di Primavera Fisogni
- Tra selfie e Narciso
Con il termine selfie, parola anglo-americana[1] che mette radice in self (sé), si indica genericamente una fotografia ottenuta attraverso la modalità dell’auto scatto, per lo più mediante cellulari dotati di sistema touchscreen (smartphone) e specifica funzione fotografica. Benché non ci sia nulla di nuovo, da un certo punto di vista, in questo tipo di immagine, il selfie fa sembrare antichissimo – anche se parliamo di un passato recente – l’auto scatto delle macchine fotografiche tradizionali.
La rivoluzione digitale, specialmente a livello di telefonia mobile non ha soltanto consegnato a ognuno di noi una tecnologia o una somma di tecniche che aggiornano il nostro modo di operare, di aprirci al mondo della vita o di osservarne i fenomeni. A ben guardare, infatti, si sta verificando un riposizionamento delle linee fondamentali dell’antropologia[2], con risvolti di indubbio interesse per i filosofi e gli specialisti di scienze umane[3]. Il fenomeno dei selfie è probabilmente uno dei più macroscopici, non solo tenuto conto della viralità con cui esso si manifesta, contagiando mediamente chiunque possegga un cellulare o altri dispositivi fotografici, ma soprattutto per le implicazioni che il selfie solleva sul piano dell’identità personale e della relazione, non meno che per le implicazioni con il postumano, categoria di recente configurazione, riferita anche ai fenomeni di interazione uomo/macchina[4], a partire da quelli dell’universo digitale.
Il problema che questa ricerca intende portare alla luce è esprimibile nella domanda: il selfie è davvero una declinazione del narcisismo nell’epoca digitale? O siamo di fronte a una riformulazione delle costanti dell’Io, di quei due movimenti tipici dell’identità personale esprimibili nei termini dell’ 1) introflessione e 2) della relazione, entrambi alla base dei due paradigmi classici della conoscenza nel pensiero occidentale: 1) il principio di identità e 2) il principio di non contraddizione?
Dopo aver analizzato alcuni tratti emergenti del fenomeno selfie, potremo affermare che questo atto non è rivelativo di narcisismo patologico, anche se l’attitudine a ritrarsi denota compiacenza verso se stessi. L’autoritratto digitale costantemente rinvia alla relazione[5] e apre una finestra sui generis sul mondo della vita, benché l’operazione di “farsi un selfie” (espressione che rinvia a varie opzioni, come vedremo) avvalendosi di smarphone, iPad o iPod si realizzi principalmente nel continuum del soggetto agente con il mezzo digitale, oppure mediante strumenti meccanici che ne ricalcano la funzione, in una sorta di funzione protesica (l’asta). Nel contempo, alcuni aspetti appartenenti alla dinamica dell’auto scatto favoriscono la comprensione del disturbo narcisistico, in particolare dell’esperienza dell’innamoramento di sé. Come vedremo, in questo chiarimento diventa significativo il ruolo svolto dalla mancata distanza tra Io e Tu (soggetto e oggetto) nella simbolica di Narciso, che nell’autoritratto digitale si mantiene invece costante e incolmabile, nonostante chi scatta sia anche il termine stesso del selfie.
- Dentro e oltre lo sguardo
Inquadrare il selfie, in una prospettiva fenomenologica, significa anzitutto portarne alla luce i tratti essenziali, ovvero quelle caratteristiche del suo profilo non ulteriormente riducibili. Se mettiamo tra parentesi – così opera la riduzione – gli aspetti esteriori (il tipo di strumento con cui ci facciamo il selfie, il suo sistema operativo, il modello più o meno aggiornato, la tecnologia che lo supporta e altro ancora), ma pure la funzione (fare fotografie), arriviamo alla conclusione che lo specifico dell’auto-scatto consiste nel fissare un’immagine. Siamo dunque in presenza di un’operazione ben nota a ognuno di noi, che consiste nel volgere i nostro occhi verso un obiettivo, un termine, qualcosa che susciti attenzione. L’operazione attraverso lo strumento digitale è molto vicina all’azione – l’atto è qualcosa di eminentemente umano – del vedere, o meglio, del guardare. Perché vedere implica la funzione dell’occhio, organo della visione; il suo orientamento a qualcosa, esattamente quello che succede con il selfie, lo chiamiamo sguardo.
E qui occorre fermarci un po’, anche se in modo veloce, perché la comprensione di questa azione umana è decisiva per mettere a fuoco le implicazioni antropologiche del selfie, compresa la tentazione narcisistica.
