EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Quando il bambino dice no

di Jean-Louis Le Run

(ITA-FRA originale in fondo)

Abbiamo tutti incontrato bambini oppositivi. In clinica sono casi per cui non si impazzisce. Non vi dicono ‘buongiorno’, rifiutano di parlare e di disegnare, insomma rifiutano tutte le vostre proposte, scattano immediatamente, si arrabbiano, si rotolano per terra e hanno la fastidiosa tendenza a mettere a soqquadro il vostro studio. Non sono mai contenti ogni volta che gli chiedete di entrare in studio, vogliono rimanere nella sala d’attesa, ma nel momento in cui volete congedarvi, allora non vogliono lasciare l’ufficio. Mettono alla prova i vostri nervi e la vostra pazienza, finite per strapparvi i capelli proprio come i loro genitori sopraffatti i quali vi causano un aumento di nervoso per la loro passività o per i loro interventi inadeguati se non violenti che non fanno altro che infiammare il piccolo. Se si tratta di un adolescente, vi offrirà un silenzio testardo, sguardi ostili, urla volentieri contro i genitori, chiude la porta sbattendola. Adora stressarvi tagliandosi gli avambracci o impuntarsi al centro della crisi mentre voi vi siete dannati per dargli un senso. La scuola per il bambino e le medie per l’adolescente vi stanno addosso quando non vi piombano direttamente addosso poiché vorrebbero sbarazzarsi il più in fretta possibile di quel soggetto ingombrante che aggredisce gli altri alunni e insulta gli insegnanti. E in quel momento vi chiedete “ ma perché ho accettato di seguirlo, perché proprio io, perché non l’ho lasciato al collega che faceva il broncio quando gliene ho parlato, insomma perché non sono stato capace di dire di no?”

Saper dire ‘no’ non è cosa da tutti, e sempre più sembra che i genitori abbiano difficoltà a usare questa parola con i loro figli. In un senso caricaturale, meno il genitore utilizza il ‘no’ e più vi ricorre il bambino. In passato i genitori dicevano ‘no’ praticamente a ogni cosa, oggi lo fanno i figli. Passerò per un vecchio reazionario nostalgico quando – sono un ragazzo del Sessantotto, quindi 50 anni fa – dicevo assolutamente “Vietato vietare” assieme ai miei compagni dell’epoca.

Per comprendere queste condotte oppositive, potrebbe essere utile interessarsi al ‘no’? «L’io nasce nell’opposizione», sottolineava Cartesio. Il ‘no’ è fondamentalmente intersoggettivo, si rivolge a qualcuno che chiede oppure ordine qualcosa. Infine, può anche esistere nel sé, per esempio quando si afferma “No, quello non lo farei mai”, il che potrebbe portare a dibattiti interiori nell’Io fra il ‘quello’ e il Super-Io come ha saputo Milou. Aristotele scriveva: «I desideri nascono in lotta gli uni contro gli altri, questo si produce quando ragione e appetiti combattono gli uni contro gli altri: questo accade agli esseri che hanno la percezione del tempo. L’intelletto da un lato ci ordina di resistere in vista dell’avvenire, l’appetito invece ci spinge soltanto in vista dell’immediato, poiché il piacere del momento sembra essere assolutamente gradevole e assolutamente buono per il fatto che non si vede il futuro». È, tra le altre, la capacità di proiettarsi verso un futuro migliore che permette di rinunciare alla soddisfazione immediata.

Di fatto, l’opposizione accompagna l’essere umane durante l’arco della sua esistenza, è un fenomeno costitutivo dello sviluppo. Alcune forme di opposizione sono formative dalla prima infanzia all’adolescenza, necessarie per la costruzione della personalità, alla soggettivizzazione. Tipicamente dall’adolescenza, l’opposizione è il simbolo della propria autonomia, della propria affermazione attraverso la liberazione dai valori e dai rifugi degli adulti che lo circondano. Tra i 18 e i 36 mesi, il piccolo si oppone per il piacere del ‘no’. Lo psicanalista Daniel Spitz ne ha addirittura fatto uno stadio, il terzo dopo quello del sorriso e l’angoscia dell’ottavo mese. Di fronte a un limite posto dai genitori, preso nel conflitto fra il timore di perdere l’oggetto o il suo amore e l’aggressività generata dalla frustrazione, il bambino realizza un compromesso facendo ricorso a un’alternativa dall’identificazione all’aggressione, ci dice Spitz. Il ‘no’ incorporato all’io è investito di aggressività e diventa adeguata per esprimerla e, «questa identificazione con l’aggressione sarà seguita da un attacco contro il mondo esterno. Una volta raggiunto, il periodo di testardaggine del secondo anno può cominciare».

