EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Quando arriveremo alla fine della storia, ne sapremo di più.

di Alberto Basoalto

Interrogarsi sulla fiaba non è riprendere qualcosa  che crediamo relegato all’infanzia. La fiaba, invece, può aiutarci a capire e dare un senso, a inoltrarci nel lungo percorso dell’analisi e, ancor più, ad affrontare il capitolo, mai troppo visitato, della consistenza favolistica dell’esistenza.

Il libro di Lella Ravasi Bellocchio, La Fiaba siamo noi, di Cortina Editore, comincia con la sua riflessione con  una delle espressioni più  forti trasmessaci, al proposito, da Italo Calvino: La fiaba siamo noi.

Il periodo storico che stiamo affrontando è certamente uno di quei momenti in cui il pensiero delirante dell’onnipotenza da parte di pochi può condurci alla guerra. La Regina delle nevi, sostiene l’autrice, si è impadronita di un pensiero collettivo nutrito di fake news e trascina nell’irrealtà soggetti fragili psicologicamente e onnipotenti in modo schizoide sul piano fantastico.

Se lo scenario è questo, la fiaba, però, ci può ancora salvare, ne può alleviare il dolore. Le storie della vita possono diventare fiabe viventi e, fare analisi, consiste proprio raccogliere queste storie.

Non c’è analisi senza lavoro del lutto, ci dice  Elena Ravasi Bellocchio, impossibile senza una clinica poetica che comprende riflessione, inconscio e versi, che come illumina una luce illumina il buio, storia di antenati e di contemporanei, storia del mondo in noi.

Costruire, elaborare e trasmettere un mito, può, in questo mondo apparentemente molto lontano dalla realtà, aiutarci a ricostruire, a comprendere e a sopportare il dolore. Il mito come dice Paul Valery è tutto ciò che esiste e sussiste avendo solo la parola per causa. Esso  comincia a dare un senso alle cose proprio dove il logos non appare più capace di addurre spiegazioni. È questo forse il caso del dolore. 

Come si potrebbe spiegare facendo solo riferimento al linguaggio scientifico? Cosa può apportare di creativo e di salvifico un linguaggio, quello scientifico, che si spiega con se stesso, che è tautologia. Il mito, la favola appaiono  lontani da questa impasse, ci offrono, uno spazio o degli spazi, che non sono vuoto, che non sono assenza o delirio, ma recuperano di quella dimensione conoscitiva che ci permette di trovare punti di appoggio, se pur non definitivi, dai quali poter poi ripartire.

Ecco! Incominciamo. Quando arriveremo alla fine di questa storia, ne sapremo di più di quello che sappiamo adesso, scrive l’autrice citando Andersen. La frase coglie in pieno la potenza epistemologica del racconto, della favola: alla fine della storia ne sapremo di  più. Questa certezza ci tiene legati alla trama, come possiamo essere certi altrettanto che, questo legame, è della stessa natura di  quello che unisce terapeuta e paziente, non potrebbe essere altro. Alla fine ne sapremo di più, è ciò  che ci unisce alla narrazione, al conoscerne l’esito e un seguito, ricerca di un finale e del suo farsi limite oltrepassabile. 

Ulisse, che Omero ci ha trasmesso attraverso uno dei miti più usati e abusati, è protagonista del suo ritorno e il suo viaggio sembrerebbe concludersi nella tanto agognata Itaca. Se non fosse che, Ulisse non può esistere se non produce mito, egli stesso è una fiaba che deve essere raccontata, quindi, una volta tornato, si predispone ad una nuova partenza. Perché, per tornare all’immagine di Andersen, la conoscenza è mito, e il mito, come si diceva, si libera dalle pastoie del logos. E ci soccorre anche di fronte al dolore, al lutto.

Il lavoro del lutto, ci ricorda l’autrice, è fisico e psichico. Il lavoro del lutto è nel corpo che si fa immagine che corre via…. L’ombra dell’altro è sempre con noi. Il lamento dei morti ci coinvolge nella vita al posto loro.

Il lavoro del lutto si carica sulle spalle perché tocca ai sopravvissuti. Cosa ci può aiutare a reggere il peso della nostra storia? Di quella vissuta, quella della quale ne vogliamo sapere di più? Della storia dei lutti, quella che si carica sulle nostre spalle in quanto sopravvissuti? La risposta forse è nella domanda. Il mestiere di analista, diceva Jung, è un mestiere di Pionieri, occorre allenarsi e disegnare strade nuove, con l’Eros come antagonista da sempre, alle pulsioni della morte e della banalità del male.


Lella Ravasi Bellocchio

La Fabia siamo noi

Storie che ci possono salvare

Raffaello Cortina Editore, 2022


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