EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Quando l’oppositività prende piede nel bambino. Il lavoro dello psicoterapeuta

di Margot Weber e Jean-Louis Le Run

(ITA/FRA testo originale in fondo)

Le nostre riflessioni sono frutto dell’attività presso il Centro medico-psicologico della prima infanzia e dell’infanzia del polo Paris Centre Est (Ospedale Saint Maurice). Qui osserviamo che i comportamenti oppositivi sono un motivo sempre più frequente per richiedere un consulto. Mettono in difficoltà i genitori, ma anche la scuola e anche chi li assiste: verso costoro i bambini potrebbero suscitare dei ‘contro-transfert’ negativi.

Il ‘no’ nello sviluppo: come uscirne e perché restarci?

Nelle situazioni cliniche affrontate, questi bambini cercano di solito di riprodurre il modello relazionale con i genitori nella relazione di transfert con il terapeuta, non rispondendo alle domande, alle sollecitazioni, se non addirittura rifiutando la seduta. Tutto avviene come se il bambino mettesse in atto un contatto impossibile, un’interazione senza scopo. Come comprendere questa persistenza dell’oppositività? Come capire questa propensione a trasformare tutto in una lotta, in una scalata da cui uscirà sì vincitore – ma spesso alla maniera di Pirro?

Sul fronte del bambino, troviamo spesso dei problemi di attaccamento, un sentimento di insicurezza e una mancanza delle basi narcisistiche. Gli “attaccamentisti” hanno dimostrato l’importanza dell’affidabilità delle figure genitoriali. Più sono inaffidabili, più il bambino se ne può separare. Non torneremo sulla questione dell’attaccamento in maniera più approfondita, sottolineiamo semplicemente che questi bambini incapaci di dire altro che ‘no’ soffrono perlopiù di un attaccamento incerto ed è proprio nel momento della separazione (lasciare la madre per entrare nello studio, lasciare il terapeuta al termine della seduta) che si agitano e manifestano più rumorosamente la loro contrarietà.

Spitz ha ben spiegato il ruolo dell’identificazione con l’aggressore nell’accesso al ‘no’ nel bambino.

Possiamo anche richiamare, per questi bambini oppositivi e distruttivi, i lavori condotti da Aline Cohen de Lara e Jean-Yves Chagnon che suggeriscono una costruzione psichica caotica degli oggetti interiori e per via della conseguenza delle minacciose relazioni oggettuali.

Jean-Yves Chagnon distingue due tipi di identificazione con l’aggressore che fa sì che il bambino introietti i divieti dell’ambiente e fondi così il proprio super-Io, e l’identificazione proiettiva con l’aggressore nella quale il bambino si identifichi con l’oggetto vietatore collerico e aggressivo. Laddove prevalga fortemente il secondo tipo (identificazione proiettiva), qualsiasi domanda dell’altro – anche sulla modalità di seduzione – è vissuta come una minaccia, la relazione con l’altro non è sostenibile se non quando essa è totalmente sotto controllo, padroneggiata e non contraria ai desideri del bambino.

