di Enzo Bernardo
Vivono condizioni di lavoro difficili, con una precarietà sempre più forte, elevata età media, fenomeni di burn-out e scarsa organizzazione. Sono vittime di uno stigma sociale anti immigrati che ne complica le prestazioni e sono inseriti in un sistema di servizi che fatica a fare rete, schiacciato dalla perdurante logica dell’emergenza.
Questo in estrema sintesi il quadro delle condizioni di lavoro, nonché dei bisogni sottesi, di chi è impegnato nel sistema dei servizi pubblici per l’immigrazione. A tracciare un resoconto è una ricerca condotta dalla Funzione Pubblica Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, dal titolo ‘La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori dei servizi pubblici per l’immigrazione’. Un lavoro promosso dalla categoria dei servizi pubblici della Cgil in occasione dell’iniziativa ‘UeCare – L’Europa Solidale’, che si è tenuta a Palermo lo scorso 26 e 27 settembre (vedi https://www.fpcgil.it/2018/10/16/uecare-leuropa-solidale/)
Un appuntamento di carattere europeo – con esponenti sindacali, politici e istituzionali, esperti e studiosi, lavoratrici e lavoratori di diversi paesi europei – con un focus sul fenomeno della migrazione e sulle condizioni non solo dei servizi agli utenti ma anche del lavoro di chi fa parte della filiera che offre servizi all’immigrazione, in Italia come in altri paesi europei. Il tutto con l’obiettivo ultimo della costruzione di una rete europea dei lavoratori dei servizi ai migranti.
Per questa ragione la Fp Cgil, il sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori dei servizi pubblici, ha promosso una ricerca per ricostruire un aspetto poco noto, ovvero le condizioni di lavoro di chi opera nei servizi per l’immigrazione, coinvolgendo circa 40 operatrici e operatori. Nello specifico dagli operatori di front-office agli educatori e mediatori culturali delle cooperative sociali, dagli impiegati amministrativi ai medici e ai responsabili/coordinatori dei servizi, che attraversano i comparti delle Funzioni centrali dello Stato, delle Funzioni Locali, della Sanità pubblica e privata e del vasto mondo socio assistenziale e delle cooperative.
Si tratta di un campione dei circa 65 mila lavoratrici e lavoratori italiani impegnati nel segmento di soccorso, accoglienza e integrazione (che non comprende il contributo delle forze dell’ordine) e che la Fp Cgil ha cercato di analizzare dando loro voce. Dalla loro diretta testimonianza emerge come, spiega la ricerca, “l’Italia sia ormai stabilmente un Paese di migrazioni ma che non ha mai abbandonato la logica dell’emergenza”. Non sembra, infatti, “che il sistema dei servizi per l’immigrazione si sia adattato a questo scenario inedito per rispondere ai nuovi bisogni dell’integrazione, ad esempio rafforzando sia i servizi di accoglienza (per la quota di nuovi ingressi di persone richiedenti o beneficiarie di protezione internazionale) sia rispetto all’inclusione sociale e all’integrazione della componente di immigrati legalmente residenti da tempo, i quali per gran parte risultano ‘lungo soggiornanti’ se non in procinto di ottenere la cittadinanza italiana”.
Il sistema italiano dei servizi per l’immigrazione, si rileva nel report della ricerca“è il risultato di una incessante opera di collage e stratificazione di interventi, anche eterogenei tra di loro. Il mancato superamento della logica dell’emergenza ha reso particolarmente fragile la ricerca di una connessione coerente tra i vari livelli di intervento, a scapito dell’efficienza complessiva del sistema, nonché dei diritti di lavoratori e dei destinatari dei servizi”. Nella testimonianza delle lavoratrici e dei lavoratori intervistati emergono dei nodi critici: quelli del lavoro di rete e del coordinamento tra i vari attori del sistema; le inefficienze funzionali e le storture di tipo amministrativo, che si sommano al disegno disorganico del sistema dei servizi. Così come escono fuori “le contraddizioni e le ambivalenze più generali dell’opzione italiana ai servizi pubblici, tra dequalificazione del lavoro ed esternalizzazioni non sempre virtuose e governate, insieme alle perduranti differenze tra le aree territoriali del Paese”.
Nelle parole dei lavoratori emerge con chiarezza un lavoro che non fa rete. Nella ricerca si sottolinea “uno scarso coordinamento e una fragile integrazione tra gli attori del sistema, sia sul piano esplicito (con presenza o meno di coordinamenti formali tra i responsabili dei servizi, presenza di protocolli e procedure condivise, etc.) sia su quello di fatto”. Laddove vi sono relazioni proficue, di frequente queste sono demandate all’iniziativa locale e a relazioni già stabilite (ad esempio tra Enti locali e sistema cooperativo sociale per la gestione di altri servizi alla persona), per questa via i lavoratori rilevano un plus di incertezza e fatica per la costruzione e il mantenimento della rete.