Inizia allora una fase che metterà alla prova non soltanto l’autorità dei genitori, ma anche la loro capacità di tenuta nella misura in cui le frustrazioni che si impongono al bambino possono suscitare in lui dello sgomento o collera ma sono comunque strutturanti. La fase comincia, ma in certi casa farà molta fatica a fermarsi. Tutto dipende dal modo in cui il bambino potrà introiettare i limiti imposti dai genitori e dunque dalla qualità della relazione fra i protagonisti: relazione sicura o meno, legame ben saldo, divieti coerenti o incoerenti, pose narcisistiche ben stabilite o no, strumenti anche per contenere le reazioni alla frustrazione o briglie addirittura inesistenti, evoluzione dall’io ideale verso l’ideale dell’io.

È dunque l’accesso all’intersoggettività, la differenziazione che permetterà di passare dal ‘no’ al ‘sì’. Essa si sviluppa se il bambino è riconosciuto nella propria individualità, nella sua condizione di soggetto, e anche se può sviluppare una sensazione di sicurezza, di continuità e affidabilità negli oggetti di attaccamento. Ciò rimanda senza dubbio alla questione dell’affetto.

Per tornare alla clinica delle condotte dell’opposizione, avrete senza dubbio riconosciuto nel quadro un po’ caricaturale che ho delineato all’inizio tutti i criteri del DSM V sui disturbi oppositivi e provocatori che fanno parte dei problemi esternati. Sotto la semplicità apparente della descrizione che ne esce da questa classificazione, si nasconde in realtà una psicopatologia complessa in cui non ci si interessa solamente al comportamento manifestato ma in cui si cerca di comprendere ciò che si crea fra bambini e i loro oggetti parentali, scolastici o terapeutici.

A volte l’opposizione marca una risposta comportamentale del bambino a un ambiente parentale poco adatto, se non lacunoso: un’educazione troppo rigida in contesti di scontro multipli in cui il genitore esige e il figlio rifiuta; un ambiente di super-protezione genitoriale che impedisce al figlio di fare esperienza di sé; delle risposte da parte dei genitori poco prevedibili, incoerenti o dei limiti non appropriati e addirittura assenti. In questi casi, il bambino o l’adolescente manca di punti di riferimento strutturanti o di possibilità di affermarsi e l’opposizione può diventare un sistema di risposta all’ansietà suscitata dall’ambiente. Ma il bambino può ugualmente ricevere dei benefici nell’opporsi che non a sottomettersi, l’opposizione può divenire poco a poco costitutiva dell’interazione con l’altro. Altre volte ancora, alcuni bambini manifestano delle reazioni di opposizione intense e ripetute come se disponessero naturalmente di scarse strategie di regolazione delle proprie emozioni, in linea con delle difficoltà nei legami, un sentimento di insicurezza. La questione dell’opposizione va oltre il semplice problema di autorità genitoriale, spesso trascinata in modo abusivo nel campo dell’infanzia. È all’intersezione fra svariate problematiche, intimamente legate e che hanno la radice nella genesi del sé e della relazione con l’oggetto.