Aline Cohen de Lara e Jean-Yves Chagnon spiegano bene che nei bambini fortemente oppositivi, il modello di relazione conflittuale con oggetti esterni si traduce in un modello di relazione con gli oggetti interni poco efficace. Questi oggetti interni esistono ma sono poco strutturanti (differenze fondamentali tra i sessi e le generazioni) e comportano una cattiva delimitazione sé/non sé. Il conflitto psichico è troppo caldo, si sposta allora sulla scena esteriore e si traduce in un attacco degli oggetti reali, degli affetti e delle rappresentazioni represse. L’esternalizzazione del conflitto permette in tal modo di conservare un legame con questo oggetto: conta di più un conflitto che un’assenza di legami e questo è ben illustrato attraverso l’esempio di un bambino, Romain che – attraverso il comportamento aggressivo distruttivo – mantiene i legame con l’altro anche quando è vissuto in modo persecutorio. Laddove le figure parentali sono inadempienti, instabili, i bisogni dell’Io del bambino non sono mai sufficientemente appagati, non c’è acquiescenza possibile e la relazione duale non può che essere conflittuale. Il legame è ricercato in maniera disperata ma con il sentimento del bambino che non sarà affidabile. Allora tutto è messo in atto per non farsi prendere in una relazione con l’altro che è vissuta più come un’aggressione che minaccia le sue fondamenta identitarie (fino all’annientamento) che come un tentativo di legame libidico (che sarebbe tinto di ambivalenza, di colpevolezza, di dipendenza). Il bambino dunque lo mantiene a distanza attraverso una relazione di onnipotenza. Questi ragazzi provocano più spesso dei movimenti di rifiuto, si dice di loro che sono insopportabili. Ma dietro questo legame aggressivo sembra delinearsi un tentativo di legame d’amore. Romain tenta di non farsi colpire dalla depressione paterna e dal malessere familiare, cerca di scuotere questo padre, di spezzare lo smalto su cui non ha alcuna presa. L’oppositività è diventata terreno fertile per l’espressione di sé e, attraverso i suoi comportamenti oppositivi e aggressivi, cerca di porre distanza là dove la relazione minaccia, ma anche di creare un legame con l’oggetto d’investimento, non arrivandoci dal lato della pulsione libidica, troppo eccitante e destabilizzante. Si sostanzia come difensiva una relazione di influenza basata sull’opposizione e la provocazione.

I bambini oppositivi danno questa sensazione di voler domare l’oggetto, come se niente possa mai essere soddisfacente. Paul Denis evoca tutto ciò con il termine di «pulsione di influenza». Di solito, la pulsione ha bisogno di trovare un oggetto per soddisfarsi e ciò necessita di un po’ di autocontrollo per «catturarlo», ma quando la relazione si sviluppa con troppa intensità si trascina su un tentativo di influenza dell’oggetto. Si tratta allora di attirare questo oggetto per arrivare a gestire l’eccitazione pulsionale che non giunge a soddisfazione. L’oggetto non costituirà una reale soddisfazione pulsionale tranne che per il bambino. Tutto ciò che lui vuole, parrebbe, è di obbligarci a fare ma qualunque cosa facciamo, restiamo insoddisfacenti. Si ha un bel ripetere il gioco, ma non si riesce. Il bambino cerca di conservare l’oggetto in una relazione di influenza per lui, a suo piacimento, sotto il suo controllo e appunto tutto questo svela il suo vissuto di essere sotto influenza altrui. Nei suoi giochi, Romain ripete identiche le scene di aggressione delle ‘imago’ genitoriali che Winnicott, nell’opera Gioco e realtà, riassume così: «Poiché ti voglio bene, ti distruggo continuamente nella mia mente». Lo scopo di questa pulsione sarebbe di testare l’affidabilità dell’oggetto: l’attacco dell’oggetto manterrebbe il legame con l’oggetto e quest’ultimo deve essere tanto più controllato quanto più il bambino crede di perderlo a causa del suo potenziale distruttore.

Il ‘no’ nell’adolescente adottato

Nell’adolescenza, spesso definita come l’età del ‘no’, dell’opposizione (classica e costitutiva di tale età), alcuni giovani rientrano in una negatività totale che penalizza il loro inserimento familiare e sociale. Rifiutano tutto, sul versante di una contrarietà passiva oppure – al contrario – attiva, attraverso dei conflitti con chi gli sta intorno e, spesso, con comportamenti di auto-sabotaggio.