Ma il cuore della ricerca è scandagliare le condizioni di lavoro, i bisogni e le rivendicazioni. Diversi gli elementi emersi, tra questi gli scarsi investimenti in formazione insieme a un elevato rischio di burn-out, nonché di sicurezza nel rapporto con gli utenti. La presenza di falle nella tutela contrattuale, specie per i lavoratori della cooperazione sociale. Allo stesso tempo una sostanziale differenza tra il mondo pubblico, con una elevata età media, e un mondo privato, soggetto a una precarietà spinta. Infine complicazioni nella gestione degli appalti con casi di scarsa legalità e, per ultimo, eccessive rigidità nell’organizzazione del lavoro, nella mobilità e nella valorizzazione professionale.
Condizioni, bisogni e rivendicazioni dei lavoratori, cosa emerge dalla ricerca
La situazione di contesto descritta dai lavoratori intervistati determina bisogni e rivendicazioni. A partire dal tema della formazione dove si evidenziano, spiegano i lavoratori, “canali assai diversi per l’accesso a quest’ultima, scarsa titolarità individuale del diritto alla formazione continua, aggiornamento on the job prevalentemente autorganizzato e non riconosciuto, differenze di accesso tra figure professionali che pure operano negli stessi servizi, mancanza di formazione congiunta anche per allineare il processo amministrativo e le relazioni tra i diversi attori”.
Sul tema salute, sicurezza e legalità si sottolinea il rischio di burn-out (trasversalmente: dalle professioni sociali a quelle amministrative), ma anche sicurezza nel rapporto con gli utenti. Inoltre, la percezione dei servizi e del suo ‘sistema’ da parte dei lavoratori si concentra fondamentalmente intorno a rappresentazioni di provvisorietà e incertezza (finanziamento, normativa, continuità del lavoro, etc.). Ciò si ritrova soprattutto rispetto al tema della legalità, in una cornice di discorso pubblico dettato dalla contingenza politica e da rappresentazioni distorsive (es. il ‘business della solidarietà’). I lavoratori, si legge nella ricerca, “spesso ‘respirano’ lo stigma sociale rivolto a coloro che sono impegnati sul tema dell’immigrazione. Vengono segnalate, ovviamente, le responsabilità del discorso pubblico e politico ma i lavoratori si concentrano anche sul ruolo che la struttura burocratica agisce nel dividere i lavoratori gli uni dagli altri”.
Quanto al tema della tutela contrattuale, la ricerca osserva come i lavoratori facciano riferimento a quella diretta, prevista dai contratti, e quella che si concretizza in vertenze soprattutto sulla mancata erogazione del salario delle lavoratrici e dei lavoratori della cooperazione sociale. I bandi (SPRAR e non solo) mancano ancora di una definizione precisa sul piano dei requisiti contrattuali e alle qualifiche degli operatori. Si segnalano, inoltre, “appalti al ribasso, cooperative e soggetti gestori disinvolti nella gestione economica e amministrativa, vertenze sindacali e lesione dei diritti dei lavoratori in diverse aree del Paese, ma soprattutto nelle regioni del Meridione”. Tutto ciò specialmente nei servizi maggiormente segnati da una logica emergenziale o securitaria (Cie, CAS).
Molti lavoratori risultano in (o provengono da) una condizione di precarietà occupazionale (Prefetture, cooperazione sociale) che peraltro si accentua in assenza di strutture stabili e riconosciute (es. servizi di emergenza per gli sbarchi e rapporto con il SSN). Naturalmente, si legge ancora, “la diffusione di contratti di lavoro temporanei (tempi determinati, collaborazioni, somministrazione) è anche diffusa nella cooperazione sociale. Ciò pare legarsi sia a strategie aziendali sia alla natura e alla durata di convenzioni e appalti con la pubblica amministrazione. Specie nel campo dell’accoglienza dei migranti questa risulta suscettibile di considerevoli variazioni in base ai flussi, ma anche a causa di una programmazione di breve periodo e alla scarsa lungimiranza dei soggetti committenti”.
Sulla questione legalità e appalti, “il tema resta cruciale nonostante la diffusione di protocolli promossi da sindacato ed Enti locali per procedure trasparenti e valorizzazione del lavoro nella prestazione di opere, beni e servizi rivolti alla pubblica amministrazione (specie in settori ad alta partecipazione occupazionale di migranti)”. Diversi gli episodi di assistenza del sindacato per vertenze dei lavoratori della cooperazione sociale, in caso di crisi finanziaria delle cooperative o lesione di diritti contrattuali, e nei confronti degli Enti pubblici per questioni relative alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro.
Infine, sul tema organizzazione del lavoro, mobilità e valorizzazione professionale, i lavoratori lamentano “uno scarso allineamento degli orari tra i vari servizi e incerta adattabilità degli orari ai bisogni degli utenti (specie dei servizi comunali e statali), mentre la massima flessibilità è ordinaria nel lavoro della cooperazione sociale, pur in assenza (in genere) di meccanismi contrattualizzati di flessibilità positiva (banca ore, recuperi, permessi e congedi aggiuntivi)”. In Questure e Prefetture si registra una maggiore rigidità dell’orario di lavoro, salvo picchi di attività. Si segnala la necessità di aggiornamento della strumentazione e dei sistemi informativi e omogeneità delle banche dati. Scarsa valorizzazione delle competenze nel settore pubblico, polifunzionalità non certificata e a volte sostitutiva. Il personale della cooperazione è coinvolto in una dimensione ambivalente: tra percorsi di crescita sul tema immigrazione e assegnazione improvvisata specie tra le qualifiche più basse (es. dal lavoro di assistenza ad anziani e non autosufficienti ai centri di accoglienza per migranti).