Oltre a esprimere attenzione a qualcosa che ci interpella, lo sguardo porta il soggetto a incontrare il mondo, con uno slancio intenzionale[6]. Se tutto ciò che mi circonda lo posso vedere, l’occhiata a un articolo di giornale o a una persona che mi interessa è frutto di una decisione molto più articolata di quella di tenere aperti gli occhi. Fin dal suo nascere, il selfie dichiara la propria dimensione di sguardo: a sé stessi, al piatto che si consuma al ristorante, al gruppo di amici con cui si sta bene o con una personalità, il cui ingresso (seppur momentaneo) nella nostra esistenza va dichiarato. Se le cose stanno così, l’ipotesi che il selfie sia il trionfo del narcisismo, sul piano del senso comune, inizia a traballare. Perché? Per il fatto che ogni sguardo, autenticamente tale, essendo dotato di un’attitudine interpellante, porta l’Io a cercare, a instaurare (magari per sfuggire) la relazione con qualcosa o qualcuno altro da sé, un Tu. Persino un ritratto dipinto o fotografico mette in scena, di continuo, questa duplicazione.
Eppure lo sguardo del selfie possiede una peculiarità che non appartiene al ritratto e consiste nel doppio movimento che lo connota. Dapprima è rivolto a sé o al proprio mondo (es: il piatto che viene servito al ristorante, un topos ormai classico su Instagram o Facebook ), poi alla condivisione nei social network. Le due fasi sono così strettamente intrecciate che non possiamo parlare propriamente di selfie se non quando l’immagine auto-scattata viene vista anche da altri, condivisa, commentata. Tuttavia, il primo movimento, Io che guardo me stesso come se mi fossi estraneo, come un Tu, è anche quello decisivo per la sopravvivenza dell’immagine e per la sua facoltà interpellante. L’auto volgersi a noi stessi, mentre diamo gli ultimi ritocchi ai capelli o al trucco richiama l’atto cognitivo dell’auto coscienza: un ripiegamento in noi stessi di tipo dialogico, in cui diventiamo i primi interlocutori del nostro stare al mondo.
Un tale atteggiamento non ha nulla di patologico, anzi. Si tratta di una dinamica naturale, nel senso che è inscritta nelle prerogative dell’identità: nel momento in cui dico Io, in fondo mi ripiego su me stessa; questo volgersi al baricentro del proprio essere nel mondo rafforza, immediatamente, con l’identità (Io sono) anche la protensione all’alterità (Io sono questa; Io non sono quella).
I filosofi indicano nell’atto cognitivo dell’autocoscienza un argomento per l’esistenza dell’anima personale o della libertà del soggetto umano. L’auto riflessione marca la distanza del mondo degli animali non umani, le cui funzioni mnestiche sono plasmate per seguire l’istinto di sopravvivenza. In ambito psicologico, l’auto volgerci a noi origina una serie di atteggiamenti positivi, a partire da quell’amor proprio così cruciale per l’autostima e la vita buona, che nulla ha a che spartire con l’amore esclusivo verso di sé, in cui si esprime un tratto patologico del narcisismo[7].
II.1 Io che mi guardo/tu che mi guardi
Il selfie possiede una propria geometria piana, che va considerata prima ancora di occuparci della volumetria, vale a dire della sua profondità. Nei ritratti selfie il primo sguardo di chi viene fotografato è rivolto a se stesso. Il punto focale dell’obiettivo non è circoscritto come in una macchina fotografica tradizionale, ma più esteso, ampio quanto la superficie del cellulare o dell’iPad o dell’iPod. Questo ci dà l’impressione di avere più spazio per fissare il nostro volto. In realtà, la dimensione dell’immagine – il fatto che occupi lo schermo – non dipende da questo fattore spaziale, piano, legato all’estensione del supporto, quanto piuttosto dalla profondità della visione.
È infatti la distanza focale dall’obiettivo, mai superiore alla lunghezza di un braccio, al di sotto del metro, che forgia la morfologia del volto catturato dallo scatto. Spesso e per lo più, il viso consegnato dal selfie fornisce ulteriori dettagli del soggetto auto-fotografato, quali le spalle o parte delle braccia, dando vita a quel caratteristico fenomeno dell’individuo che sembra uscire, o quanto meno allungarsi fuori dall’immagine digitale. L’auto relazione di chi fotografa con chi è fotografato – sé medesimo – fa percepire un grado speciale di intimità con se stessi, che sembra giustificare pose irriverenti (linguacce, smorfie) o ammiccamenti di cui le gallerie fotografiche dei social traboccano.
La tendenza al selfie appena svegli o nella stanza da bagno, con sguardo addormentato o senza trucco, oppure nella dimensione più familiare del proprio risveglio, diffusi tra i personaggi famosi sono in qualche modo avallati dal profilo intimo dello scatto tra sé e sé. Un’intimità che entra subito in contraddizione con la tendenza di postare i propri autoscatti su Facebook o Instagram, anche se questo movimento intende esprimere esattamente quel messaggio: eccomi, io sono così, condivido con voi chi realmente sono. Io che mi guardo, nei selfie, non sono mai davvero Io: l’attore o l’attrice, il cantante, la fashion blogger presenta – nel corso della sua giornata professionale – un profilo identitario consonante al proprio ruolo. Dunque, il messaggio del selfie, andrebbe riformulato. Non tanto “io sono così”, ma “io sono come te”, proprio con la stessa faccia addormentata o struccata del primo mattino. In altre parole, sembra qui ritrovarsi un altro tratto di estroflessione, di protensione al Tu, una dimensione interpellante in cui il pronome di seconda persona si carica di un peso quasi maggiore rispetto all’affermazione identitaria apparentemente preminente nella fase dello sguardo in macchina e dello scatto.