Questi bambini sembrano prigionieri di un comportamento distruttivo verso gli altro che per loro è decisamente pregiudizievole in termini di socializzazione e di scolarizzazione. Come capire questo accanimento per spezzare le catene di cui potranno beneficiare? Che cosa rende inaccettabile per loro la richiesta del prossimo? Perché l’opposizione perdura oltre la prima infanzia? Questi bambini sembrano sostenersi all’opposizione come una casa pericolante si appoggia alle impalcature. È la forza opposta che lo sostiene. Questa metafora consente di illustrare l’associazione di una fragilità delle posizioni narcisistiche e della puntellatura difensiva sull’opposizione. Sembra che in questa situazione il desiderio dell’altro sia vissuto come una minaccia dal bambino, come qualche cosa che annulla, che nega, la sua identità. Come sottolinea Freud, l’inconscio non conosce il negativo, il ‘no’ proviene sempre dall’io, segna un limite affermando una soggettività di fronte a qualcosa che non è accettabile e non è accettato. Se il ‘no’ e l’opposizione nei primi anni di vita testimoniano la costituzione precoce dell’io, dell’identità del bambino come soggetto differenziato, non è possibile pensare che le condotte oppositive più marcate corrispondano a un sentimento di identità minacciato insieme a una costruzione originaria fragile? In questo contesto, dire ‘no’, opporsi, sarebbe un modo di ritrovare o di mantenere la propria unità di fronte al desiderio dell’altro che va dalla domanda alla costrizione e che è percepito dal bambino al pari di una minaccia. In tempo di pace, pulsione erotica e pulsione di morte si legano, il legame pulsionale funziona, ma in tempo di conflitto è la distruzione che gratifica l’istinto di sopravvivenza. Questa metafora bellica ci consente di cogliere che i bambini oppositivi e distruttori lo sono perché si sentono, a torto o a ragione, minacciati.

Con questi bambini oppositivi che compromettono il dispositivo psicoterapeutico e che si iscrivono in una negatività talvolta impressionante, si è tentati di invocare la terapia del negativo verso cui gli psicanalisti degli adulti che si sono imbattuti in stati-limite e in personalità narcisistiche si sono rivolti negli ultimi anni sulla scia di Guillaumin e André Green. I filosofi hanno sviscerato a fondo la questione cominciando dai presocratici come Eraclito che diceva: «La strada per cui si sale e per cui si scende è una: la stessa», per sottolineare come il contrario, il negativo, sia l’altra faccia di una verità. O ancora: «L’armonia del mondo si ha per tensioni opposte, come per la lira o per l’arco […] Ciò che è tagliato in senso contrario si assembla, da ciò che differisce nasce la più bella armonia ed è il disordine che produce le cose». In una certa filiazione con questa concezione di verità, Hegel ha introdotto la nozione di lavoro del Negativo.

L’idea di Hegel è che per raggiungere la verità il negativo non annulla il positivo ma lo media in un processo dialettico continuo: tesi, antitesi, sintesi che si rincorrono senza fine. Ripresa da André Green, l’idea di “lavoro del negativo” ci permette di osservare sotto una nuova luce i fenomeni negativi descritti da Freud e da autori come Mélanie Klein, Winnicott e Bion e che Green estende per chiarire la clinica del negativo, la nozione di pulsione di morte e la distruttività che si ritrova nella melanconia, gli stati limite e la psicosi o nella compulsione per la ripetizione, le reazioni terapeutiche negative. Il ‘no’ protegge l’Io, lo si ritrova nei meccanismi di difesa della rimozione, del rifiuto, della negazione. In questa prospettiva, non dovremmo cogliere l’intero valore difensivo per l’Io di questi comportamenti? Non cercheremo più, allora, di ridurli direttamente ma di trattare ciò che costringe il bambino o l’adolescente a metterli in atto secondo situazioni differenti.

Sembra dunque dirimente capire ciò che sottende questa opposizione. Tutti questi bambini, ragazzi, adolescenti che si oppongono ai loro genitori, ai loro insegnanti, ai professionisti della cura, alla società, a cosa si oppongono in realtà? Qual è il valore dell’opposizione nell’economia psichica del soggetto o in seno alle dinamiche familiari? Cercheremo di comprenderne le sfide, di conoscere ciò che cerchiamo. Per quale ragione questo bambino o adolescente è in lotta, affronta, rifiuta questa cosa invece che quella? Ci sembra importante superare i limiti tra l’approccio nosologico psichiatrico e una prospettiva più ampia tenendo conto dell’opposizione come un sintomo significativo.

