EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Per una fenomenologia dello schiaffo nella letteratura del XX secolo

di Lorenzo Giordani

Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra,

tu porgigli anche l’altra

(Vangelo secondo Matteo, 5-39)

Lo schiaffo[1] è da sempre un gesto eclatante ed evidente che solitamente segna una rottura, una divisione, una frattura, spesso difficile da risanare o ricucire. Lo schiaffo assume inoltre vari significati simbolici che determinano uno scarto o un cambiamento rispetto a una data situazione: è un atto di umiliazione verso qualcuno, è un invito ad un duello, è un atto di ribellione, è un gesto di rifiuto, è un modo per far rinsavire una persona e farla tornare alla realtà rendendola consapevole di uno sbaglio o di un errore commesso, etc. Nella storia e nella cultura europea sono molteplici gli esempi: dalle parole pronunciate da Gesù nei Vangeli, al celeberrimo e leggendario schiaffo di Anagni del 1303, inflitto da Giacomo Sciarra Colonna a Papa Bonifacio VIII, a quello della giovane tedesca, Beate Klarsfeld, che il 7 novembre 1968 colpì pubblicamente il cancelliere della Germania Federale Kurt Georg Kiesinger, sino ad arrivare agli schiaffi che troviamo in numerosi film che riflettono impotenza, frustrazione, violenza, etc. Ma è la letteratura del Novecento ad aver tematizzato lo schiaffo rendendolo un momento significativo e fondamentale all’interno della narrazione, un punto di svolta, il momento apicale o di Spannung che modifica ed altera irreversibilmente l’evolversi degli eventi narrati.

A partire da quello che si può considerare il più celebre schiaffo letterario, che il protagonista Zeno Cosini riceve dal padre sul punto di morte nel romanzo La coscienza di Zeno,passerò in rassegna altri esempi tratti dalla letteratura del XX secolo per dimostrare l’importanza che tale gesto ha assunto nelle varie narrazioni divenendo un vero e proprio tema ed evento catalizzatore.  Ovviamente i testi scelti rappresentano solo una parte di un campionario senza dubbio più vasto che potrà essere integrato e accresciuto in seguito anche ricercando in testi odierni o di secoli precedenti.

Lo schiaffo paterno come atto punitivo nella Coscienza di Zeno

alzò la mano alto alto, [..]

e la lasciò cadere sulla mia guancia

(Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

Tra gli episodi più noti e significativi del romanzo La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo vi è senza dubbio quello della morte del padre a cui è dedicato per intero il quarto capitolo, intitolato appunto La morte di mio padre. L’importanza dell’episodio è determinata dal conflittuale e tormentato rapporto di Zeno con il padre, segnato da incomprensioni, silenzi e sensi di colpa di difficile risoluzione. Non a caso il protagonista dichiara che la morte del padre rappresenta per lui “l’avvenimento più importante della [sua] vita” e “una vera, grande catastrofe”. Nel capitolo, ripercorrendo il rapporto con il padre, Zeno mette in evidenza la sua ottusità, il suo conformismo, la scarsa disponibilità verso la scienza e la conoscenza, la sua incrollabile fede nelle sicurezze borghesi e afferma di contro che lui gli rimprovera la “distrazione” e la “tendenza a ridere delle cose più serie”. Come è noto la caratteristica peculiare di Zeno è invece la sua inettitudine, la sua scarsa sicurezza, il suo porsi in maniera sempre dubitativa e aperta nei confronti di ciò che lo circonda rendendolo un uomo problematico e insicuro ma anche dagli orizzonti culturali più vasti. Tra i due in sostanza non ci sono elementi di continuità e il padre non sembra aver lasciato niente in eredità al figlio sul piano etico e morale. Quello del padre è di fatto un esempio di fallimento educativo in quanto Zeno non ha accolto e assimilato niente di ciò che gli è stato trasmesso e tramandato. La diversità e il tacito conflitto tra padre e figlio che hanno segnato le loro vite, emergono e trovano così il proprio spazio durante la malattia del padre di Zeno in cui l’uomo alterna momenti di incoscienza a brevi spiragli di lucidità pur nella consapevolezza che la diagnosi non lascia speranze di guarigione. Il dottor Coprosich, altra figura che svolge un ruolo antitetico a Zeno al pari del padre, con cui di fatto si identifica e sovrappone, tenta di riportare il malato ad uno stato di coscienza grazie ai salassi (ossia l’applicazione delle sanguisughe per ridurre la pressione del sangue). Questo intervento gli permetterà di vivere ancora per qualche giorno dando così l’illusione di un miglioramento. Zeno inizialmente sembra opporsi a questa decisione sostenendo che sarebbe stato un inutile prolungamento della sofferenza ma poi accetta quando il dottore, con perfida malizia, gli lascia intendere che un ritorno della coscienza avrebbe potuto indurre il padre a modificare le volontà testamentarie sfavorevoli allo stesso Zeno[2]. Tale ambiguità, altra caratteristica peculiare del personaggio di Zeno, trova conferma anche nella descrizione della morte del padre. Zeno, infatti, affermando di voler obbedire alle raccomandazioni del dottore, che fino a quel momento aveva ignorato e apertamente disprezzato[3], obbliga il padre a coricarsi e con la forza lo costringe a sdraiarsi sul letto, ma quest’ultimo riesce con le sue ultime forze a reagire dando uno schiaffo al figlio lasciandosi poi cadere a terra morto. Così è descritta la “scena terribile” che segnerà per sempre la vita e la psiche di Zeno:

«Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera.

Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all’infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai.

Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.

L’infermiere mi disse:

«Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!».

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?

Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì.

Poi esclamò:

«Muoio!».

E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!

Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:

«Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!».

Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:

«Ti lascerò movere come vorrai».

L’infermiere disse:

«È morto».

Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!

Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.

Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!

Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: «Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo». Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.

Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo.

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.

Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero – e qui voglio confessarlo – che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta – raramente – non si può fare a meno.»[4]

Lo schiaffo inflitto dal padre chiude solo in apparenza il rapporto tra i due personaggi perché lascia Zeno smarrito e turbato: lo schiaffo è stato l’estremo gesto punitivo simbolo della reale volontà paterna o piuttosto un atto inconscio e meccanico di ribellione frutto della malattia e dello stato mentale alterato del padre? Con ogni probabilità l’interpretazione più corretta è che lo schiaffo sia l’emblematica e definitiva conclusione di un contrasto perpetuo e forse la conferma della diagnosi del dottor S., lo psicoanalista che presenta all’inizio del romanzo le memorie di Zeno Cosini sostenendo che il suo paziente sarebbe affetto da un complesso edipico non risolto. Zeno infatti sa di essere colpevole nei confronti del padre verso il quale ha provato sentimenti di odio e la ricostruzione degli eventi legati alla sua morte, da cui emerge con forza la scena dello schiaffo, non sono altro che un maldestro tentativo di scagionarsi, di apparire buono e innocente confermando invece la sua inattendibilità e ambiguità. L’episodio conferma dunque il netto divario generazionale, l’impossibilità di padre e figlio di giungere ad un compromesso, ad un punto di incontro o ad un rapporto costruttivo e positivo. Zeno disprezza il padre autoritario e castrante e ha tentato per tutta la vita di sottrarsi al suo modello negandolo con la sua inettitudine pur sentendosi in colpa per questo suo atteggiamento. 

“Un inaudito atto di rivolta filiale”: lo schiaffo epifanico nell’Uomo che guarda di Moravia

mi era apparsa

come una percossa violenta

e addirittura dissacratoria

(Alberto Moravia, L’uomo che guarda)