III. L’asta del selfie
Perché hanno tanto successo le aste (stick) per realizzare i selfie? Se riflettiamo, ci troviamo di fronte a un tentativo ulteriore di subordinare il sé rispetto al noi, l’alterità all’identità. Ancora di più: il braccio meccanico, nell’allontanare il cellulare – quindi la distanza dal punto focale e dall’obiettivo – non fa che snaturare il selfie stesso, per ricreare l’effetto della fotografia tradizionale. In secondo luogo, la distanza consente di ampliare il contesto dell’immagine, per comprendere altre situazioni, quali un paesaggio, diverse persone, i monumenti alle spalle di chi viene fotografato o prospettive/punti di vista non consentiti dal movimento del braccio e della mano che scattano il selfie. Non è un caso che gli stick siano stati un’invenzione pensata, distribuita e di grande successo soprattutto nelle città d’arte o nelle località di vacanza, dove la fruizione dei luoghi avviene generalmente in compagnia e dove l’interesse per il proprio sé diventa l’essere in quel luogo. Il selfie in una località ha senso, in altre parole, se in qualche modo il contesto occhieggia insieme a noi, entra nel gioco comunicativo. Una possibilità che si realizza mediante una protesi: il braccio meccanico dell’asta si allontana dall’Io al Noi. In qualche modo, lo strumento segna una variazione sul tema dell’autoscatto: se il selfie mattutino, con l’aspetto scarmigliato o le smorfie è pensato principalmente per la condivisione social, lo scatto con stick rinvia al portfolio più tradizionale delle esperienze extra domestiche, in cui irrompe l’ambiente con i suoi dettagli. Ed è proprio la ragione per cui la classica postura dell’autoscatto richiede una protesi per ampliare i propri orizzonti.
- L’impossibile auto ritratto digitale
Il selfie non è esattamente definibile nei termini di un ritratto, pur trattandosi della fotografia di un volto. In pittura c’è sempre uno spazio incolmabile tra il soggetto del quadro e chi lo dipinge. In “L’Allegoria della pittura” (1666) Johannes Vermeer sceglie un soggetto a lui familiare, lo studio di un pittore. Lo inquadra abbastanza da lontano, grosso modo dalla porta o dall’ingresso, così che le figure della modella e dell’artista non sono date in primo piano; ad essere protagonista è la quotidianità dello studio. Tuttavia, proprio la distanza del punto di vista, con la profondità spaziale favorita dalla netta separazione tra le parti dell’ambiente (tra lo spettatore e il pittore; tra l’artista e la modella) sembra configurare un personaggio principale, accanto ai co protagonisti: colui/colei che guarda. La profondità è come un invito a entrare, nel quadro; a esplorare lo studio, magari osservando da vicino il lavoro del pittore.
Vermeer si cancella, pur essendo una presenza robusta. Nasconde il proprio volto, proprio mentre ne rappresenta un altro, quello della modella, sapendo che nemmeno questa massima esposizione permette a chi guarda di afferrare la scena. L’atteggiamento dell’osservatore, sembra suggerire il dipinto, è di muoversi nello spazio lasciato dall’artista tra il soggetto reale e il dipinto.
Tale distanza consiste nel modo in cui l’autore “vede” la modella, lo studio, persino le reazioni possibili dello spettatore e il modo in cui le rappresenta. Per quanto raffigurato con estrema precisione, magari in uno stile iper-realista, il dipinto ricrea in modo nuovo la morfologia, il colore della pelle, il modo in cui luci e ombre gli donano plasticità. Restituire al soggetto l’espressione che lo caratterizza come quell’individuo e non un altro resta la più ardua tra le sfide del ritrattista, perché la tecnica non è che un supporto, un aiuto alla rappresentazione: tocca all’autore, cioè a chi guarda, cogliere la peculiarità dello sguardo e restituirne l’unicità. Non è dunque l’abilità nel disegno del volto o dell’occhio o delle labbra la garanzia di un ritratto riuscito. Conta il guizzo intuitivo del pittore, come suggeriscono i quadri di Lucien Freud o di Picasso, piuttosto lontani dalla dimensione fotografica del ritratto pittorico, ma di gran lunga più magnetici.
L’autoritratto non si discosta dal ritratto, perché l’autore non rende se stesso, ma si rappresenta, cioè si presenta di nuovo e nell’offrirsi attraverso i colori, le linee, i materiali, rivela qualcosa della propria identità personale, anzitutto a se stesso.
Tra l’autoritratto dipinto e il selfie c’è quindi una differenza che riguarda l’intenzione dell’autore. Il selfie fa pensare all’autore, illudendolo che l’immagine renda in tutto e per tutto quello che è. Non è un caso che questa procedura sia impiegata frequentemente per scatti di tipo privato. Nei social network le celebrities postano spessissimo questo genere di immagini per significare un dialogo possibile con i propri follower. Solo scendendo dal piedistallo – il selfie vorrebbe denotare questo movimento “democratico” – cantanti, attrici, modelli, influencer sanno di poter aprire un canale diretto con il mondo.
