intervista di Francesca Rifiuti
Le domeniche di pioggia sono molto amate dai lettori, specialmente quelle autunnali e invernali, quando il libro è un rifugio sicuro contro il freddo e la malinconia.
Incontro Paolo Cognetti proprio in una domenica di pioggia, in occasione del Pisa Book Festival e della presentazione del suo libro “Le otto montagne” (Ed. Einaudi).
In piedi, appoggiati al bancone del bar, in mezzo alle tazzine di caffè presi al volo, parliamo del tema della memoria e di come esso sia fortemente presente all’interno di tutto il suo ultimo lavoro, come un filo conduttore che unisce personaggi, paesaggi e stati d’animo.
Dentro a “Le otto montagne”, vincitore del Premio Strega 2017, del Prix Médicis étranger 2017 e dell’English Pen Translates award 2017, ci sono tante tematiche che si intrecciano e tante sfide della vita in cui è facile riconoscere una parte di noi stessi: la storia dell’amicizia tra Pietro e Bruno, la storia di Pietro e del suo rapporto con il padre, l’appartenenza agli ambienti familiari, il desiderio di esplorare e di vagare e il ritorno a casa per fare i conti con il passato, cercando di dargli senso e narrabilità. La montagna, sede degli inverni passati e punto di ripartenza, è senza dubbio un’altra importante protagonista del libro, con le sue insidie e le sue asperità.
Nel tuo libro Le otto montagne, a un certo punto c’è questa frase:“Non c’è niente come la montagna per ricordare”. Secondo te cos’è che fa della montagna il luogo della memoria?
“Da una parte la montagna è per me il luogo della solitudine e della concentrazione. Il ricordo diventa qualcosa di difficile e di lontano quando siamo costantemente in mezzo agli altri e quando tutte le cose della vita quotidiana e della frenesia ci distraggono e ci riempiono di rumori.
Quando sono in città passo giorni e giorni senza coltivare la dimensione della memoria, perché sono immerso da rumori e sono in mezzo alla gente. La montagna è un luogo dove sono solo, dove mi concentro sulle mie cose: lì i ricordi iniziano a venire alla luce.
Poi c’è anche un altro aspetto: la montagna è il luogo dove il passato si conserva più a lungo. La città tende a cancellare molto in fretta: non parlo dei ricordi storici, che nelle nostre città monumentali saranno per sempre presenti. Parlo soprattutto dei tuoi ricordi individuali, quelli che appartengono alla tua vita, le tue strade, le tue case: tutte queste cose in città cambiano molto in fretta. Quando torno in montagna invece ritorno a qualcosa che è lì, che mi aspetta, di cui ricordo tutto e dove le cose sono di nuovo lì, dove le avevo lasciate.”
La montagna forse è anche luogo di memorie sensoriali. Nel tuo racconto “La stagione delle piogge” (in “Una cosa piccola che sta per esplodere”, ed. Minimum Fax), dici che in montagna chiudendo gli occhi si riconosce dove siamo ancora meglio di quando li teniamo aperti. In città invece se chiudiamo gli occhi siamo immediatamente in pericolo.
“Questa cosa ha a che fare anche e soprattutto con il rapporto con il buio. In città non esiste più il buio. Abbiamo il terrore dei luoghi bui perché tutta la nostra vita è illuminata a giorno ed è questo che rende la vista il nostro senso principale.
Invece una delle cose che ho dovuto re-imparare in montagna e che per molto tempo mi hanno messo in difficoltà è stata la presenza del buio, quello vero. E anche la presenza di un silenzio che all’inizio non conosci e che devi imparare a leggere. I suoni e gli odori sono qualcosa che piano piano impari a riconoscere e poi inizi a sentirli come familiari”.
La tua vita si divide tra monti e città. Che cosa ti manca di Milano quando sei in montagna e viceversa?
“La città, quando sono in montagna, mi manca nella sua dimensione di socialità. La sera è un momento molto difficile per me in montagna: non ho televisione, internet non prende, non c’è nulla. Posso solo leggere o ascoltare musica e in questo modo le sere riescono a diventare molto lunghe, soprattutto d’inverno. Io sono invece un grande amante dei bar, dei luoghi dove in città le persone stanno insieme e c’è sempre qualcosa per cui festeggiare.
La montagna invece mi manca in città in tanti momenti, soprattutto nel rapporto con il mio corpo: c’è un momento, quando sono in città, in cui inizio a sentire che non sto fisicamente bene, che mi sento chiuso. Associo tanto la montagna a questa dimensione di libertà, per me è soprattutto questo. E la città ogni tanto mi sta proprio stretta: è un luogo che mi costringe, fatto di spazi chiusi. Milano, è secondo me un luogo del tutto inospitale: non ha posti accoglienti, non ha luoghi dove si può camminare, non ti dà mai la sensazione di essere libero di andartene in giro. Questo mi manca tanto”.
Parlando di questa sensazione di libertà, mi viene in mente il percorso che solitamente si fa camminando in montagna: c’è il sentiero in salita, poi la vetta e dopo la discesa. Cosa succede ai pensieri e ai ricordi quando siamo sulla vetta? E cosa rimane quando scendi?