Tipicamente, durante l’adolescenza il ragazzo intende affermarsi come soggetto di fronte ai genitori e di fronte agli adulti e anche segnare la propria differenza, lottare contro la dipendenza per rendersi autonomo, per allontanarsi. Le risorse narcisistiche giocano un ruolo importante contro l’inquietudine che può suscitare questo movimento necessario verso l’indipendenza. Le basi narcisistiche si formano nella prima infanzia a partire dall’interazione con l’oggetto e proseguono nel corso dello sviluppo attraverso i tre specchi protesi verso il soggetto: lo specchio dello sguardo della madre, lo stadio dello specchio, lo specchio sociale nell’adolescenza. Philippe Jeammet sottolinea che la minaccia del fermento e della disorganizzazione appare come il timore centrale dell’adolescente con basi narcisistiche fragili. In maniera paradossale, «più la dipendenza è forte, più si ha bisogno dell’altro e più bisogna allontanarsene». L’oppositività diventa, dunque, uno dei modi per uscire da questo paradosso. Essa permette di ‘essere contro’ nei due sensi del termine, ossia ‘opposto’ e ‘vicino’, e di dare l’illusione di differenziarsi dall’oggetto appoggiandosi a esso e attivando la propria attenzione nel gioco permanente di negoziazioni che accompagnano questo tipo di comportamenti. Si tratta di ritrovare un ruolo attivo sviluppando una relazione di influenza, di aggrapparsi a certi elementi della realtà esterna oppure a una convinzione interna, come il piccolo si stringe alla mano della madre.

Paul Denis dal canto suo sottolinea che «nel momento in cui la pulsione non trova a chi rivolgersi all’interno, gli oggetti interni non saranno all’altezza delle sue esigenze […] ciò che non può essere richiamato dentro è richiamato all’esterno». Secondo lui, «provocare vuol dire chiamare a rinforzo l’oggetto quando il processo di introiezione è scarso. Tuttavia, richiamandolo prepotentemente, la provocazione ha come effetto quello di mantenere delle distanze. Il soggetto mancante di oggetto non è al riparo da un’invasione da cui si protegge come da un pericolo estremo, e pertanto è al suo interno che la pulsione minaccia. Anche l’oppositività arriva a sostenere la provocazione, al fine di consolidare le fragili linee di demarcazione».

Adolescenza e adozione

Poiché si accompagna generalmente a una fragilità narcisistica, la situazione dell’adozione si rivela particolarmente soggetta allo sviluppo di questi comportamenti oppositivi. Essa implica l’essere stati abbandonati e, comunque, di aver perso i genitori d’origine. Le basi narcisistiche vi si trovano indebolite in due modi complementari. In molti casi le cattive condizioni durante la gravidanza, una carenza affettiva o la denutrizione, i trattamenti crudeli, delle interazioni patologiche durante la prima infanzia, un vissuto caotico oppure le rotture di legami in casi di affidamenti multipli hanno un impatto sul narcisismo primario. Il narcisismo secondario si ha nel bambino compromesso dalla presa di coscienza progressiva del proprio status particolare e delle sue implicazioni, in particolar modo dal fatto che – per poter essere adottato – egli deve essere stato abbandonato. Presa di coscienza in ogni caso estremamente dolorosa che dà luogo, d’altra parte, a un lavoro del negativo incaricato di proteggere il narcisismo dispiegando le classiche difese della rimozione, del rifiuto o del diniego quando non si arriva alla scissione dell’io. Il bambino divenuto adolescente è combattuto fra il bisogno di sapere, di capire e la tentazione di dirsi “di questa verità non ne voglio sapere nulla”, un cammino verso la conoscenza o verso l’oblio che si lega strettamente all’accompagnamento che gli possono offrire i genitori adottivi. La ricerca d’identità che accompagna l’adolescenza è complicata dalla doppia filiazione. Per esempio, nell’adolescenza la differenza fisica con i genitori si acuisce man mano che emergono i tratti ereditari dei genitori biologici, il che rende più difficile definire l’identità. La pubertà, in quanto dimensione specifica dell’adolescenza, va a mettere in questione tutte queste circostanze e la scena primitiva con più o meno serenità. La dimensione separativa caratteristica dell’adolescenza, la prospettiva di doversi autonomizzare per diventare adulto va a risvegliare (o a esacerbare, se non sono ancora state superate – come avviene nella maggior parte dei casi) le angosce da abbandono.

Il lavoro del negativo

Con questi adolescenti oppositivi che si inscrivono in una negatività a volte impressionante, si può essere tentati di invocare la terapia del negativo – alla quale, sulle tracce di Guillaumin e André Green si sono interessati negli ultimi anni gli psicoanalisti degli adulti che si sono trovati a misurarsi con stati limite e personalità narcisistiche.