Nel romanzo di Alberto Moravia L’uomo che guarda (1985) troviamo nuovamente un conflitto tra  padre e figlio, fatto che nella produzione moraviana rappresenta per altro una novità visto che di solito il contrasto avviene sempre tra una madre e un figlio, come vedremo anche nell’esempio successivo tratto dal romanzo Agostino. Anche in quest’opera troviamo da un lato un padre sicuro di sé, ricco, potente e dotato di una forte potenza sessuale, dall’altro un figlio passivo, debole, insoddisfatto e in piena crisi matrimoniale. In maniera emblematica per il nostro discorso sulla presenza dello schiaffo in letteratura, il capitolo ottavo dell’opera è intitolato Lo schiaffo ed evidenti in tutto il romanzo sono gli echi della Coscienza sveviana[5]. Il protagonista Dodo si trova ad assistere il padre convalescente e mentre lo osserva dormire si accorge improvvisamente “di provare inopinatamente e assurdamente l’impulso di colpirlo in faccia”. Questa tentazione sembra riconnettersi a qualcosa che il protagonista ha già vissuto da bambino e inizia infatti a ricordare che «in un momento di stizza, avevo dato a mio padre uno schiaffo sicuramente debole e maldestro ma che, lì per lì, mi era apparsa come una percossa violenta e addirittura dissacratoria. Non mi è facile, adesso, dopo tanti anni, definire a me stesso, lo strano sentimento, tra il rimorso e la paura, che mi aveva ispirato al momento questo inaudito atto di rivolta filiale»[6]. Dodo ricorda così che lo schiaffo inferto al padre da bambino era dovuto ad un evento rimosso ascrivibile ad una vera e propria scena primaria. Non trattenendosi infatti dal desiderio di avere una busta di francobolli per la sua collezione, che il padre aveva promesso di regalargli, Dodo chiede alla madre di andare nello studio del padre a prenderla e la donna si introduce silenziosamente nello studio del marito mentre questo riposava per prendere la busta rimasta sulla scrivania. Non vedendola tornare con l’agognata busta, Dodo si avvicina allo studio e, dalla porta socchiusa, vede «una testa come decapitata sul piano della scrivania; il corpo era fuori del mio angolo visuale. Questa testa, duramente schiacciata verso la tavola, era quella di mia madre; la mano di mio padre la spingeva alla nuca, mantenendola ferma in quella posizione così scomoda e così strana. Non vedevo, di mio padre, che una parte del braccio; ma questo mi è bastato per capire che lui stava dietro, pesandole addosso e costringendola a piegarsi sulla scrivania. L’idea della violenza, una violenza inspiegabilmente accettata e subita, mi è stata suggerita non soltanto dalla posizione innaturale di mia madre ma anche dall’espressione del suo volto come, appunto, di testa decapitata subito dopo il supplizio, con gli occhi aperti e fissi e la bocca atteggiata in un urlo ormai silenzioso. Con logica infantile ho pensato che mio padre stava infliggendo a mia madre qualche cosa di simile a una punizione; ma allo stesso tempo ho intuito in lei una misteriosa complicità»[7]. Sconvolto, Dodo si allontana e, il padre, terminato l’amplesso more ferarum durante il qualerichiedeva alla moglie di essere la sua porca, esce dallo studio e porge al figlio la busta contenente i francobolli. A questo punto però il bambino li rifiuta categoricamente come stizzito e umiliato e, mentre il padre si china verso di lui, gli dà uno schiaffo sulla guancia che ha un chiaro valore simbolico. Dodo, infatti, si è sentito tradito dalla madre che ha tardato a portargli la busta per appagare il suo piacere preferendogli dunque il padre. Il personaggio moraviano, ancor più esplicitamente che Zeno Cosini, dimostra di avere un latente complesso di Edipo e di provare dunque odio verso la figura paterna che assurge a ruolo di antagonista nell’amore per la madre. La ricostruzione a ritroso di questo episodio si lega però anche alla vita presente del protagonista consapevole che la moglie Silvia lo tradisce con un altro uomo di cui non conosce l’identità. La reminiscenza dell’episodio narrato, come in un momento di illuminazione e chiaroveggenza, gli permette di capire che l’amante della moglie è proprio il padre. La descrizione degli amplessi che Silvia confessa a Dodo quando si trova con il suo amante coincidono esattamente con quello che si è impresso sulla sua retina da bambino osservando (il modo di accoppiarsi more ferarum) e ascoltando i genitori (la richiesta del padre alla madre di affermare che era la sua porca). Da qui Dodo capisce il desiderio istintivo di schiaffeggiare il padre mentre dorme, quasi a volersi vendicare per il duplice torto subito da bambino e da adulto. Dodo dimostrerebbe così al padre di conoscere la verità, ossia che lui è l’amante di sua moglie. Ma la scoperta del rapporto tra Silvia e il padre, avvenuta in maniera casuale ed epifanica, invece di suscitare una vera reazione oppositiva e contrastiva si riduce in un gesto mancato, in un’affermazione di impotenza non estranea nella narrativa moraviana.