Nel selfie la fotografia del volto possiede un carattere eminente interpellante, enfatizzato, nel selfie, da almeno due fattori. Il primo, di tipo tecnico, connaturato al mezzo, è la vicinanza degli occhi e della bocca all’obiettivo; il secondo risiede nel modo più informale, rilassato, spiritoso in cui generalmente il soggetto si “consegna” in questo genere di foto. Se avete un account Instagram, verificate quanto è impattante postare una vostra foto formato selfie: il numero di “like” o di commenti è normalmente superiore a quello stimolato da post che hanno per soggetto qualcosa di inanimato. Personalmente ho potuto constatarlo, sia direttamente, sia indirettamente, visitando gli account di chi solitamente seguo. È evidente che, ancora una volta, come succede nel ritratto in pittura, quella che diamo sui social, attraverso i selfie, è semplicemente una (tra le tante) rappresentazioni di noi stessi. Per quanto lo scatto sia fedele, per quanto ci sforziamo di “essere noi stessi al naturale” (viso struccato, barba lunga, occhi pesanti, etc) chi dice “io” non consegna il proprio “Io”. A chi non è capitato di non ritrovarsi nelle fotografie, di non sentirsi restituito nella propria bellezza o forma fisica o eleganza o simpatia. Più che mai, questa sensazione comune a fronte di uno scatto, la si ritrova quando si guardano i selfie. Non ci vediamo come ci sentiamo, né come ci vediamo allo specchio. La percezione suscitata dal selfie sul proprio autore denota un tratto specifico del fotografare, pienamente presente anche nell’autoscatto digitale. Più che mai, proprio nel selfie, ci si rende conto che non siamo esattamente noi perché anche se lo spazio tra il mezzo – il cellulare – e il soggetto – chi viene fotografato – c’è un terzo incomodo: l’obiettivo fotografico. Rispetto al ritratto dipinto, dove lo sguardo dell’autore è il punto di vista incarnato in un soggetto, nel selfie abbiamo un intreccio di visioni: il punto di vista di chi scatta, su se stesso come soggetto; l’occhio dello strumento fotografico; lo sguardo di chi vede il selfie. Il primo focus non coincide mai davvero, fino in fondo, con lo sguardo di chi appare sul touch screen del cellulare. Fate un esperimento, volgendo verso di voi l’apparecchio e osservandovi. Vedrete che l’occhio della vostra immagine in movimento, catturata dalla tecnologia dello schermo, non incontra le vostre pupille, ma lo schermo. È a lui che guarda. E, per quanto tentate di riflettervi, non vi riuscirete. Se, viceversa, vi mettete davanti allo specchio e vi osservate, avrete un’esperienza di visione differente: l’occhio di chi guarda si guarda.
- Dentro lo specchio. Perché Narciso si innamora
Quanto abbiamo compreso, fino a questo punto, delle dinamiche ottiche e comunicative del selfie può essere utile a guardare con maggiore profondità antropologica al narcisismo. Pur trattandosi di un termine complesso, che intreccia una gamma di atteggiamenti comportamentali – dalla vanità, all’egoismo, all’egocentrismo, all’amor proprio – fino ad essere diagnosticato come disturbo della psiche e della personalità, il narcisismo presenta un tratto comune a tutte le sue manifestazioni: l’esaltazione per la propria persona, in una rosa di atteggiamenti anti-sociali. Un aspetto che, nel mito, si declina nella forma appassionata dell’innamoramento di Narciso per se stesso.
Lo sguardo narcisistico è quello dello specchio, non quello del telefonino che, abbiamo osservato, sfugge fin da principio all’occhio del suo autore. Tale prerogativa non soltanto apre una significativa prospettiva relazionale, ma impedisce la sovrapposizione dell’Io nel Tu che, vedremo, costituisce il sintomo di tante forme di disagio psichico. Possiamo chiederci, a questo punto, perché Narciso si innamora e come sia possibile che un’esperienza così ricca umanamente si traduca in tragedia personale.
La polla d’acqua in cui si riflette dà a Narciso la percezione di trovarsi di fronte a un altro che lo fissa e lo cattura, esattamente come può succedere nella vita di relazione. Nulla di strano che il personaggio mitologico, ignaro del potere ammaliante e moltiplicante dello specchio (d’acqua) scambi la figura, resa mobile dalla vitalità della fonte, come un altro da sé, con emozioni (stupore, sorpresa, entusiasmo, timidezza) così vicine a quelle che sta vivendo. Nulla di strano che quello sguardo lo porti a perdersi nell’altro, fino a morire annegato, nel tentativo di raggiungerlo. L’esperienza dell’innamoramento, dall’irrompere subitaneo e inatteso, provoca un’incorporazione, portandoci dentro l’altro nel modo dell’intuizione. Edith Stein usò proprio il termine incorporazione per il suo primo saggio filosofico – Einfuhlung –, relativo all’empatia, un aspetto suggestivo della sintonia tra esseri umani a cui il suo maestro, Edmund Husserl, aveva dedicato alcune riflessioni. Cogliere in qualche modo l’altro significa, sul piano filosofico, realizzare chi ci sta di fronte mediante una conoscenza che ne restituisce in pienezza – sebbene per un frammento temporale – l’individualità[8].