Vediamo incombere il negativo quando si tratta di contraddire qualcosa che ingabbierebbe il soggetto in un posto che non riconosce, o in cui la sua identità verrebbe negata, laddove la storia è traumatica e non elaborata. Potrebbe trattarsi abbastanza spesso della lotta più o meno cosciente contro un patto di negazione familiare. I bambini che non hanno una storia fatta di storie, dimensione che si ritrova molto sovente presso bambini adottati, sprecano il piacere in un modo tale da mettere alla prova il legame parentale dando l’impressione che la posta in gioco per loro sia il fatto che non venga dimenticata la loro origine, il passato che costituisce una parte di loro stessi. Ciò che sembra negativo, addirittura suicida o masochista, è in realtà un modo per sopravvivere di fronte a un’altra posta in gioco a livello inconscio, pur tuttavia non meno importante per il soggetto.

Si tratta, in conclusione, di conservare attraverso l’oppositività uno scarto, un’apertura, una polemica invece di un’adesione che equivarrebbe a una rassegnazione e a una coalescenza che comporterebbe la fine della posta in gioco particolarmente importante o l’assassinio dell’identità.

Qualche traccia terapeutica

Questi bambini oppositivi sono fra i più complicati da prendere in cura. Ogni situazione richiama risposte diverse in funzione del contesto in cui si iscrivono i problemi e ciò impone di adattare il quadro sforzandosi di renderlo affidabile e coerente e tenendo conto dell’ambiente scolastico, spesso sfiancato dai problemi del bambino.

Philippe Jeammet sottolinea l’importanza di offrire a questi bambini e questi adolescenti «un’alleanza narcisistica» sufficiente per fare da contrappeso alla loro insicurezza interiore e per rendere tollerabile la costruzione di una relazione.

Interrogarsi sul suo contro-transfert

Innanzitutto, ci sembra primario non considerare l’atteggiamento oppositivo del bambino come un rifiuto del transfert, ma – al contrario – comprendere che quest’attitudine costituisce il transfert. Un transfert particolare, basato sull’espulsione della rabbia e dell’angoscia e che suscita generalmente un contro-transfert egualmente negativo, ma questo non rimane che un transfert da sostenere e che va a svilupparsi con il tempo e con l’affidabilità della relazione. L’incontro con l’altro è una prova per questi bambini, il terapeuta pertanto rappresenta ancor più una minaccia quanto più è chiamato a instaurare una relazione duratura. Le turbolenze dell’incontro ostacolano le capacità di pensiero e allontanano, questo è lo scopo, il contatto della relazione da cui probabilmente tentano di evadere distaccandosi. Il comportamento del bambino, le sue provocazioni, incitano anche chi si occupa di lui ad agire o a ragionare mentre soprattutto non bisogna entrare in negoziazioni che si avvererebbero senza sbocco. Non è sempre facile rimanere morbidi pur nella fermezza e di non diventare rigidi nel proteggere la situazione, di restare calmi e sereni quando il bambino l’attacca e la scombussola. Lo si coglie meglio tenendo presente che queste manifestazioni aggressive, questo malessere, si ricollegano all’angoscia di perdere l’amore dell’oggetto e sono una messa in scena nella misura in cui il bambino si ricollega ai suoi oggetti interiori che vengono meno. Il terapeuta può sentirsi, a sua volta, cattivo, manchevole, inefficace come un oggetto da cui non aspettarsi nulla, come sottolinea Bokanowski – da cui mutuiamo queste considerazioni – a proposito dell’adulto border line. Dietro i sentimenti di impotenza e di disperazione che una simile situazione porta nella vita del terapeuta, «questi può percepire le domande assolute, esigenti e tiranniche, del paziente di essere amato, a qualsiasi costo […] Mascherata dall’odio e dalla distruttività, la domanda di amore ritorna in maniera lancinante, come a titolo di una riparazione di fronte all’impossibilità di trasformare le tracce di un oggetto troppo inaffidabile, che si sottrae, in un oggetto che accetti di supportare un ‘amore impietoso’ (‘ruthless love’, D. W. Winnicott)». Per superare questa situazione occorre tempo, pazienza, resistenza e non finire stritolati. Il sostegno apportato da una équipe multidisciplinare e il ricorso a una presa in carico multifocale si rivelano in questo senso un prezioso punto di forza, oltre a evitare anche il sentimento di dipendenza e l’angoscia di perdere l’oggetto: ma anche il rischio di chiusura del terapeuta e del suo paziente in una relazione di influenza per favorire, invece, la ripartenza del processo introiettivo del transfert.