Come diceva Eraclito, «Il tempo è un bambino che gioca con le tessere della scacchiera; la signoria è di un bambino».

(trad. Luigi Serrapica)

testo originale

Nous avons tous rencontré des enfants opposants. En clinique ce sont des cas dont non ne raffole pas forcément. Ils ne vous disent pas bonjour, refusent de parler de dessiner, bref rejettent toutes vos propositions, ils démarrent au quart de tour, se mettent en colère, se roulent par terre et ont la fâcheuse tendance à mettre en désordre votre bureau. Ils ne sont jamais contents, lorsque vous leur demandez de venir dans le bureau, ils veulent rester dans la salle d’attente, mais lorsque vous voulez prendre congé, ils ne veulent plus quitter le bureau. Ils mettent vos nerfs et votre patience à l’épreuve, vous finissez par vous arracher les cheveux tout comme leurs parents dépassés qui vous procurent un surcroit d’énervement par leur passivité ou leurs interventions inadaptées voir violentes qui ne font qu’enflammer le charmant bambin. S’il s’agit d’un adolescent il vous offre un silence buté, des regards hostiles, il s’engueule volontiers avec son parent, se tire en claquant la porte. Il adore vous stresser en s’entaillant les avant-bras ou en se taillant du centre de crise où vous avez eu toutes les peines du monde à lui trouver une place. L’école pour l’enfant, le collège pour l’ado vous mettent la pression quand ils ne vous tombent pas carrément dessus car ils voudraient être débarrassés au plus vite de cet encombrant sujet, qui agresse les autres élèves, insulte les enseignants. Et là vous vous dites « mais pourquoi j’ai accepté de le suivre celui-là, pourquoi moi, pourquoi ne pas l’avoir laissé au collègue qui faisait la moue quand on en parlait, bref pourquoi je n’ai pas su dire non ».

Savoir dire non…ce n’est pas donné à tout le monde, et de plus en plus de parents semblent avoir des difficultés à user de ce mot avec leur enfant. D’une façon caricaturale moins le parent emploie le non plus l’enfant en fait usage. Autrefois les parents disaient non à peu près à tout, aujourd’hui ce sont les enfants. Mais je vais passer pour un vieux réac nostalgique alors que pas du tout, je suis un enfant de soixante-huit, c’était il y a 50 ans, « Il est interdit d’interdire », que je disais à l’époque avec les copains.

Pour comprendre ces conduites d’opposition peut-être faut-il commencer par s’intéresser au non ? « Le moi se pose en s’opposant », soulignait Descartes. Le non est fondamentalement intersubjectif, il s’adresse à quelqu’un qui demande ou ordonne quelque chose. Enfin il peut aussi exister entre soi et soi… par exemple quand on se dit « non cela je ne le ferais pas », ça peut donner des débats intérieurs dans le moi entre le ça et le surmoi comme Milou en a connu.  Aristote écrivait : « les désirs naissent en lutte les uns contre les autres, et cela se produit quand raison et appétits militent en sens contraires. C’est le propre des êtres qui ont la perception du temps. L’intellect nous pousse à résister en considération de l’avenir, l’appétit nous entraîne dans la seule vue de l’immédiat, car le plaisir du moment paraît être agréable absolument… du fait qu’on ne voit pas l’avenir ». C’est entre autres la capacité à se projeter dans un avenir meilleur qui permet de renoncer à la satisfaction immédiate.

En fait l’opposition accompagne l’être humain tout au long de son existence, elle est un phénomène constitutif du développement. Certaines formes d’opposition sont structurantes dès la petite enfance et à l’adolescence, nécessaires à la construction de la personnalité, à la subjectivation. Classiquement chez l’adolescent, l’opposition est le symbole de son autonomisation, de son affirmation par le dégagement des valeurs et repères des adultes qui l’entourent. Entre 18 et 36 mois, le petit enfant s’oppose par le plaisir du non. Le psychanalyste Daniel Spitz en a même fait un organisateur, le troisième après le sourire et l’angoisse du 8éme mois. Devant une limite posée par le parent, pris en conflit entre la crainte de perdre l’objet ou son amour et l’agressivité générée par la frustration, l’enfant réalise un compromis par le biais d’une variante de l’identification à l’agresseur nous dit Spitz. Le non incorporé au moi est investi d’agressivité et devient adéquat pour exprimer celle-ci et, « cette identification avec l’agresseur sera suivie d’une attaque contre le monde extérieur. Une fois ce pas accompli, la période d’entêtement de la deuxième année peut commencer ».