Lo schiaffo, o più precisamente il desiderio motivato di darlo, funge quindi da gesto rivelatore, che attiva la memoria involontaria, riuscendo ad illuminare il passato del protagonista, a far tornare alla sua coscienza qualcosa di rimosso ma di fondamentale importanza per il suo essere presente, per la sua vita adulta. L’impulso di schiaffeggiare il padre è infatti a tutti gli effetti un’epifania che rivela finalmente al protagonista il trauma che lo ha condizionato per l’intera esistenza pur non facendolo realmente evolvere nel suo rapporto filiale. Questo rimane irrisolto perché da bambino, come da adulto, Dodo ha stabilito un rapporto malato con il padre, il quale non a caso afferma mentre è convalescente: «Io so di certo che tu non puoi soffrirmi, ma allora perché sei qui?».[8]Come tra Zeno Cosini e il padre anche in questo caso non c’è possibilità di riconciliazione, anzi il padre di Dodo  sembra piuttosto incarnare il ruolo di rivale in amore non quello di genitore. Siamo di fronte dunque ad una genitorialità mancata: Dodo non si sente figlio di suo padre ma al tempo stesso non riesce a ribellarsi, non riesce ad esprimere pienamente se stesso. Le due figure che mette in scena Moravia sono dunque destinate a rimanere incompiute come il finale del romanzo. Dodo non può schiaffeggiare il padre perché questo significherebbe non esserne più il figlio ma l’avversario in amore, così come per lo stesso motivo il padre per essere tale non può confessare di essere l’amante di Silvia.[9]

Nell’opera il rapporto generazionale si fa dunque ancor più problematico e complesso rispetto al romanzo sveviano e la sensazione di incompiutezza che rimane, genera nel lettore dubbi e incertezze che non trovano soluzione.

Lo schiaffo iniziatico e formativo in Agostino di Moravia

Ella levò una mano


(Alberto Moravia, Agostino)

Troviamo ancora una volta uno schiaffo nel romanzo breve di Moravia Agostino (1942) che a differenza dei due esempi precedenti vede però il conflitto tra la madre e il bambino protagonista della narrazione. Dopo un’iniziale idilliaca simbiosi che vede madre e figlio dilettarsi in spiaggia durante le vacanze estive ripetendo con cadenza quotidiana un giro in pattino tuffandosi a largo come fosse un rito rigenerativo, il rapporto tra i due avrà una svolta drammatica e irreversibile. Un giorno subentra improvvisamente davanti ad Agostino «l’ombra di una persona ritta [che] parò il sole davanti a lui»[10].Èil giovane “bruno e adusto” Renzo che tenta di sedurre la madre sostituendosi di fatto ad Agostino nelle consuete gite in pattino e generando così rabbia e gelosia nel bambino che si sente tradito e abbandonato, ormai non più complice esclusivo di quel rito tanto amato e ripetuto ogni giorno. Ma dopo diverse mattine la routine sembra interrompersi perché Renzo non compare. Così, vedendo la madre inquieta e ansiosa per il mancato arrivo dell’amante, Agostino coglie l’occasione per vendicarsi. L’episodio è così significativo che merita di essere riportato per intero: «Agostino, dopo essere rimasto a lungo dietro la seggiola della madre, strisciando nella rena le girò intorno e ripeté con un tono di voce che avvertiva lui stesso fastidioso e quasi canzonatorio: “Ma è proprio vero? Oggi non si va in mare?” La madre forse sentì la canzonatura e il desiderio di farla soffrire; o forse quelle parole imprudenti bastarono a far traboccare un’irritazione a lungo covata. Ella levò una mano e con un colpo che Agostino sentì molle, quasi involontario e già pentito nel momento in cui lo vibrava, lasciò andare un manrovescio molto forte sulla guancia del ragazzo. Agostino non disse nulla; ma, fatta una capriola sulla rena, si allontanò per la spiaggia, a testa bassa, verso le cabine. “Agostino… Agostino” udì chiamare più volte. Poi il richiamo tacque; e voltandosi gli parve di vedere, tra tutte le imbarcazioni che gremivano il mare, il patino candido del giovane. Ma ormai non gli importava più nulla di tutto questo; come chi abbia trovato un tesoro e corra a nascondersi per guardarlo a suo agio, con lo stesso senso pungente di scoperta egli correva a rintanarsi con il suo schiaffo, cosa tanto nuova per lui da parergli incredibile. La guancia gli bruciava aveva gli occhi pieni di lagrime che tratteneva a stento; e temendo che sgorgassero prima che giungesse in qualche riparo, correva curvo sopra se stesso. L’amarezza accumulata per tutti quei giorni in cui era stato costretto ad accompagnare il giovane e la madre nelle loro gite, gli faceva ora un torbido rigurgito; e quasi gli pareva che, liberandosene con un pianto abbondante, avrebbe capito finalmente qualcosa di quelle oscure vicende. Come giunse davanti la cabina, esitò un momento cercando un luogo dove rifugiarsi. Poi gli parve che la cosa più semplice fosse rinchiudersi nella cabina stessa. La madre doveva ormai essere in mare, nessuno l’avrebbe disturbato. Agostino salì in fretta la scaletta, aprì l’uscio e, senza richiuderlo del tutto, andò a sedersi in un angolo, sopra uno sgabello. Si rannicchiò con le ginocchia contro il petto, la testa appoggiata contro la parete, e presosi il viso tra le mani incominciò coscienziosamente a piangere, Lo schiaffo gli balenava tra le lagrime; e si domandava perché mai pur dandoglielo così forte la mano della madre fosse stata tanto irresoluta e molle. Al cocente senso di umiliazione che destava in lui la percossa, si mescolavano, più forti ancora se era possibile, mille sensazioni sgradevoli che in quegli ultimi tempi avevano ferito la sua sensibilità. Fra tutte, una gli tornava con più insistenza alla memoria, quella del ventre della madre chiuso nella maglia fradicia, premuto contro la sua guancia, fremente e agitato da non sapeva che vogliosa vitalità. Come certi altri schiaffi dati sui vestiti vecchi vi fanno apparire larghe chiazze di polvere; così quella percossa ingiusta, vibrata per impazienza dalla madre gli risvegliava nitida la sensazione del ventre da lei premuto contro la sua guancia. Gli pareva che questa sensazione a momenti si sostituisse a quella della percossa; a momenti invece si mescolava ed era al tempo stesso palpito e bruciore. Ma mentre capiva che lo schiaffo persistesse riaccendendosi ogni tanto sulla guancia come un fuoco che si estingue, oscure gli restavano invece le ragioni della tenace sopravvivenza di quella lontana sensazione. Perché, tra tante, gli era rimasta impressa e così viva proprio quella? Non avrebbe saputo dirlo; soltanto gli pareva che finché fosse vissuto gli sarebbe bastato riandare con la memoria a quel momento della sua vita per riavere intatto sulla guancia il palpito del ventre e la bagnata ruvidezza della maglia fradicia».[11]