Perché dunque Narciso vive un colpo di fulmine per sé stesso?
Non per vanità, ma a causa di uno sguardo capace di afferrare quanto c’è di più sfuggevole nelle cose e negli esseri animati, vale a dire l’interiorità personale, che è un mistero per ognuno. La grande letteratura sa afferrarne la fenomenologia, come nel celebre passaggio del romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj, quando la protagonista sta per scendere dal treno che la porta a Mosca da San Pietroburgo e si accorge di un altro, un uomo, destinato a cambiarle radicalmente la vita:
«In questo breve sguardo Vrònskj fece a tempo a notare l’animazione trattenuta che balenava sul volto di lei e svolazzava fra gli occhi scintillanti e il sorriso appena percettibile, che incurvava le labbra vermiglie. Come se un’abbondanza di qualcosa colmasse talmente il suo essere da esprimersi al di fuori della sua volontà ora nello scintillìo dello sguardo, ora nel suo sorriso». [9]
In quella “animazione trattenuta” sul viso di Anna è significato il bisogno di dire, di esprimere qualcosa che è essenzialmente il proprio essere, la profondità personale già satura dell’innamoramento per Vrònskj (un’abbondanza che colma), che l’educazione e le circostanze (Vrònskj non le è stato presentato e, d’altro canto, ella si trova a condividere lo scompartimento ferroviario con la madre del conte) non consentono, in quel momento, di manifestare. In quel contesto ineffabile, che per certi versi richiama un’apparizione divina, l’unica comunicazione poteva essere il sorriso che, tuttavia, e certamente non a caso, pesa sulla sua bocca (“incurvava le labbra vermiglie”) con la gravità di un discorso impronunciabile, quello del suo essere una donna sposata, che Anna pronuncerà – per poi sbarazzarsene per sempre e andare incontro al destino di eroina tragica – durante la tempesta di neve del suo ritorno a San Pietroburgo.
All’essenzialità di due soli versi (il terzo e il quarto della quartina che segue) il poeta Petrarca consegna l’incontro con Laura nel Canzoniere, un incontro fatto ancora una volta di un reciproco darsi di sguardi dalla potente carica comunicativa.
«Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo fattore i rai,
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
chè i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro»[10].
In apparenza, sembra che il gioco di sguardi sia tutto sbilanciato dalla parte della donna, in virtù della disattenzione (“non me ne guardai”) confessata da Petrarca. Tuttavia, la precisazione dei “be’ vostr’occhi” esplicita la compiutezza dello sguardo di lui, che assumendo i modi cortesi propri della finzione letteraria, un topos letterario della fin amor, fa della donna amata la vera protagonista del rapporto sentimentale. Il legame tra il vedere e il sentire, che si fa espressione e comunicazione, affiora con chiarezza in uno dei versi più noti di questo “frammento”:
«Trovommi Amor del tutto disarmato,
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio e varco».[11]
VII. Il selfie è un incontro?
Nel selfie questo movimento di sguardi tra soggetto/oggetto, che coincidono, almeno in apparenza è impossibile, per il semplice fatto che non riflettiamo mai davvero noi stessi, ma siamo raccontati da un altro occhio, quello dell’obiettivo. L’immagine dell’autoscatto digitale nasce, dunque, già altra da noi e soprattutto ci sfugge fin da principio, in quanto rappresentazione – sempre insoddisfacente, a ben guardare – di chi scatta. Le appartiene anche il destino di essere guardata, cioè di essere tenuta a una certa distanza. Nell’innamoramento di Narciso lo spazio di rispetto – da re-spicio – che consente di non perdersi nell’alterità e di non protendersi all’altro in modo intrusivo, seppure in forma istantanea e immateriale, non c’è. Il personaggio mitico entra a tal punto nel simulacro da esserne rapito, fino a spegnere la propria individualità.
Al di là della carica simbolica il racconto porta alla luce una verità antropologica su cui vale la pena di riflettere, a partire proprio da quella distanza che – nel selfie – è certificazione di mancato narcisismo, nonostante la tentazione auto-centrica che sembra appartenere all’autoscatto digitale. La distanza mai colmata tra chi guarda, chi scatta e chi è guardato fa sì che l’esito del selfie sia naturalmente la relazione. O meglio, l’incontro: trova qui la sua giustificazione la prospettiva “social” dell’autoscatto digitale. Perché, a ben vedere, disegna le condizioni di un incontro, significa la possibilità di aprirsi all’altro in forma comunicativa. Il teologo Romano Guardini, nell’esaminare l’etica dell’incontro ci aiuta a comprendere questa intuizione fenomenologica.
