di Luigi Serrapica
Convivere con la pandemia, come molti di noi hanno sperimentato, ci ha visti in costante contatto con ansie, paure, dubbi, legati, soprattutto, alle notizie sulla diffusione e gli effetti del virus Sars-Cov-2.
Proprio perché legata a protocolli definiti, la comunità scientifica non riesce a dare, sempre e nell’immediato, spiegazioni definitive e perentorie, di quelle che tanto piacciono all’uomo contemporaneo. E se la scienza non risponde con tempi di latenza minimi, non resta che la rete. Il web, i social network, i motori di ricerca che, per antonomasia, contengono una risposta a ogni quesito. Il dottor Google, in effetti, è un medico particolare, risponde a ogni ora del giorno e della notte, in tutte le lingue del mondo. Sembra avere un prontuario per ogni emergenza, una risposta per ogni dubbio sulla salute, un valido consiglio per tutti i malesseri. “Il dottor Google non è laureato” è il nome della collana che Armando Editore propone per alcuni suoi testi, fra cui l’ultimo quello del prof. Aldo Morrone intitolato Covid-19 tra mito e realtà. Luci e ombre della pandemia che ha travolto il pianeta.
Direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma, Aldo Morrone crede molto nel valore del rapporto umano. Le persone, prima di essere pazienti, sono uomini e donne in stato di vulnerabilità. Tra le sue riconosciute qualità, non comuni, vi è quella del saper divulgare e, il volume che presentiamo, è stato volutamente ideato e scritto per rispondere alle molteplici domande e angosce delle persone comuni.
– Professore, dopo un anno di pandemia ancora c’è il bisogno di rassicurare le persone sul Covid-19? Non eravamo quelli che dicevano “Andrà tutto bene”?
– Andrà tutto bene se recuperiamo il rapporto con i malati e se superiamo ansia e insicurezza. Ogni giorno ricevo centinaia di mail di persone che chiedono un consiglio, un parere, una spiegazione su questo tema. Cerco di rispondere a tutti, magari qualcuno me lo perdo, ma voglio provare a tranquillizzare chi mi scrive. Perciò è importante che, dopo aver parlato con me via posta elettronica, si rivolgano al proprio medico di fiducia perché lui li conosce in modo approfondito.
– A proposito di dubbi, parlando del contrasto a questa malattia, mi chiedo se il rischio da Covid sia stato adeguatamente valutato e affrontato fin dagli inizi della pandemia. Nei primi periodi di diffusione del virus, alcuni commentatori si riferivano alla Sars-Cov-2 come a una banale influenza della quale non era necessario preoccuparsi oltre. È possibile che le autorità occidentali abbiano pensato che il nuovo coronavirus fosse solo un “problema cinese”?
– Abbiamo bisogno del coraggio politico, abbiamo bisogno di scelte politiche lungimiranti. Se parliamo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), parliamo di un ente che dimostra delle fragilità. E questo nonostante che l’attuale direttore dell’agenzia, il dottor Tedros Adhanom Ghebreyesus con cui ho collaborato a lungo, sia una persona per bene e molto valida. Si trova, però, a dirigere una realtà che deve rendere conto ai propri finanziatori, che ormai non sono più soltanto gli Stati ma anche i privati. Questo depotenzia l’afflato che aveva l’Oms al momento della sua fondazione, si perde il senso della sua missione. Vede, quello che serve per contrastare questa pandemia e anche le probabili future pandemie, è la lungimiranza. Istruzione, salute ed ecologia devono essere aspetti che entrano in connessione per affrontare questo tipo di crisi. Non possiamo solo stare ad aspettare il prossimo salto di specie di un virus dagli animali all’uomo.
– La comunicazione ha avuto un ruolo molto importante in questo anno e mezzo di pandemia. I giornali hanno cominciato a rendere conto, sulle prime con qualche difficoltà, l’irruzione del Covid-19 nelle nostre vite. Poi ci siamo accorti che, dietro la narrazione scientifica ufficiale, stava montando l’onda delle fake news, rilanciate a volte anche dai media tradizionali. Quale ruolo ha avuto il giornalismo e l’infodemia, in questa pandemia?
– Spesso non sono i giornalisti a “spaventare” i lettori, ma gli editori nel tentativo di vendere qualche copia in più o di ottenere qualche punto di share televisivo in più. La stessa cosa che accade negli ospedali. Il personale medico, in genere, è composto da persone corrette, come nella categoria dei giornalisti. Il problema avviene quando gli ospedali vengono trattati come aziende, dove si guarda al reddito e non più al rapporto umano. A reggere il sistema sanitario sono le persone che vi lavorano. Se la politica che governa quel sistema è intelligente, allora le cose funzionano bene. Se, invece, questo non avviene, il personale medico è chiamato a fare una doppia fatica.
– A proposito di questa doppia fatica, mi viene in mente il periodo in cui tutti – dai politici ai cittadini comuni – inneggiavano ai medici e agli infermieri come a degli eroi, una fase che abbiamo archiviato in fretta.
– Lo ricordo bene, ma ricordo anche una mia presa di posizione di quel periodo. Ai tempi mi domandavo dove fossero queste persone quando venivano approvati i tagli alla sanità, alla ricerca, al personale. Le dirò di più, mi ritengo insoddisfatto anche del cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza varato recentemente dall’attuale Governo. Noi oggi ci troviamo di fronte a un bivio, possiamo scegliere se riparare il vaso ormai rotto, rimettendone insieme i cocci, oppure costruirne uno nuovo, efficiente, funzionale, moderno. Se vuole la mia opinione su questo, direi che non c’è alcuna programmazione sanitaria e neppure socio-sanitaria nell’agenda politica italiana.