Nella scena descritta lo schiaffo della madre ad Agostino rappresenta dunque il momento di svolta del romanzo portando il ragazzo «ad allontanarsi da un tipo di riva per avventurarsi verso un’altra, a scappare dall’ambiente ordinario e regolato della spiaggia borghese degli stabilimenti balneari, per addentrarsi nello spazio sconosciuto, semiselvatico, violento e potenzialmente pericoloso della spiaggia popolare, abitata da ragazzi strani ma affascinanti e, soprattutto, molto differenti da quelli conosciuti e frequentati fino a ora»[12]. In sostanza la funzione dello schiaffo nel romanzo è quella di creare una rottura tra il protagonista e la madre, di rompere quell’iniziale morbosa complicità permettendo così ad Agostino di sganciarsi dal cordone ombelicale materno e fare esperienza della vita anche nei suoi aspetti più crudi e diretti tra cui rientrano il sesso e la violenza. Lo schiaffo materno è dunque un gesto costruttivo che permette ad Agostino di gettarsi nella realtà per scoprirla sino in fondo allontanandosi così da quegli oscuri sentimenti che lo avevano turbato sino a quel momento. A differenza dei due precedenti esempi, in questo romanzo lo schiaffo permette realmente al protagonista di cambiare il corso delle cose. Il gesto della madre, per quanto doloroso e traumatizzante, riesce in qualche modo a liberarlo, dandogli la possibilità di iniziare a costruire la sua identità, a fare un passo verso il mondo adulto che lo attende.

