di Alfonso Cariolato
«Dove comincia e dove finisce un parergon»,[1] scrive Derrida. Propriamente non si tratta né di una domanda né di un’affermazione; anzi, a ben vedere questa proposizione si scinde e corre in due direzioni opposte su una stessa linea e senza possibilità di fermarsi. Per di più questa linea sembra cancellarsi nell’atto stesso del suo farsi. Una sorta di programma non programmabile. Derrida, riprendendo Kant, sta parlando di quello che definisce un «quasi-concetto filosofico». Il parergon è «la questione della cornice, di questo orlo che si lascia da parte perché sembra non essere altro che un a-fianco esterno o estrinseco dell’opera».[2]
Va da sé che non si potrebbe pensare di essere esaustivi, parlando dei parerga. Essi si moltiplicano indefinitamente e non cessano di proliferare, di supplire e di supplirsi, di fungere da protesi. Se da un lato il parergon ordina e copre, dall’altro anche ciò che il parergon ordina e copre, ossia l’energia dell’opera o la rappresentazione di una (presunta) nudità – che si vorrebbe, per di più, naturale – non cessa di costituire problema. Perché non sapere dove comincia e dove finisce un parergon vuol dire essere anche nell’impossibilità di dire che cosa il parergon ordina e copre o dove comincia e dove finisce ciò che è da ordinare e da coprire. Con i parerga si è trascinati ogni volta in una mise en abyme.
Derrida scrive che i parerga hanno a che fare con un «proteggersi-dall’opera» che tuttavia non riguarda il suo dispiegarsi come atto puro, o presenza senza resto (Aristotele). Piuttosto, la protezione è contro «quel che manca» in questa «energia libera e piena e pura e scatenata». Ora, il problema sta nella considerazione di questa mancanza, la quale non è né una possibilità (che il pensiero può dominare) né la semplice opposizione a una compiutezza (ossia il mero rovescio di una determinazione). Tale mancanza, infatti, non ha luogo, ed è intrattabile; dunque non si può porre, indicare, fissare, delimitare. Anche i termini metafisici che più sembrano a essa avvicinabili come il vuoto, l’assenza, l’eterogeneo sono in realtà nozioni leggibili soltanto attraverso la sostanza, la presenza, l’omogeneo e dunque perfettamente comprensibili all’interno di una logica binaria. Invece, la différance non ha un contorno definibile, non la si può localizzare; non è mai nuda. Il movimento parergonale introduce «il caso e l’abisso nella necessità». Ma anche qui si tratta di un leggero scarto, di un piccolo crollo, di un quasi nulla. Inafferrabile. I parerga bordano l’opera, la sostengono, la contengono, permettendole di aver luogo – e così mettono in opera. Chiudendo, aprono il gioco della différance.
Ne La vérité en peinture, Derrida nel tentativo di mettere a nudo i parerga, nel trattarli, sfiora la questione della nudità, del corpo nudo, dell’immagine nuda e del nudo artistico. In particolare egli si sofferma sulla Lucrezia (1533) di Lucas Cranach il Vecchio. Si parte dall’abbigliamento: quando si è vestiti? Quando si comincia a non essere più nudi? Se qualsiasi abbigliamento è un parergon, anche «i veli completamente trasparenti» – così frequenti in certa pittura quattro-cinquecentesca – si dovrebbero considerare tali? Nel dipinto di Cranach, infatti, il corpo nudo della donna è coperto soltanto da un velo trasparente intorno al pube che nulla copre – «dove sta il parergon?», si chiede Derrida. E ancora: è parergon la punta (unicamente la punta) del pugnale che Lucrezia rivolge su di sé e che le tocca la pelle? Oppure è la collana che le cinge il collo? In altri termini la questione è quella dell’«essenza rappresentativa e oggettivante», ossia della capacità della pittura di rendere l’essenza del rappresentato, di ciò che è dentro e di ciò che è fuori rispetto a questa essenza, e dei criteri sottesi alla sua delimitazione così come del «valore di naturalità», qui presupposti. Insomma è della pittura tout court che si tratta – niente di meno. Non solo della sua capacità di rappresentazione, ma anche indirettamente della sua «essenza», di ciò che la pittura mette in opera e fa vedere.
Ora, la nudità nell’arte mostra che non c’è grado zero del nudo. Non si è mai abbastanza nudi o, forse, non c’è nudità o anche: la nudità è impossibile. Niente nudità senza il coprirsi, il vestirsi – e viceversa. È una «mancanza interna al sistema» a far proliferare i parerga. Così tutto sembra per un attimo precipitare, e ricominciare
[1] Dove non indicato diversamente, le citazioni nel testo sono tratte da: Jacques Derrida, Parergon, in Id., La verità in pittura, a cura di Jacopo e Paolo Vignola, Orthotes, Napoli-Salerno 2020, pp. 57-62 e 82-84.
[2] Jacques Derrida, I «dessous» della pittura, della scrittura e del disegno: supporto, sostanza, soggetto, succube e supplizio, in Id., Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004), a cura di Alfonso Cariolato, Jaca Book, Milano 2016, p. 260.