«L’incontro – scrive – è possibile soltanto a condizione di uno stare di fronte: a partire dalla lontananza dentro la vicinanza».[12]
Nel mito di Narciso non c’è spazio per questa occasione interpersonale non tanto perché il giovane è solo con se stesso. Numerose attività di auto riflessione – lo studio, il ricordo, il pensiero, l’autocoscienza – si svolgono in solitudine, ma hanno l’effetto di instaurare una relazione, tra noi e le idee. Allora, qual è la solitudine di Narciso? La troviamo nell’assenza dei fondamentali della relazione; l’intus-ire nello sguardo della propria immagine, colta come altro da sé, lo porta ad un’esperienza così sproporzionata rispetto al proprio essere, da farlo soccombere. L’innamoramento è davvero un attimo, che porta a vivere giorni meravigliosi o sofferenze lancinanti; diversamente significherebbe assumere a tal punto l’alterità da non riuscire a smarcarsene, con effetti devastanti per la propria salute psichica. Le psicosi, nella lettura fenomenologica di Ludwig Binswanger[13], portano a questo: a sentirsi cosa tra le cose, per l’attutimento o la perdita della distanza Io-Tu.
«Ed è questo dinamismo della relazione che libera da ogni cosificazione dell’uomo, da ogni sua riduzione a caso dell’universale o a oggetti manipolabile della natura: l’essere umano è storico e nella storia si realizza attraverso la relazione libera e consapevole con l’altro da sé, che non è l’altro separato e straniero che lo schiaccia, ma è l’alterità relazionale con cui è chiamato a entrare in rapporto di libera e costruttiva tensione»[14].
Il problema di Narciso non è di aver intuito l’altro, ma di non aver compreso che l’altro era se stesso. Nell’innamoramento la fase dell’intuizione dura un frammento perché costituzionalmente la mente umana – abile nel taglia e cuci del concetto[15], con stile razionale – non è plasmata all’intuizione costante. Quella è la mente di Dio, che arriva subito e senza sforzi all’idea, e dal pensare al fare, se vogliamo seguire quel grande affresco metafisico che è la Teodicea di Leibniz. Dunque, cosa non va nel colpo di fulmine di Narciso per se stesso, e che ritroviamo in quella patologia antropologica nota come narcisismo?
Il giovinetto del mito non si cura della distanza di rispetto tra sé e il mondo della vita, tra sé e gli altri, cioè di quello spazio vitale per la relazione, perché l’Io sia pienamente identificato dall’alterità, dal Tu. L’innamoramento stesso vissuto da Narciso si tramuta in brevissimo tempo in fascinazione: è un inganno che avvolge l’essere nelle sue spire fino a soffocarlo.
Fatale, nel senso di cui è impregnata la tragedia classica, in cui il destino degli uomini resta pur sempre nelle mani di un manipolo di dei-burattinai, si presenta anche l’incontro di Nausicaa e di Ulisse, nel VI canto dell’Odissea. Entrambi i personaggi sono guidati da una stessa dea, Atena, che offre all’eroe di molti espedienti un lido su cui naufragare e alla figlia giovinetta del re dei Feaci, ormai nell’età delle nozze, il coraggio di esprimersi senza timori e tremori davanti a uno straniero che, seminudo, scarmigliato e coperto di salsedine, ha tutte le carte in regola per presentarsi come un pericolo. Come Petrarca e Manzoni, la descrizione dell’incontro vive di un’essenzialità radicale («Si trattenne e gli stette davanti»), che nel testo greco si scarnifica ancora di più, essendo affidata a sole quattro parole: stè d’ànta skoméne[16]. A ben guardare, la dinamica dell’evento si trova tutta quanta concentrata nel primo emistichio, in quel “gli stette davanti” (stè d’ànta), che enuncia il trovarsi al cospetto di qualcuno, faccia a faccia. Proprio per questo implicito rinvio al reciproco volgersi degli sguardi, contenuto della formula greca, non era in fondo necessario aggiungere altri riferimenti ai volti o agli occhi dei protagonisti. Stare dinanzi a qualcuno – come si coglie per altro dal verbo greco stè, a cui fa riferimento anche il nostro stare – rinvia a una postura retta, non servile o genuflessa in atto di reverenza, in cui traluce un senso di parità comunicativa, se non di ruoli sociali. Più ancora che nell’espressione greca, questa idea di “stare dinanzi” come guardarsi in faccia è presente nella formula ebraica biblica “lifnè adhonai”, tradotta generalmente come “stare al cospetto del Signore”. Quel “lifnè” significa letteralmente “alla bocca” (l, a; fnè da pe, bocca) e, nel rinviare alle labbra di chi sta davanti, in questo caso Dio, porta con sé l’idea del volto comunicativo dell’altro, che, manifestato metonimicamente in uno tratto specifico (la bocca), annuncia la disponibilità alla comunicazione[17]. Lo scaltro Ulisse, nel rendersi conto di essere approdato su una spiaggia straniera, aveva già iniziato a pianificare una strategia per ottenere acqua, cibo, protezione (“così s’accingeva Odisseo ad andare, benché fosse nudo/ tra le fanciulle dai riccioli belli: lo premeva il bisogno”), tuttavia egli la esprime quando incontra lo sguardo di Nausicaa. E non sceglie di manifestare il suo stato di bisogno e di disperazione nella forma dell’implorazione, abbracciandole le ginocchia, come potrebbe fare un povero nei confronti di un potente. Ulisse opta per il discorso. Quello stare dinanzi a lui della giovinetta, che si esprimeva nel guardarsi negli occhi, lo conferma nella possibilità di rivolgersi a lei con la parola, sia pure nella forma – dovuta, considerate le sue condizioni di naufrago – della preghiera.