 

traduzione di Luigi Serrapica

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Nos réflexions sont issues de la pratique en Centre médico-psychologique petite enfance et enfant du pôle Paris Centre Est (Hôpitaux Saint Maurice). Nous y observons que les conduites d’opposition sont un motif de consultation de plus en plus fréquent. Elles mettent les parents en difficulté mais aussi l’école et souvent les soignants chez lesquels les enfants peuvent susciter des contre-transferts négatifs

Le non dans le développement : comment en sortir et pourquoi y rester ?

Dans les situations cliniques rencontrées, ces enfants cherchent généralement à reproduire dans la relation transférentielle avec le thérapeute le mode de relation au parent, en ne répondant pas aux demandes, aux sollicitations quand ils ne refusent pas tout bonnement la rencontre. Tout se passe comme si l’enfant mettait en place un contact impossible, une interaction sans issue. Comment comprendre cette persistance de l’opposition ? Comment comprendre cette propension à tout transformer en lutte, en escalade dont ils sortent éventuellement vainqueurs mais souvent à la Pyrrhus ?

Du côté de l’enfant on retrouve souvent des troubles de l’attachement, un sentiment d’insécurité et une défaillance des assises narcissiques. Les attachementistes ont démontré l’importance de la fiabilité des figures parentales. Plus elles sont fiables, plus l’enfant peut s’en séparer. On ne va pas revenir sur la dimension de l’attachement si brillamment traitée par nos collègues de la table ronde précédente. Soulignons simplement que ces enfants incapables de dire autre chose que non souffrent la plupart du temps d’un attachement insécure et c’est d’ailleurs dans les moments de séparation (quitter la mère pour venir dans le bureau, quitter le thérapeute en fin de séance) qu’ils s’agitent et manifestent le plus bruyamment leur opposition.

Spitz a bien expliqué le rôle de l’identification à l’agresseur dans l’accès au non chez l’enfant.

On peut aussi évoquer pour ces enfants opposants et destructeurs les travaux menés par Aline Cohen de Lara et Jean-Yves Chagnon suggérant une construction psychique chaotique des objets internes et par voie de conséquence des relations objectales menaçantes.

Jean-Yves Chagnon distingue deux types d’identification à l’agresseur : l’identification introjective à l’agresseur qui fait que l’enfant introjecte les interdits de l’environnement et fonde ainsi son surmoi, et l’identification projective à l’agresseur dans laquelle l’enfant s’identifie à l’objet interdicteur colérique et agressif. Lorsque prévaut fortement le second type (identification projective), toute demande de l’autre, même sur le mode de la séduction, est vécue comme une menace, la relation à l’autre n’est soutenable que lorsqu’elle est totalement sous contrôle, maîtrisée et ne contrarie pas les désirs de l’enfant.