Il duplice schiaffo fatale nella Conversione degli ebrei di Philip Roth

e il palmo lo prese in pieno sul naso

(Philip Roth, La conversione degli ebrei)

Il racconto La conversione degli ebrei di Philip Roth, inserito nel volume d’esordio Goodbye, Columbus e cinque racconti (1959), è ambientato in una scuola ebraica e incentrato sul giovane Oscar Freedman[13], detto Ozzie, che pone domande provocatorie sulla religione ebraica al rabbino Marvin Binder rimanendo sempre deluso perché “quello che voleva sapere era diverso”. L’inquieto e trasgressivo giovane, come dice il suo amico Itzie Lieberman, è “bravo ad aprir bocca nel momento sbagliato” e per questo finisce sempre per essere preso di mira dal rabbino. La madre di Ozzie infatti era già stata chiamata due volte dal rabbino a causa delle domande impertinenti del figlio. La prima delle sue domande metteva in discussione l’epiteto di “popolo eletto” con cui si identificano gli ebrei in quanto la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti afferma che tutti gli uomini sono uguali e dunque non dovrebbe esistere un popolo superiore agli altri. La seconda criticava l’atteggiamento dei suoi parenti che, in seguito a un disastro aereo in cui persero la vita cinquantotto persone, si interessarono solo di verificare quanti tra i passeggeri fossero ebrei considerando questo incidente “una tragedia” solo perché ne identificarono ben nove! Non ricevendo risposte autentiche e oggettive alle sue domande, il protagonista insiste a mettere in discussione la religione ebraica e in particolare il rabbino che si dimostra sempre evasivo. Non tarda così ad arrivare la terza fatale domanda, più pungente e blasfema delle precedenti: «se Lui [Dio] poteva fare tutto questo in sei giorni, e poteva scegliere dal nulla i sei giorni che voleva, perché non avrebbe potuto fare in modo che una donna avesse un bambino senza avere rapporti sessuali?»[14]. La madre viene così convocata dal rabbino per la terza volta il mercoledì successivo alle quattro e trenta ma reagisce bruscamente all’ennesima chiamata e «Per la prima volta nella loro vita insieme, lei gli diede uno schiaffo»[15]. Ozzie incassa lo schiaffo ma cova dentro di sé risentimento e rabbia che non tarderanno a esplodere.

Il mercoledì, in attesa dell’arrivo della madre, Ozzie pone ancora una volta una domanda all’evasivo Binder: “Perché Lui non può fare tutto quello che vuole?” e col timbro di una cosa che uno si è tenuto nel gozzo per quasi una settimana urlò contro il rabbino:

«- Lei non sa! Non sa niente di Dio! Il rabbino si girò fulmineamente verso Ozzie. – Cosa? – Lei non sa… Non… – Chiedi scusa, Oscar, chiedi scusa! – Era una minaccia. – Lei non… La mano di Binder volò verso la guancia di Ozzie. Forse avrebbe solo voluto tappare la bocca al ragazzo, ma Ozzie si chinò e il palmo lo prese in pieno sul naso. Il sangue gli zampillò sulla camicia in un breve schizzo rosso. Un istante dopo, il finimondo. Ozzie urlò: – Bastardo, bastardo! – e corse alla porta»[16]. Il giovane, in segno di ribellione e protesta contro il gesto subito, sguscia così attraverso la botola che portava al tetto della sinagoga e da qui si affaccia sulla strada dove si accalcano molte persone che rivolgono il volto in alto. Binder intanto «puntava rigidamente un braccio verso di lui; e in fondo a quel braccio un dito prendeva minacciosamente la mira. Era l’atteggiamento di un dittatore – confessavano i suoi occhi – al quale il valletto aveva sputato in faccia»[17]. Alle quattro e trenta arriva la madre per l’appuntamento col rabbino e sconvolta si vede di fronte questa scena implorando il figlio di non buttarsi. A questo punto Ozzie chiede a tutti di inginocchiarsi e al rabbino di dare risposta alle sue domande altrimenti si sarebbe buttato. Binder dovette cedere e ammettere che Dio poteva fare qualunque cosa e che poteva dunque anche fare un bambino senza avere rapporti sessuali. Le stesse parole sono proferite a turno, per ordine di Ozzie, dalla madre, dall’anziano custode della sinagoga Yakov Blotnik e infine dall’intera comunità che osservava gli eventi. Infine, a completare il suo atto di catechismo, Ozzie fa dire a tutti che credevano in Gesù Cristo quasi come a compiere un atto di conversione collettiva (da qui il titolo del racconto). Prima di scendere dal tetto, lasciandosi andare sulla rete gialla dei vigli del fuoco giunti sul posto, Ozzie dà un’ultima lezione alla madre e al rabbino: «Non dovresti picchiarmi. Non dovrebbe picchiarmi neanche lui. Non dovreste picchiarmi per Dio, mamma. Non si dovrebbe mai picchiare nessuno per Dio…»[18].

