di Luigi Serrapica
Esiste un legame molto stretto tra una comunità sociale e il teatro, inteso come istituzione culturale, che la rappresenta. Un dialogo intenso fra una città e il suo teatro, fra il pubblico e gli artisti e le maestranze che rendono possibile la creazione di spettacoli dal vivo. La presenza è ciò che rende diversa quest’ arte da quella cinematografica, un rapporto quasi alla pari. Una magia che lega gli artisti agli spettatori e che rende possibile la finzione scenica, senza la necessità di molti effetti speciali.
Questo rapporto simbiotico fra città e teatro, tuttavia, non si esaurisce solo nella messa in scena di uno spettacolo, ma lo precede. Il teatro è uno spazio politico, come spiega Ilaria Riccioni, professore aggregato all’Università di Bolzano, nel suo recente Teatro e società: il caso dello Stabile di Bolzano. Attori e politici vivono della stessa realtà , una realtà che difficilmente potrà essere sostituita da succedanei .
– Professoressa, lei sostiene che “il teatro, inteso come spazio pubblico, ha un implicito rapporto con la politica intesa come arte della realtà pubblica”. Un intreccio che, tuttavia, sembra essere meno forte alla luce del disimpegno sociale e politico che pare segnare la nostra epoca. Secondo lei, teatro e politica continuano ad andare a braccetto?
– Sicuramente si, ma le dirò di più, il teatro è una forma di resistenza sociale che di fatto, soprattutto nella nostra epoca, può avvicinare anche le giovani generazioni alla politica. Il teatro, in quanto spettacolo dal vivo, ha la potenzialità di far emergere aspettative, impegno, senso della collettività e di appartenenza attraverso un obiettivo comune. Il teatro, come scrive Duvignaud, “è incastrato nella vita” e ne sono prova gli innumerevoli legami che questo tipo di arte performativa conserva con le diverse forme di conoscenza, ma anche con le diverse forme di azione pubblica. Per i giovani può rappresentare una palestra di esperienze e un luogo magico nel quale ampliare i propri sogni. Si tratta di spazi di cui la vita sociale è oggi avara, poiché sembra che vengano preferiti spazi rarefatti e digitali, che difficilmente abituano all’alterità, esperienza e resilienza che, invece, dal rapporto con l’altro vengono rinforzate. Come spiego nel libro, la politica e il teatro si rivolgono a una collettività – si tratti di spettatori oppure elettori – che rende compiuta entrambe le istanze. Il lavoro teatrale modella una presa di posizione sulla realtà e la sua espressione pubblica diventa politica nel senso di una realtà pubblicamente esposta.
– Guardiamo per un attimo a ciò che ci circonda. Alle riunioni di lavoro sulle varie piattaforme digitali si aggiungono le immancabili “dirette” sui vari social network e le videochiamate in sostituzione delle riunioni di famiglia. Tutto questo ha inevitabilmente cambiato il nostro rapporto con il prossimo e con l’arte, soprattutto con le arti performative. Secondo lei, che funzione assume oggi il teatro come espressione d’incontro dal vivo?
– Certo, questi cambiamenti erano già in atto e hanno subìto un’accelerazione esponenziale con la condizione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo ormai da un anno. Sicuramente il rapporto con i media è cambiato e ha cambiato parte delle nostre abitudini. Direi che ha anche migliorato, se possibile, alcuni aspetti della nostra vita, liberandoci spesso dal faticoso attraversamento di metropoli trafficate per arrivare sul luogo di lavoro, facendoci guadagnare, così, tempo di vita ed equilibrio vitale, per certi versi. Questo, però, mi sembra avere poco a vedere con il teatro, che è sopravvissuto a tutte le epoche, a tutte le tecniche, e finirà per sopravvivere anche alla comunicazione mediata, allo streaming selvaggio, almeno finché anche la società sarà costituita da individui che abitano un corpo.
– Possiamo quindi dire che la corporeità definisce anche il teatro?
– Il teatro ci ricorda che abbiamo un corpo, che la nostra vita si consuma nel corpo e nei limiti che esso detta e che, senza di esso, non è dato vivere. In questo senso, il teatro è una pratica del senso del limite, dove il limite deve essere superato per superare se stessi, ma senza il quale nulla ha senso. Gli strumenti digitali, al contrario, ci privano del senso del limite, proprio perché ci privano del corpo, ma senza senso del limite nella vita, si sa, si invita il disastro.
– Un aspetto sorprendente emerge dalla sua ricerca riguarda la nascita e la storia stessa del Teatro Stabile a Bolzano. Seconda in Italia per fondazione solo al Piccolo di Milano, Bolzano è arrivata prima di molte altre metropoli industrializzate ad avere un proprio teatro stabile. Come spiega questo primato?