Quanto alla valorizzazione professionale, i lavoratori sottolineano “scarsa rilevanza di percorsi ascendenti dei lavoratori, specie per gli addetti degli sportelli e degli uffici rivolti ai cittadini. Limitata (e comunque inferiore alle potenzialità) acquisizione di competenze anche negli Enti centrali e nei Ministeri che pure sono promotori di progetti di integrazione e movimentano risorse consistenti di fonte europea (Fondo sociale europeo, Pon e Por tematici, progetti Fami) a causa dell’utilizzo di risorse specialistiche di altri enti/agenzie pubbliche e anche da parte di società di consulenza private”. Nel complesso, specialmente nei comparti pubblici si lamenta una scarsa, o assente, mobilità professionale, anche a fronte dell’acquisizione di titoli di istruzione specialistica o formativi sul tema immigrazione.
La dichiarazione di Palermo: una rete dei lavoratori per l’integrazione
Le lavoratrici ed i lavoratori che operano nei processi migratori sono lavoratrici e lavoratori europei, non di una singola nazionalità. Il loro compito fondamentale, transnazionale, è quello di lavorare per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti per conto di tutta l’Europa.
Sino ad oggi il loro isolamento nazionale, la mancanza di adeguate risorse e investimenti e la necessità di lavorare sempre sull’emergenza, hanno creato condizioni di lavoro stressanti e gravi difficoltà. Ciò non sempre permette che il lavoro svolto sia adeguato alla domanda.
“Anzi, il tema chiave della carenza delle risorse, in tutta Europa, dovuto all’approccio sbagliato alla crisi economica, in particolare nei servizi pubblici che si occupano dell’accoglienza, cura e integrazione dei nuovi arrivati, nonché l’assenza di una politica comune europea, vengono negati per squallide ragioni politiche ed elettorali.”
“Per costruire una Europa solidale che possa accogliere e gestire la migrazione in maniera qualitativamente adeguata, creando un sistema strutturato e costante, unico per tutta l’Unione, è necessario sviluppare standard comuni e strumenti che permettano a tutti i lavoratori pubblici dell’Unione, indipendentemente dalla loro nazionalità, di lavorare nella stessa direzione. In particolare bisogna procedere cambiando prima di tutto la legislazione che con le regole di Dublino ha caricato in maniera sproporzionata i paesi della frontiera sud.”
Vanno stanziate dall’Unione risorse adeguate che aumentino il bilancio relativo ai temi migratori che da una parte tengano conto delle dignità e dei diritti delle persone migranti e dall’altra investano e valorizzino il lavoro di chi si occupa dei migranti, indipendentemente dalla gestione (cooperative, Ong, amministrazione pubblica), sviluppando un ruolo fondamentale di integrazione e difesa dei valori democratici della Unione Europea.
I sindacati europei pensano che sia necessario, creare una rete europea delle lavoratrici e dei lavoratori per l’accoglienza, che possa avviare una interlocuzione in ambito europeo con le Istituzioni.
L’obiettivo è di arrivare a stabilire legislativamente almeno adeguati standard sociali minimi europei tramite il dialogo sociale europeo, crossettoriale portando l’Unione europea a valorizzare il lavoro pubblico per l’accoglienza, a superare le difficoltà delle lavoratrici e dei lavoratori.
La rete europea dei lavoratori e delle lavoratrici per l’accoglienza può essere inoltre un soggetto che rafforza il ruolo del sindacato a livello internazionale nelle politiche dei servizi pubblici per la migrazione, ruolo riconosciuto nel promuovere l’accesso dei migranti ai servizi di base, come da impegno preso nel ‘United Nations global compact on migration, approvato l’11 e 12 dicembre a Marrakech (vedi https://italy.iom.int/it/global-compact-una-migrazione-sicura-ordinata-e-regolare)
Il lavoro della rete dovrà anche cercare di influenzare le prossime elezioni europee del maggio 2019, chiedendo alle forze politiche progressiste, di presentare nella loro agenda politica, il tema di una gestione umana e di qualità dei servizi, anche come straordinario antidoto al riemergere del fascismo, del razzismo e della xenofobia.
Sappiamo bene che c’è in Europa una situazione generale di crisi e di ingiustizia sociale, di mancato soddisfacimento dei diritti, non da ultimo in ambito lavorativo, e c’è chi usa e strumentalizza le paure e le incertezze di categorie sociali sempre più ampie accentuando pericolose divisioni tra lavoratori e cittadini.
Il testo della dichiarazione è disponibile su https://www.epsu.org/article/2018-6-7-november-documents-adopted-executive-committee