Alla fine del racconto Ozzie sembra quindi avere la meglio costringendo il rabbino, la madre e tutti gli ebrei presenti a rispondere alle sue domande e dando così un insegnamento all’intera comunità. Si rompe in tal modo anche la distanza che separa la comunità ebraica da quella dei goym, i gentili, ossia i non ebrei, che rappresentano l’altro da sé da cui stare lontani perché impuri, pericolosi, nocivi per il mantenimento della propria integrità religiosa, culturale e identitaria. Emerge così la critica di Roth all’ipocrisia e ai principi falsamente logici e dogmatici su cui si fonda la fede che autoinganna l’essere umano. Ozzie, controfigura dello scrittore, si oppone infatti alla falsa logica del rabbino Binder, che incarna la religione ebraica, stupendosi di come sia possibile negare il dogma dell’immacolata concezione. Tutto ciò è tacciato di blasfemia ma in realtà è segno di quello spirito critico, di quella curiosità necessaria allo sviluppo e alla crescita personale tipica degli adolescenti che si ribellano, che vogliono opporsi, decostruire la realtà esistente per tentare di ricostruirla con le proprie esperienze. In tal senso è molto significativo anche il personaggio che sta sullo sfondo del racconto, l’anziano custode Yakov Blotnik, il quale con il suo borbottio ricordava “una preghiera, monotona e curiosa” quanto più possibile distante da una fede autentica perché dava la sensazione «che avesse imparato a memoria le preghiere e dimenticato tutto di Dio»[19]. Attraverso questo racconto-parabola, Roth vuole dimostrare che l’uomo sembra imbrigliarsi e incarcerarsi  nell’ortodossia, nelle convenzioni e nel perbenismo, ponendo un velo acritico sulla realtà del mondo.

Per questo motivo il duplice schiaffo della madre prima e del rabbino poi sono, dunque, un gesto di frustrazione, di incapacità di dare una risposta che non sia dettata dai dogmi, dalle convenzioni e dall’ipocrisia. Ozzie, invece, con la sola forza delle parole riesce a smuovere le coscienze, a smascherare le ipocrite e fallaci certezze della sua comunità cercando di andare al cuore della realtà e della verità. Senza paure, reticenze o inibizioni assurge così a ruolo di spirito libero e critico che non intende trasgredire e provocare per il puro gusto di farlo ma vuole invece guardare oltre la superficie delle cose.

Riflessioni conclusive e rigenerazione del tema

Lo schiaffo sembrò echeggiare nell’aria

(Christos Tsiolkas, Lo schiaffo)

Un esempio conclusivo, che estende la fenomenologia dello schiaffo alla letteratura contemporanea rigenerandone il tema, è il romanzo dello scrittore australiano di origine greca Christos Tsiolkas intitolato emblematicamente Lo schiaffo (2008). Hector e Aisha invitano ad un barbecue nel loro giardino i parenti e gli amici più stretti: dal cugino arricchito di Hector, Harry, agli amici di Aisha, l’invidioso ubriacone Gary e la puritana Rosie, dalla seducente e inquieta Anouk, alla giovane Connie, amante di Hector e dipendente di Aisha, tutti accompagnati dai rispettivi figli, fidanzati o coniugi. Ma in quella che sembra essere un’occasione di festa e di divertimento improvvisamente succede qualcosa  di sconvolgente. Il piccolo Hugo, figlio di Gary e Rosie, si mette a urlare in seguito ad un diverbio durante un gioco con Rocco, figlio di Harry e Sandi, e con una mazza da cricket è pronto a colpirlo. Tutti gli invitati accorrono verso i due bambini e più rapido di tutti Harry ferma Hugo togliendogli la mazza, ma il bambino, viziato e non abituato a vedersi negato qualcosa, lo colpisce selvaggiamente in uno stinco. La reazione di Harry è altrettanto rabbiosa ed Hector «vide il braccio di suo cugino alzarsi a fendere l’aria, poi il palmo della mano abbassarsi e colpire il bambino. Lo schiaffo sembrò echeggiare nell’aria. Incrinò il crepuscolo».[20] Questo evento manda in frantumi la comunità cosmopolita e variegata che sembrava vivere in armonia e serenità e la divide inesorabilmente tra favorevoli e contrari alla reazione punitiva di Harry nei confronti del piccolo Hugo. Emergono allora con tutta la loro portata emotiva tensioni, contrasti, pregiudizi sociali, razziali e culturali che fanno cadere le ipocrisie e le maschere sotto cui i vari personaggi si nascondono. Come in un caleidoscopio si moltiplicano così le ragioni, le prospettive e i diversi punti di vista dei personaggi che fanno riflettere sul modo in cui giudichiamo e siamo giudicati dando forma ad un romanzo a più voci in cui ad ognuno è dato lo spazio di un capitolo per esprimere il proprio mondo interiore.