– Restiamo ancora sul 2020. Nei mesi di chiusura delle nostre città sembrava di assistere a un vero rinnovamento dei valori, i cittadini solidarizzavano tra loro di più di quanto non facessero abitualmente. In quel periodo, che lei ripercorre all’inizio del volume riproponendo alcune delle sue riflessioni del momento, sosteneva che la popolazione sarebbe uscita migliorata dall’esperienza del lockdown. La pensa ancora così?
– Dicevo che saremmo usciti migliori e in qualche modo penso che lo si possa sostenere anche ora. Ritenevo che la ricerca sul Sars-Cov-2 ci avrebbe potuto aiutare a studiare altre malattie e ad andare ancora più a fondo nella conoscenza dei microorganismi. Per fare questo, serve la partecipazione attiva dei pazienti, ovvero è necessario che il paziente non sia solo un mero utilizzatore, non può limitarsi a essere un “consumatore”. Le persone malate sono “collaboratori” della ricerca, proprio perché questa possa essere un patrimonio di tutti. In qualche modo, la ricerca medica deve diventare multidisciplinare, quindi includere aspetti solo in apparenza lontani da essa come per esempio la filosofia o l’arte. Come si può prescindere dal considerare lo stato di disoccupazione di un paziente quando ne si giudica lo stato di salute? Privata del lavoro e della possibilità di auto sostenersi, quella persona avrà uno stato clinico sicuramente diverso dagli altri.
– “Alcuni germi che causano malattie acute delle vie respiratorie superiori sono quasi scomparsi”. Questo passaggio dal suo libro colpisce particolarmente, lasciando intravedere una sorta di selezione tra i virus e farebbe quasi presagire la fine, per esempio, dell’influenza tradizionale. È davvero così?
– I microorganismi, come spiego nella prima parte del volume, variano e in questa variazione mutano anche la propria forza. I virus e i batteri esistono, ci sono e dobbiamo confrontarci con loro. Certo, esistono delle condizioni in cui è maggiormente probabile la loro diffusione. Penso alle zone del mondo dove si vive in condizioni di estrema povertà, in cui, per esempio, mancano le reti idriche. In questi luoghi, la malaria trova l’ambiente ideale per diffondersi. Anche in Italia era diffusa e i medici italiani la studiavano sul campo, perché ce l’avevamo in casa, ma in Africa non funziona così. Parliamo di quelle aree come l’Eritrea dove alla povertà si aggiunge la guerra. Negli anni ho lavorato molto al progetto di un ospedale nell’area del Tigrai, presso il confine con l’Etiopia. Affinché l’ospedale potesse funzionare davvero, c’era bisogno di un sistema di infrastrutture che rendesse viva quella zona, ci volevano strade, rete elettrica e idrica ovviamente, ma anche una comunità di persone che vi si potesse stabilire e che avesse di che vivere. In quelle zone, ci sono persone dimenticate che si ammalano di malattie dimenticate. Non a caso si parla di Neglected Tropical Diseases, malattie neglette che colpiscono oltre due miliardi di persone causandone la morte di decine di milioni ogni singolo anno. Tra queste c’è l’Ebola, di cui ci ricordiamo magari quando questa si avvicina all’Occidente.
– Un problema lontano, di cui non ci curiamo perché sembra non riguardarci direttamente.
– Ora che il mondo è molto più interconnesso, in cui viaggiano le persone – certamente – ma anche merci, piante, animali, anche i microorganismi si muovono con maggiore rapidità. Ecco perché occorre ragionare sulla medicina in termini di multidisciplinarietà. Non basta osservare solo il quadro clinico di un paziente, bisogna mettere insieme scienza veterinaria, ecologia, studi sociali. A proposito delle malattie dimenticate, questa è davvero l’occasione per studiare in maniera approfondita tutti i coronavirus, non solo quello che provoca il Covid-19.
– In queste settimane in cui sembrano diminuire i contagi, almeno in Italia, e anche le restrizioni, di conseguenza, si allentano, sembra di poter intravedere un momento in cui rilassarsi. È proprio così?
– La ricerca è andata avanti con estrema professionalità e serietà, nonostante permangano problemi molto importanti da affrontare. Non bisogna abbassare la guardia, dobbiamo continuare a indossare la mascherina anche se vaccinati ed è importante lavarsi spesso le mani con acqua corrente e sapone. Insisto sull’acqua corrente perché ci sono luoghi, come gli Stati Uniti, un paese non certo del Terzo mondo, in cui ad alcune famiglie viene negato l’accesso a questo bene. Famiglie che, durante la pandemia, si sono viste tagliare l’acqua perché non più in grado di pagare le bollette, cresciute a dismisura.
– Non è ancora il momento dell’ottimismo, allora?
Personalmente, resto profondamente ottimista. Anzi, ai miei pazienti prescrivo, oltre alla cura medica, anche un libro o un film perché occorre curare la persona nel suo complesso. In questo periodo mi sto battendo per la riapertura dei parchi archeologici, che in Italia non mancano. Non vedo perché si possano aprire i parchi divertimento e questi no, sarebbe un segnale per l’occupazione di chi ci lavora e un buon modo per offrire spazi per passeggiare e stare all’aria aperta per i cittadini.
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Aldo Morrone
Covid-19 tra mito e realtà
Luci e ombre della pandemia che ha travolto il pianeta
Armando Editore, 2011