“La cima è un luogo che mi dà sensazioni ambivalenti, c’è una grande euforia ma anche tanta delusione: quando arrivi scopri di aver fatto tanta fatica per arrivare in un luogo che non ha nessun significato e da lì non ti resta che tornare indietro. Più che la cima, per me ha un grande significato un’altra quota: quella a cui finisce il bosco. Sento una grande apertura in quel momento”.
Nel libro si dice che ogni persona ha la sua quota, quella in cui si sente meglio, in pace con se stesso. È quella la tua?
“Sì, direi proprio di sì. Mi sento un po’ oppresso nel bosco, benché mi piaccia camminarci dentro, ma quando gli alberi si diradano e improvvisamente la vista si apre — sulle Alpi succede verso i 2200-2300 metri — sento un grandissimo senso di respiro… Dopo quel momento mi sembra che anche i pensieri si diradino, si chiariscano, anche il mio stato mentale e la mia concentrazione sono più puliti, più chiari”.
Ci sono persone che nel bosco si sentono invece più protette…
“Sì, certo. Ne conosco alcune.
E poi c’è questa grande tristezza nel tornare giù.
Io sono appena tornato dal Nepal, dove sono rimasto per un mese: lì è come se quella condizione di chiarezza e apertura fossi riuscito a mantenerla per giorni e giorni. Sono giorni in cui riesci a ripensare ai tuoi ricordi, alle tue memorie, alla tua vita e alle cose che vuoi fare in modo lucido. Insomma, ti sembra finalmente di riuscire a vedere la tua vita in modo chiaro. Poi tornando giù hai la sensazione che tutto si confonda di nuovo, e che quello che avevi afferrato in realtà forse era un’illusione di cui resta ben poco”.
Salite, sentieri, boschi, vette…Nel tuo libro il paesaggio non è solo lo sfondo della storia, ma esprime anche qualcosa dei personaggi, come se desse voce ai loro tanti silenzi.
“È sicuramente un punto chiave del libro. C’è tutto questo paesaggio che parla al posto loro, che diventa uno specchio di quello che loro sentono, di come stanno.
Era importantissimo descriverlo nel modo più dettagliato e minuzioso possibile, non tanto per un gusto della descrizione e della tassonomia, ma perché quel paesaggio lì è la materia dei loro pensieri, delle loro relazioni, del loro sapere. Bruno, il montanaro, è fatto di quella montagna. Per cui descrivere lei è come descrivere lui. Sono una cosa sola”.
Pensando ai tuoi personaggi mi viene in mente la differenza che può esserci tra il camminare su un sentiero vecchio e su uno nuovo. Percorrere sentieri conosciuti riattiva delle tracce già presenti in memoria, sai più o meno dove stai mettendo i piedi. Mentre su nuovi sentieri è come attivare nuove tracce, fissare nuovi punti di riferimento…Un po’ come l’equilibrio che l’uomo cerca sempre tra appartenere e differenziarsi. Tu hai trovato l’equilibrio tra sentieri familiari e strade nuove?
“È un bel parallelo questo. Non so se ho raggiunto un equilibrio ma mi piacciono tutte e due le strade. Mi piace il senso di meraviglia, di avventura e di esplorazione, a volte anche di paura che hai nello stare da solo in una montagna nuova, ed è molto importante che tu sia da solo e non in un gruppo quando affronti nuovi sentieri.
Ma mi piace anche il senso di conforto, di ritorno, di presenza in te stesso e consapevolezza della tua storia che hai nel ripercorrere un vecchio sentiero.
Mi piace tanto rileggere i miei libri preferiti per esempio, è una cosa che non tanti fanno. È la stessa sensazione: quando leggi di nuovo un romanzo che hai amato non te lo ricordi tutto, ogni tanto trovi un passaggio in particolare e pensi: “ah, sì”. E all’improvviso ti sembra di essere ritornato laddove volevi, dove avevi lasciato qualcosa di tuo. Però continui anche a notare delle cose nuove. Ed è la stessa cosa che ti succede in un sentiero che hai fatto dieci volte”.
Questo si collega un po’ alla leggenda delle Otto Montagne, che nel libro Pietro scopre durante un suo viaggio in Nepal: secondo questo detto, il mondo è una ruota a otto raggi. Al centro c’è l’altissimo monte Sumeru e intorno ci sono otto montagne e otto mari. Il saggio si domanda: «Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?». Tu a che punto sei di questo enigma senza risposta?
“Penso che siano due metà. Io per esempio ho la mia montagna, ho un forte senso di appartenenza a un luogo, non sono uno sradicato, non sono mai stato un vagabondo.
Anche parlando a livello metaforico: quando avevo 18 anni ho deciso che volevo fare lo scrittore e ce l’ho messa tutta per fare quello, senza distrarmi più di tanto. Nella vita quindi non ho vagabondato molto. Forse quindi da questo punto di vista sono quello che cerca ancora di scalare il monte Sumeru, che per me è sempre stato la scrittura.