Come ho dimostrato attraverso i suddetti esempi, lo schiaffo ha un chiaro valore simbolico ed è inserito all’interno delle varie narrazioni come momento fondamentale che permette un’evoluzione diversa, un punto di svolta decisivo dal quale non si può tornare indietro. Il gesto dello schiaffo diventa così un vero e proprio tema che agisce in maniera potente dando adito a molteplici letture interpretative e gettando una nuova luce o una maggiore comprensione sugli eventi narrati. Ma lo schiaffo diventa anche un gesto che sostituisce con un’azione diretta e violenta le parole che non si è in grado di pronunciare, dando corpo e voce a quel non-detto, a ciò che dentro di noi è rimasto latente e che prima o poi è destinato ad esplodere modificando il nostro rapporto con l’altro o con gli altri.

Questo lavoro, sviluppato e suggerito dalla lettura sveviana, che ha fatto dello schiaffo un archetipo letterario, vuole essere dunque uno spunto iniziale per riflettere come uno schiaffo può modificare il corso delle cose o i rapporti tra le persone caricandosi di significati inconsci, agendo come un vero e proprio grimaldello che disserra il flebile e spesso apparente equilibrio tra gli uomini.


[1] Interessante sottolineare come la parola abbia un chiaro suono onomatopeico in italiano come anche in altre lingue (si pensi ad esempio all’inglese slap) che conferma la manifesta e concreta realizzazione del gesto.

[2]Nel testamento il padre aveva affidato l’amministrazione dell’azienda commerciale di famiglia al fidato collaboratore Olivi, segno della sfiducia nei confronti di Zeno considerato non all’altezza del ruolo.

[3]Si pensi all’ironica scelta di Svevo di dare il cognome Coprosich al dottore che evoca gli escrementi. In greco infatti kòpros significa “sterco”.

[4]I. Svevo, La coscienza di Zeno, Roma 2002, pp. 54-56.

[5]L’uomo che guarda ha infatti anche ulteriori elementi di contiguità con La coscienza di Zeno oltre al conflitto padre-figlio sono riscontrabili il tema del darwinismo sociale, l’ossessiva idea della fine del mondo causata da una catastrofe, l’atteggiamento problematico e dubitativo del protagonista, il finale aperto e complesso che pare non offrire una conclusione, etc. Tutto ciò meriterebbe un approfondimento volto a mettere in evidenza l’influenza della lettura sveviana nell’opera di Moravia.

[6]A. Moravia, L’uomo che guarda, Bompiani, Milano 1985, p. 153.

[7]Ivi, p. 159.

[8]A. Moravia, L’uomo che guarda, cit., p. 166.

[9]Per un’analisi più dettagliata di questi aspetti rinvio all’articolo di Alessandra Diazzi, Il Nom-du-Père: percorsi del desiderio ne L’uomo che guarda di Alberto Moravia, in «Between», vol. III, n. 5 (Maggio/May 2013), pp. 1-20, http://www.between-journal.it/.

[10]A. Moravia, Agostino, Bompiani, Milano 2014, p. 50.

[11]A. Moravia, Agostino, cit., pp. 64-66.

[12]L. Bani, La prova dell’anima. La borghesia in spiaggia nella letteratura europea tra Ottocento e Novecento. Sei letture, Moretti & Vitali, Bergamo 2012, p. 155.

[13]In inglese il cognome può tradursi con “Uomo liberato” e in effetti nel corso della narrazione il protagonista riesce a rendersi libero dai gioghi dogmatici che la comunità ebraica gli aveva imposto.

[14]P. Roth, La conversione degli ebrei, in Goodbye, Columbus e cinque racconti, Einaudi, Torino 2013, p. 126.

[15]Ivi, p. 128.

[16]Ivi, pp. 130-131.

[17]Ivi, p. 132.

[18]Ivi, p. 141.

[19]Ivi, p. 129.

[20]C. Tsiolkas, Lo schiaffo, BEAT, Vicenza 2013, p. 51.

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