Aline Cohen de Lara et Jean-Yves Chagnon expliquent bien que chez les enfants très opposants, le mode de relation conflictuel aux objets externes traduit un mode de relation aux objets internes peu opérant. Ces objets internes existent mais sont peu structurants (différences fondamentales des sexes et des générations mal campées) et entraînent une mauvaise délimitation soi/non soi. Le conflit psychique est bien trop chaud, il se déplace alors sur la scène extérieure et se traduit par une attaque des objets réels, les affects et représentations étant réprimés. L’externalisation du conflit permet ainsi de maintenir un lien avec cet objet : mieux vaut un conflit qu’une absence de liens, et cela s’illustre bien à travers la situation de Romain qui à travers des conduites d’agression, de destruction entretient le lien à l’autre même lorsque celui-ci est vécu sur un mode persécutif. Lorsque les images parentales sont défaillantes, instables, les besoins du Moi de l’enfant ne sont pas suffisamment assouvis, il n’y a pas d’apaisement possible et la relation duelle ne peut être que conflictuelle. Le lien est recherché désespérément mais avec le sentiment pour l’enfant qu’il ne sera pas fiable. Tout est alors mis en œuvre pour ne pas se laisser prendre dans une relation à l’autre qui est davantage vécue comme une agression menaçant ses fondements identitaires (jusqu’à l’anéantissement) que comme une tentative de lien libidinal (qui serait teinté d’ambivalence, de culpabilité, de dépendance). L’enfant le maintient donc à distance par une relation de toute-puissance. Ces enfants provoquent plus souvent des mouvements de rejets, on dit d’eux qu’ils sont invivables. Mais derrière ce lien agressif semble se dessiner une tentative de lien d’amour. Romain essaie de ne pas se laisser affecter par la dépression paternelle et le malaise familial, il tente d’entamer ce père, de casser le vernis sur lequel il n’a aucune prise. L’opposition est devenu un terrain fertile à l’expression de soi et par ses comportements opposants et agressifs, il cherche à mettre de la distance là où la relation menace mais aussi à créer du lien avec l’objet d’investissement, n’y parvenant pas du côté de la pulsion libidinale, trop excitante et désorganisante.  Se met alors en place comme défense une relation d’emprise basée sur l’opposition et la provocation.

Les enfants opposants donnent ce sentiment de vouloir maîtriser l’objet, comme si rien ne pouvait jamais être satisfaisant. Paul Denis évoque cela sous le terme de « pulsion d’emprise ». D’ordinaire, la pulsion a besoin de trouver un objet pour se satisfaire et cela nécessite un peu de maitrise pour « l’attraper » mais lorsque la relation s’exerce avec trop d’intensité, on dérive sur une tentative d’emprise de l’objet. Il s’agit alors d’accrocher cet objet pour parvenir à gérer l’excitation pulsionnelle qui n’arrive pas à se satisfaire. L’objet ne constituera pas une véritable satisfaction pulsionnelle en tant que tel pour l’enfant. Tout ce qu’il veut, semble-t-il, c’est nous obliger à faire, mais quoi que l’on fasse, nous sommes insatisfaisants. On a beau refaire le jeu, il n’y a pas d’issue. L’enfant cherche à maintenir dans une relation d’emprise l’objet pour lui, à sa merci, sous son contrôle et cela reflète son propre vécu d’être sous emprise. Dans ses jeux, Romain répète à l’identique des scènes d’attaque des imagos parentales que Winnicott, dans l’ouvrage Jeu et réalité, résume ainsi : « Puisque je t’aime, je te détruis tout le temps dans mon fantasme. » Le but de cette pulsion serait de tester la fiabilité de l’objet : l’attaque de l’objet maintiendrait le lien à l’objet et ce dernier doit être d’autant plus maîtrisé que l’enfant craint de le perdre par son potentiel destructeur.

Le non chez l’adolescent adopté.

A l’adolescence, souvent définie comme l’âge du non, de l’opposition (classique et constitutive de cet âge), certains jeunes s’inscrivent dans une négativité massive pénalisant leur inscription familiale et sociale. Ils refusent tout, sur le versant d’une opposition passive ou au contraire agie, à travers des conflits avec l’entourage et souvent des conduites d’auto-sabotage.