Commence alors une phase qui va mettre à l’épreuve non seulement l’autorité des parents, mais aussi leur capacité contenante dans la mesure où les frustrations qu’ils imposent à l’enfant peuvent susciter du désarroi ou de la colère chez lui mais sont aussi structurantes. Elle commence, mais chez certains elle aura beaucoup de mal à s’arrêter ! Tout va dépendre de la façon dont l’enfant pourra introjecter les limites posées par les parents et donc de la qualité de la relation entre les protagonistes : relation sécure ou non, lien bien constitué, interdits cohérents ou incohérents, assises narcissiques bien établies ou non, enveloppes à même de contenir les réactions à la frustration ou lâches voire inexistantes, évolution du moi idéal vers l’idéal du moi.

C’est donc l’accès à l’intersubjectivité, la différenciation qui permettra de passer du non au oui. Celle-ci se développe si l’enfant est reconnu dans son individualité, sa condition de sujet et aussi lorsqu’il peut développer un sentiment de sécurité, de continuité et de fiabilité dans ses objets d’attachement. Cela renvoie bien sûr aussi à la question de l’attachement.

Pour revenir à la clinique des conduites d’opposition, vous aurez sans doute reconnu dans le tableau un peu caricatural que j’ai dressé au début tous les critères du DSM V sur les troubles oppositionnels avec provocations qui font partie des troubles externalisés. Sous la simplicité apparente de la description qu’en donne cette classification, se cache en fait une psychopathologie complexe dès qu’on ne s’intéresse pas seulement au comportement manifeste mais qu’on essaie de comprendre ce qui se joue entre ces enfants et leurs objets parentaux, scolaires ou thérapeutiques.

Parfois l’opposition signe une réponse comportementale de l’enfant à un environnement parental peu adapté, voire défaillant : une éducation très stricte dans des contextes d’affrontement multipliés où le parent exige et l’enfant refuse ; un environnement de surprotection parentale empêchant l’enfant de faire l’expérience de soi ; des réponses parentales peu prévisibles, incohérentes ou des limites non appropriées, voire absentes. L’enfant ou adolescent manque dans ce cas de repères structurants ou de possibilités de s’affirmer et l’opposition peut devenir un système de réponse à l’anxiété suscitée par l’environnement. Mais l’enfant peut également percevoir plus de bénéfices à s’opposer qu’à se soumettre, l’opposition devenant peu à peu constitutive de l’interaction à l’autre. Parfois encore, certains enfants manifestent des réactions d’opposition intenses et répétées comme s’ils disposaient naturellement de peu de stratégies de régulation de leurs propres émotions, en lien avec des difficultés d’attachement, un sentiment d’insécurité. La question de l’opposition dépasse un simple problème d’autorité parentale, souvent amené de façon abusive dans le champ de l’enfance. Elle est au carrefour de plusieurs problématiques, intiment liées et prenant racine dans la genèse du soi et du rapport à l’objet. Elles seront abordées tout au long de cette journée.