«Si trattenne e gli stette dinanzi: e Odisseo fu incerto
se implorare la bella fanciulla prendendole le ginocchia,
o pregarla con dolci parole, così (…)».
VIII. Lo sguardo di Narciso
Un aspetto ancora, tra le riflessioni fatte, porta a capire meglio Narciso, proprio attraverso la lente delle dinamiche del selfie. L’autoscatto digitale, configurando un gioco di sguardi, dà origine ad alcune conseguenze, che sono tipiche del comportamento diffuso, specie tra i più giovani: 1) rinforza di continuo sia lo sguardo verso lo schermo, per il potere interpellante che ad esso appartiene; 2) rinforza il comportamento di scattare e condividere; di scattare per condividere. In nessun caso, però, per quanto ossessivo possa diventare il rapporto con il mezzo digitale, quello sguardo si riflette su se stesso. L’inclinazione a condividere la rappresentazione di sé in forma digitale viene favorita dal carattere interpellante e fortemente comunicativo di quel tipo di immagine. Richiama anzitutto chi la scatta, che si guarda e si giudica; si piace o si dispiace. Il ritratto del selfie sembra chiedere di essere discusso, fatto oggetto di condivisione: mi somiglia, mi penseresti così, l’avresti mai detto che io, personaggio ho un alter ego di normalità come costui/costei? La dimensione inter-comunicativa del selfie, il suo essere entità separata – sempre un Tu, pur reduplicando l’Io di chi lo forgia – salva così dalla tentazione patologia propria dell’agire narcisistico.
Che, sul piano della relazione, oltre a non conoscere distanza tra soggetto e oggetto, porta agli estremi quel movimento contro-intenzionale tipico del fenomeno saturo. L’espressione, coniata dal metafisico francese Jean-Luc Marion, sta ad indicare una situazione in cui l’intenzione – il contenuto di senso che promana da un fenomeno – mette in scacco l’intuizione, cioè la capacità di afferrarlo. Lo sguardo umano, secondo Marion, è uno di questi fenomeni saturi[18].
Abbiamo visto come l’innamoramento configuri una delle circostanze in cui sguardi che si incontrano danno origine a un’esperienza cognitiva speciale, in cui riusciamo a comprendere qualcosa dell’altro, in modo subitaneo. Capita spesso di dispiacersi che la magia di quei momenti si dissolva in breve tempo, lasciando il posto alla disillusione oppure a un sentimento importante, ma da costruire con fatica e impegno. A ben pensarci, se l’esperienza non avesse un carattere fulmineo (coup-de-foudre), si potrebbe rischiare molto sul piano dell’equilibrio personale, dell’identità, della salute psichica. Perché la nostra mente, come si è accennato sopra, non è principalmente intuitiva: ci serve comporre e scomporre, per elaborare conoscenze con carattere di fondatezza. Cosa potrebbe succederci, qualora lo slancio intuitivo all’altro si “perdesse” nell’alterità?
Vivremmo, con buone probabilità, la situazione infelice di Narciso, imprigionati in un auto centrismo e in un egoismo patologico, lesivo della nostra identità, venendo meno quei “legami costitutivi dell’esperienza naturale” o “trascendentali”[19] indagati dallo psichiatra fenomenologo Binswanger. La componente empirica e quella cognitiva non si incontrano più nel baricentro del soggetto, l’Io puro o trascendentale: “ciò che fallisce – scrive lo psichiatra fenomenologo – è l’esperienza naturale perché essa non viene regolata dall’ego puro”.[20] È qui che risiede l’intimo scollamento dell’individuo dal mondo: una scissione dal mondo che è scissione interiore, più o meno grave.
Per concludere
Non riuscire a porre una distanza tra sé e il mondo, tra il proprio Io e il Tu degli altri enti, come miticamente capita a Narciso, dà origine alla perdita del mondo, a partire dalla perdita di sé stessi, non più in grado di esprimere un’individualità autentica, perché priva del secondo termine di relazione. Non meraviglia che Binswanger indichi nel “disunirsi” dal mondo la condizione peculiare della schizofrenia[21], la più complessa delle forme di sofferenza della psiche. E’ in questo contesto antropologico che Binswanger assume la nozione di angoscia (Angst), tanto centrale nel pensiero del filosofo Martin Heidegger, per ricondurla a parola-chiave dell’esser-ci mancato. Lo studioso interpreta l’angoscia come il negativo dell’intenzionalità, come la sua completa negazione o annullamento che permea anche lo slancio di Narciso al suo doppio.
