo medium che riflette e testimonia una vergogna ed un’imperfezione non più eludibili. Allora la figura che rimanda la superficie dello specchio si presenta come un sosia o un gemello avvolto nell’aura nera della psicosi.

E’ da questa incrinatura che emerge l’immagine del gemello nemico e lo specchio diviene il medium di una relazione col proprio Io carica di violenza e di morte, teatro di un duello implacabile col proprio sosia-nemico. Il doppio speculare si trasforma inevitabilmente in persecutore, testimone instancabile di una colpa o di una vergogna [8].

Poi sono incappato negli specchietti retrovisori e mi sono visto di profilo… mi sono accorto che basta la coda dell’occhio per assorbire qualcosa dallo specchio.

Assorbi esperienze brutte, non avevo il pieno controllo di me stesso, è come se una parte mi venisse sopra perché non avevo il controllo di me stesso… era invasivo. Ero fuori dalla macchina ad aspettare e mi sono guardato con la coda dell’occhio nello specchio… avevo avuto un episodio psicotico prima di… sentivo che mentre camminavo dentro me stesso c’era qualcosa di psicotico, nel petto… la testa vedeva un po’ ombreggiato, scuro ai lati del campo visivo… non è solo una cosa ottica, me la sento dentro.

Se ti guardi allo specchio e ti prendi su qualcosa, questo qualcosa alla fine riemerge.

In questa declinazione psicotica del narcisismo patologico la manovra controfobica del dimenticare, indispensabile per mantenere il passato entro definiti ed irreversibili confini temporali, fallisce. In una sorta di crampo mnestico la riemergenza del passato dà origine al suo eterno ritorno fino a generare le figure del demone persecutore e della vittima sacrificale.

Questa instabilità ed interscambiabilità dei ruoli rende ragione della contiguità del narcisismo con le dinamiche suicidiarie. Il suicidio sembra rappresentare infatti una sorta di inevitabile corto-circuito fra i due poli del rispecchiamento, perseguitato e persecutore finiscono per rendersi prigionieri a vicenda e confondersi nella stessa unica figura.

Il poeta George Trakl così esprime la latente persecutorietà del doppio speculare e del gemello nemico: “Dall’illusorio vuoto di uno specchio, /lento e incerto, /dal buio e dall’orrore/ emerge un volto: Caino! /Impercettibile fruscio della tenda, /alla finestra la luna guarda in un vuoto/ Io resto solo col mio assassino” [9].

Otto Rank analizza attraverso la letteratura ed il folclore il tema dell’autonomizzazione dell’alter ego speculare e la comparsa di un sosia, che può essere indifferentemente l’immagine speculare o l’ombra che improvvisamente prende corpo e perseguita il protagonista raggiungendo su di lui un dominio totale e incontrastato [10]. La storia si conclude spesso con un duello in cui il protagonista uccide il sosia per ritrovarsi ferito a morte.

Oppure accade che il sosia, come nel romanzo omonimo di Dostoevskij, catturi l’identità del protagonista fino a farlo impazzire comportandosi “… come uno specchio ustorio”: “Colui che ora stava seduto dirimpetto a Goljadkin era il terrore di Goljadkin, era la vergogna di Goljadkin, era l’ossessione di ieri di Goljadkin, era, in una parola, lo stesso Goljadkin” [11].

 

 

Bibliografia

[1] Freud S. Lutto e melanconia, in Opere vol. VIII, Torino, Boringhieri, 1915

[2] Miquel A. Un conte des  “Milles et une nuits”: “Ajib et Gharib”, Flammarion, Paris, 1977

[3] James E.  (1917) Il senso del passato, Milano, Garzanti, 1983

[4] Gernet L. Anthropologie de la Grece antique, Paris, Maspero, 1968

[5] Freud S. Il perturbante, in Opere vol. IX, Torino, Boringhieri, 1919

[6] Benjamin W. (1950) Infanzia berlinese, Torino, Einaudi, 1973

[7] Muscatello C.F., Scudellari P., Inglese S.F., Ravani C., Pardi G. Note per una fenomenologia delle personalità paranoicali. I parte: Le strategie controfobiche del narcisismo perverso, Rivista Sperimentale di Freniatria, 1985; CIX/V

[8 ] Girard R. (1972) La violenza ed il sacro, Milano, Adelphi, 1980

[9] Trakl G. (1919) Opere poetiche, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1963

[10] Rank O. (1914) Il doppio, Milano, SugarCo, 1979

[11] Dostoevskij F. (1865-1866) Il sosia, Milano, Garzanti, 1999

[1] Mnemon, colui che ricorda o colui che rammenta, era nella Grecia arcaica il servitore di un eroe, come Mnemone per Achille durante la guerra di Troia aveva il compito di ricordare un ordine divino la cui dimenticanza poteva procurare disgrazia o causare morte [4].

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