Ces enfants semblent enchainés à un comportement destructeur vis-à-vis des autres qui leur est très préjudiciable en termes de socialisation et de scolarité. Comment comprendre cet acharnement à briser finalement les liens dont ils pourraient bénéficier ? Qu’est-ce qui fait que la demande de l’autre n’est pas acceptable pour eux ? Pourquoi l’opposition perdure au-delà de la toute petite enfance ? Ces enfants semblent s’appuyer sur l’opposition comme une maison menaçant de s’écrouler s’appuie sur des étais de soutien. C’est la poussée contraire qui les maintient. Cette métaphore permet d’illustrer l’association d’une fragilité des assises narcissique et d’un étayage défensif sur l’opposition. Il semble que dans ces situations le désir de l’autre soit vécu comme une menace par l’enfant, comme quelque chose qui annule, qui nie son identité. Comme le souligne Freud, l’inconscient ne connait pas le négatif, le non émane toujours du moi, il marque une limite en affirmant une subjectivité face à quelque chose qui n’est pas acceptable et pas accepté. Si le non et l’opposition dans les premières années témoignent de la constitution du moi précoce, de l’identité de l’enfant comme sujet différencié, ne peut-on penser que les conduites d’opposition plus marquées correspondent à un sentiment d’identité menacée en lien avec une construction originaire fragile ? Dans ce contexte, dire non, s’opposer serait une façon de retrouver ou de maintenir son unité face à un désir de l’autre qui va de la demande à la contrainte et qui est ressenti par l’enfant comme une menace. Par temps de paix, pulsion érotique et pulsion de mort se lient, la liaison pulsionnelle fonctionne, mais par temps de guerre c’est la destruction qui prime via l’instinct de survie. Cette métaphore guerrière nous permet de saisir que les enfants opposants, destructeurs le sont parce qu’ils se sentent à tort ou à raison menacés.

Avec ces enfants opposants qui mettent à mal le dispositif psychothérapique et qui s’inscrivent dans une négativité parfois impressionnante, on est tenté d’évoquer la clinique du négatif auxquels les psychanalystes d’adultes confronté aux états limites et aux personnalités narcissiques se sont intéressés ces dernières années dans les traces de Guillaumin, et André Green. Les philosophes ont beaucoup développée cette question à commencer par les présocratiques comme Héraclite qui disait « La route qui monte et qui descend est une seule et la même » pour souligner comment le contraire, le négatif était l’autre ace d’une vérité. Ou encore « L’harmonie du monde est par tensions opposées, comme pour la lyre ou pour l’arc…. Ce qui est taillé en sens contraire s’assemble, de ce qui diffère nait la plus belle harmonie, et c’est le désordre qui produit les choses ». Dans une certaine filiation avec cette conception de la vérité, Hegel à introduit la notion de travail du Négatif

L’idée de Hegel est que pour atteindre la vérité le négatif n’annule pas le positif mais le médiatise dans un processus dialectique continu, thèse antithèse synthèse qui se poursuit sans fin.  Repris par André Green, l’idée de « travail du négatif » nous permet de voir sous un jour nouveau les phénomènes négatifs décrit pas Freud et des auteurs comme Mélanie Klein, Winnicott et Bion et que Green étend pour éclairer la clinique du négatif, la notion de pulsion de mort et la destructivité telle qu’on les rencontre dans la mélancolie, les états limites et la psychose ou dans la compulsion de répétition, les réactions thérapeutiques négatives. Le non protège le Moi, on le retrouve dans les mécanismes de défense du refoulement, du déni, de la dénégation. Dans cette perspective ne devons-nous pas saisir toute la valeur défensive pour le moi de ces comportements ? Nous ne cherchons plus alors à les réduire directement mais à traiter ce qui contraint l’enfant ou l’adolescent à les produire selon des situations différentes.

Il apparaît donc primordial de comprendre ce qui sous-tend cette opposition. Tous ces jeunes enfants et adolescents qui s’opposent à leurs parents, à leurs enseignants, aux professionnels du soin, à la société, à quoi s’opposent-ils réellement ? Quelle est la valeur de l’opposition dans l’économie psychique du sujet ou au sein de la dynamique familiale ? On cherchera ici à en comprendre les enjeux, à savoir ce qui est atteint. Pourquoi cet enfant/adolescent est en lutte, affronte, refuse quelque chose de l’autre ? Il nous apparaît important de surmonter les limites entre l’approche nosologique psychiatrique et une perspective plus large tenant compte de l’opposition comme un symptôme qui fait sens.

Comme disait Héraclite, « Le temps est un enfant qui joue au tric trac, le royaume est celui d’un enfant ».

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