– La storia del Teatro Stabile è molto interessante ed è letteralmente incastonata nella vita della città di Bolzano. Questa istituzione è cresciuta con la città stessa, ne ha attraversato i momenti difficili. È stata anche pretesto di raffinate battaglie politiche e grazie proprio all’azione dei suoi cittadini ha ribaltato le sue sorti, pur rimanendo per molti anni in bilico sulla strada della chiusura. Il perché Bolzano sia arrivata a istituirlo prima rispetto ad altre metropoli può risiedere in diversi aspetti: territorio di confine, caso, intuizione di alcuni politici illuminati. Tuttavia, ciò che è ancora più interessante se possibile, è come sia durato arrivando oggi ai suoi settant’anni di presenza sul territorio sia nazionale che locale e anche internazionale. Per certi versi, la politica vedeva nell’istituzione di un Teatro Stabile l’occasione, per Bolzano e la sua provincia, di creare una comunità più omogenea. Essa cercava un’istituzione nella quale tutti si potessero identificare su un piano culturale e che, a sua volta, tendesse a creare una realtà capace di andare oltre le questioni tra i gruppi etnici conviventi sul territorio. Un tentativo di superamento delle diversità culturali attraverso un’istituzione che potesse diventare indistintamente di tutti. Una prospettiva lungimirante e fortemente contemporanea, qualità in cui non sempre i nostri politici di oggi sembrano eccellere.
– La fortuna di un Teatro Stabile sembra legarsi inevitabilmente al suo luogo di fondazione. È corretto affermare che è il teatro a rendere “fertile” un territorio oppure è il contrario?
– È un po’ il dilemma dell’uovo o la gallina, ma direi né l’uno né l’altro. Il teatro è una relazione e tutte le relazioni si alimentano della dedizione, della convinzione, del talento e della sincerità che vengono messe in gioco dalle parti. Un teatro è espressione anche del territorio, non soltanto di questo, ma anche. Dunque, solo nella relazione con il pubblico, nell’intercettare la potenzialità espressiva nella quale un territorio si riconosce, ma anche nella capacità di “educare” a linguaggi nuovi, calibrando sperimentazione e cultura consolidata, così si crea inclusione, riconoscimento, aspettativa. Il teatro può prosperare solo se incontra l’interesse del pubblico, ma non compiacendolo, bensì stimolandolo, talvolta anche provocandolo, lasciando che la tensione sia sempre viva ma non porti ad esasperazione. Il teatro è un mettersi alla prova, sempre, sia come attori che come spettatori, e su questo fragile e affascinante equilibrio si fonda la solidità dell’istituzione teatrale.
– Nel volume riporta gli esiti di un questionario somministrato al pubblico del Teatro Stabile di Bolzano. Nei dati che propone, si nota una crescita negli anni degli spettatori in provincia il che è segno di una vitalità culturale e sociale importante. Questo segnale può indicarci che i teatri si stanno aprendo anche alle cosiddette “periferie”non solo geografiche?
– Siamo oggi in presenza di un ripensamento complessivo delle istituzioni e della loro relazione con il pubblico, si pensi, per esempio, alla svolta sociale dei musei. Si assistite ormai già da alcuni anni a un processo di trasformazione degli spazi museali che smettono di essere soltanto luoghi della conservazione per diventare sempre più frequentemente luoghi di creazione culturale, poli intellettuali cittadini dove fare formazione, gestione e anche “educazione” alla cultura e all’arte. A loro si affiancano spesso delle associazioni benefiche alle quali i musei aprono – per fini terapeutici – le proprie porte a famiglie e malati un tempo esclusi da questi spazi. Penso al Moma di New York, per fare un esempio. In questo senso anche i teatri stabili, in veste di istituzioni hanno iniziato a creare un rapporto diverso con i cittadini, andando verso il pubblico, aprendo gli spazi un tempo solo per gli addetti ai lavori, offrendo forme di teatro diverse, più immediate e che aprono le quinte del processo di costruzione di una performance teatrale. Quello che Goffman definiva il retroscena, la prova che si fa per poi presentarsi in scena al momento della ribalta è oggi parte del mettersi a nudo del teatro stesso, accorciando così le distanze tra l’istituzione e i cittadini. In questo modo il teatro può diventare maggiormente inclusivo, sia nei generi che nelle fasce d’età.
– E a Bolzano cosa è stato fatto in questo senso?
– A Bolzano questa formula è stata sicuramente messa in atto dallo Stabile, andando nelle piazze periferiche, nei bar, aprendo le sale prova e portando gli spettatori a interagire nella costruzione stessa delle future produzioni ricevendo una risposta molto positiva da parte del pubblico e impegnando una notevole forza propulsiva su tutto il territorio provinciale. Chiaramente, una grande città incontra problematiche diverse e dunque la strategia di coinvolgimento della popolazione dovrà avere forme diverse.
Ilaria Riccioni
Teatro e società
Il caso dello Stabile di Bolzano
Carocci, 2020