Però sento anche un grandissimo desiderio di esplorazione: da qualche anno ho scoperto il Nepal, dopo che per tanto tempo sono stato innamorato di New York; ho iniziato a fare un festival, cosa che non avevo mai fatto prima. Sicuramente c’è una parte di me che ama vagare. Sono due metà”
Nel libro, Pietro a un certo punto dice di aver avuto due padri: quello di città e quello di montagna. Pietro decide di dimenticarsi il primo e ricordare solo il secondo. È davvero possibile secondo te scindere i ricordi e decidere quali conservare di una persona?
“Secondo me è possibile. Ci sono cose appartenenti alla nostra infanzia e alla nostra adolescenza, conflitti e difficoltà che abbiamo attraversato, che hanno bisogno di tempo per essere compresi fino in fondo. Quando riusciamo a dargli senso siamo sulla buona strada per far pace con i nostri traumi e riuscire a metterli da parte.
Certo, c’è bisogno di crescere e darsi tempo, perché è necessario avere a disposizione gli strumenti necessari per capire quello che ci è successo e rileggerlo in chiave diversa. È anche un modo per perdonare le persone, consapevoli che i loro lati peggiori sono anche i nostri. Di una persona a cui hai voluto bene secondo me puoi decidere di dimenticare alcuni di questi lati, il male che ti ha fatto, le volte in cui non ti ha capito…”
È importante quello che dici, perché Pietro, quando decide di fare pace con il passato torna a casa, anziché tagliare i ponti con la sua storia…
“Non sarebbe stato possibile altrimenti. Non so se ci sono persone che non hanno questo bisogno del ritorno a casa, ma a mio parere sarebbero persone per sempre sradicate, mai in pace con le loro origini, con i loro fantasmi. Un passaggio di ritorno è qualcosa di necessario”.
Nel libro parli di un’amicizia al maschile e del rapporto tra padre e figlio. Hai voglia di condividere un ricordo di tuo padre e uno di un tuo amico?
“Di mio padre ho questo ricordo pre-razionale, fisico, che sarà sempre legato alla mia più antica memoria di montagna: è la sensazione fisica di stare sulle sue spalle. Il calore sotto le gambe, la sua massa di uomo adulto molto più grande di me che sta sotto…e tutto quel ballonzolare su di lui, che cammina sul sentiero. È un ricordo molto forte che ho di mio padre, il più forte direi.
Del mio amico ho invece un ricordo che ho provato a descrivere nel libro parlando di Bruno: è la bellezza di vederlo lavorare con le mani, con quella grande grande grazia che hanno le persone che sanno usare gli oggetti, che possiedono una intelligenza nelle mani. Ho adorato per esempio vederlo ficcare le mani nel motore di una macchina, oppure adoperare una falce…”
Un’altra conferma che le memorie non sono solo ricordi di episodi, ma sono anche memorie corporee, fisiche…
“Sì, secondo me sono proprio quelle le memorie che ci restano più impresse.”
Qual è stata la vetta più alta e aspra che hai dovuto scalare?
“A livello reale, sicuramente i ghiacciai del Monte Rosa quando ero piccolino: ogni volta che mi trovo di fronte a una difficoltà penso a quella scalata, che per me è stata la più difficile.
A livello metaforico invece, mi veniva da pensare alla scrittura, ma in realtà penso che sia stato quando mi è successo di essere lasciato, quando ho vissuto la fine di un amore. Non sono mai stato così in crisi nella vita come in quel momento lì. Un senso di abbandono così forte, la sensazione di non riuscire ad affrontare quello che mi stava capitando.”
A proposito di salite impervie, anche il padre di montagna di Pietro parlava di ghiacciai e diceva: “Il ghiacciaio è la memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi”: che cosa custodisce per te quel ghiacciaio?
“Custodisce tante cose: custodisce oggetti, corpi, impronte. È come se in qualche modo io sapessi che lassù le cose durano di più e i tuoi ricordi resistono più a lungo, mentre in genere il mondo li spazza via. È una mia sensazione, ma poi ho scoperto di condividerla con tanti. Allora forse è qualcosa di più”.
Se provi a ricordare un libro della tua infanzia o adolescenza, quale ti viene in mente per primo?
“Herman Hesse è stato qualcosa di fondamentale nell’adolescenza. In qualche modo l’ho ripreso nel mio libro, perché la leggenda delle otto montagne (che è stata frutto anche della mia invenzione), del nomade e del sedentario, dell’artista e del monaco erano parte fondante della sua poetica, sia in “Siddharta” che in “Narciso e Boccadoro”. Non li ho più voluti rileggere, li lascio lì perché non voglio esserne deluso: mi piace ricordarli così”.
E invece qual è il primo titolo che ti viene in mente pensando a oggi?
“Per l’età adulta, mi vengono in mente tanti libri di amicizia: uno su tutti è “Due di due” di Andrea de Carlo. Si può dire che sia stato il mio “Narciso e Boccadoro” da grande”.