[1] In inglese si dice anche selfy, come leggiamo sull’Oxford Dictionary (en.oxforddictionaries.com).
[2] L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffaello Cortina, 2017.
[3] Una recente lettura psicologica del fenomeno in G. Riva, Selfie: narcisismo e identità, Bologna, Il Mulino, 2016.
[4] R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Bologna, DeriveApprodi, 2014.
[5] Aspetto posto in evidenza anche nella definizione della Enciclopedia Treccani alla voce selfie, termine inserito come neologismo nel 2014: “Autoritratto fotografico generalmente fatto con uno smartphone o una webcam e poi condiviso nei siti di relazione sociale” (www.treccani.it). In Inglese: “A photography that one has taken of oneself, tipically one taken with a smartphone or webcam and shared via social media” (en.oxforddictionaries.com)
[6] A questo tema ho dedicato una ricerca a cui mi permetto di rinviare il lettore (P. Fisogni, Incontro al dialogo. La sfida dell’intesa nei tempi della crisi, Milano, Franco Angeli, 2006).
[7] Nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, www.dsm5.org), il manuale psichiatrico americano di riferimento per la diagnosi e la cura dei disturbi psichici, il Disturbo Narcisistico di Personalità è stato escluso dalla classificazione dei DP, i Disturbi di personalità (2013).
[8] E. Stein, L’empatia, Milano, Franco Angeli, 1992. «Come nei propri atti spirituali originari si costituisce la propria persona, negli atti vissuti empaticamente si costituisce la persona altrui», pag. 191. Un’idea approfondita da Roberta De Monticelli: «L’empatia è atto che coglie un altro come un altro io (…) noi vediamo gli altri come nostri simili». In La conoscenza personale, Milano, Guerini, pag. 160.
[9] L. Tolstoj, Anna Karenina, Milano, Feltrinelli, 2013; I capitolo.
[10] F. Petrarca, Il Canzoniere-Rerum vulgarium fragmenta, Torino, Einaudi, a cura di G. Contini, 1985. Il corsivo è mio.
[11] Op. cit. Il corsivo è mio.
[12] R. Guardini, L’etica dell’incontro, op. cit. pag. 148.
[13] Psichiatra svizzero tedesco (1881-1966), apparteneva a una famiglia di psichiatri che gestiva la clinica Bellevue a Kreuzlingen, famoso centro terapeutico per benestanti, citato anche nel romanzo di J. Roth, La marcia di Radetzsky (Milano, Longanesi, 1980, pag. 197). Tra le sue opere, oltre a quelle citate nella relazione, ricordiamo Der Mensch der Psichiatrie (trad. La psichiatria come scienza dell’uomo, Milano, Ponte alle Grazie, 1992).
[14] Il teologo Forte commenta così la riflessione di Guardini: “Ed è questo dinamismo della relazione che libera da ogni cosificazione dell’uomo, da ogni sua riduzione a caso dell’universale o a oggetti manipolabile della natura: l’essere umano è storico e nella storia si realizza attraverso la relazione libera e consapevole con l’altro da sé, che non è l’altro separato e straniero che lo schiaccia, ma è l’alterità relazionale con cui è chiamato a entrare in rapporto di libera e costruttiva tensione”, in B. Forte, L’Uno per l’Altro. Per un’etica della trascendenza, Brescia, Morcelliana, 2003.
[15] L’intuizione non è l’abito che si adatta meglio alla mente dell’uomo, al quale – essendo impossibile penetrare la natura delle cose come un laser – compete piuttosto una facoltà conoscitiva separante e ricollegante. Proprio l’esigenza di rappresentare, del resto, prova che è impossibile, per l’uomo, una conoscenza del concreto – della cosa in carne e ossa – nella sua interezza.
[16] Al verso 141, si legge: “Si trattenne e gli stette dinanzi”, in Omero, Odissea, traduzione di G. A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, vol. II, canto VI.
[17] Questo legame tra lo “stare davanti”, ovvero lo “stare al cospetto” e l’attitudine comunicativa, è più che mai palese (e dunque paradigmatico), nel primo comandamento rivelato a Mosè da Dio, sul monte Sinai, che in ebraico recita: «Lo-jihieh leka elohim aherim al-fanai» («non avrai altri dei di fronte a me»), dove al-fanai è formula composta dal prefisso al, mentre fanai deriva dalla radice “pe”, bocca, volto.
[18] J.-L. Marion, Étant donné, Paris, Puf, 2005.
[19] L. Binswanger, Malinconia e mania, op. cit. pag. 25.
[20] Ibidem, pag. 121 e 127.
[21] La tesi si trova espressa nei due “classici” binswangeriani Phänomenologische Studien, Pfullingen, Verlag G. Neske, 1960 e Der Fall Suzanne Urban (Il caso Suzanne Urban, Venezia, Marsilio, 1994).