Classiquement à l’adolescence, il s’agit de s’affirmer subjectivement face aux parents et aux adultes et aussi de marquer sa différence, de lutter contre la dépendance pour s’autonomiser, se séparer. Les ressources narcissiques jouent un rôle important face à l’inquiétude que peut susciter ce mouvement nécessaire vers l’indépendance. Les assises narcissiques se constituent dans la petite enfance à partir des interactions avec l’objet et se poursuivent au cours du développement à travers les trois miroirs successifs tendus au sujet : le miroir du regard de la mère, le stade du miroir, le miroir social à l’adolescence. Philippe Jeammet souligne que la menace de débordement et de désorganisation apparaît comme la crainte centrale de l’adolescent aux assises narcissiques fragiles. De façon paradoxale « Plus la dépendance est forte plus on a besoin de l’autre et plus il faut s’en éloigner. » L’opposition va être alors une des façons de sortir de ce paradoxe. Elle permet d’être contre dans les deux sens du terme, c’est-à-dire opposé et proche, et de donner l’illusion de se différencier de l’objet, tout en prenant appui sur lui et en mobilisant son attention dans le jeu permanent des négociations qui accompagnent ce genre de comportement. Il s’agit de retrouver un rôle actif en développant une relation d’emprise, de se cramponner à des éléments de la réalité externe ou à une conviction interne, comme petit on se cramponnait à la main de sa mère.

Paul Denis (2007) de son côté souligne que « Lorsque la pulsion ne trouve pas à qui parler au-dedans, les objets internes ne s’avérant pas à la hauteur de ses exigences…  ce qui ne peut pas être appelé dedans est appelé dehors ». Selon lui, « provoquer, c’est faire venir l’objet en renfort quand le processus d’introjection est à la peine. Cependant tout en le convoquant impérieusement, la provocation a pour effet de le tenir à distance. Le sujet en mal d’objet n’est pas à l’abri d’un envahissement dont il se protège comme d’un péril externe, et pourtant c’est en son sein que la pulsion menace. Aussi l’opposition vient-elle soutenir la provocation afin de consolider les lignes de démarcation fragiles ».

Adolescence et adoption :

Parce qu’elle s’accompagne généralement d’une fragilité narcissique la situation d’adoption s’avère particulièrement sujette au développement de ces conduites d’opposition. Elle implique d’avoir été abandonné en tout cas d’avoir perdu ses parents d’origine. Les assises narcissiques s’en trouvent fragilisées de deux façons complémentaires. Dans de nombreux cas des mauvaises conditions de grossesse, une carence affective ou une dénutrition, des mauvais traitements, ou des interactions pathologiques dans la petite enfance, un vécu chaotique, des ruptures de liens du fait de placements multiples impactent le narcissisme primaire. Le narcissisme secondaire est quant à lui toujours ébranlé par la prise de conscience progressive par l’enfant, de son statut particulier et de ses implications, particulièrement le fait que pour pouvoir être adopté il faut avoir été abandonné. Prise de conscience toujours extrêmement douloureuse qui donne d’ailleurs lieu à un travail du négatif (André Green) chargé de protéger le narcissisme en déployant les défenses classiques du refoulement, du déni ou de la dénégation quand il ne s’agit pas de clivage. L’enfant devenant adolescent est partagé entre le besoin de savoir, de comprendre et la tentation de se dire « cette vérité je n’en veux rien savoir », chemin vers la connaissance ou l’oubli qui s’articule étroitement à l’accompagnement qu’en font les parents adoptifs. L’adoption est le fruit d’une rupture filiative suivie d’une nouvelle filiation. La recherche identitaire qui accompagne l’adolescence est complexifiée par la double filiation. Par exemple à l’adolescence la différence physique se creuse avec les parents au fur et à mesure que s’affirment les traits hérités des parents biologiques ce qui rend l’identité plus difficile à définir. Le pubertaire, comme la dimension d’après coup spécifique de l’adolescence, va venir questionner toutes ces circonstances et la scène primitive avec plus ou moins de sérénité. La dimension séparative propre à l’adolescence, la perspective de devoir s’autonomiser pour devenir adulte va réveiller (ou exacerber si elles n’étaient pas dépassées comme c’est souvent le cas) les angoisses d’abandon.

Le travail du négatif

Avec ces adolescents opposants qui s’inscrivent dans une négativité parfois impressionnante, on est tenté d’évoquer la clinique du négatif auxquels les psychanalystes d’adultes confrontés aux états limites et aux personnalités narcissiques se sont intéressés ces dernières années dans les traces de Guillaumin, et d’André Green.

On voit surgir le négatif lorsqu’il s’agit de contredire quelque chose qui enfermerait le sujet à une place qu’il ne reconnait pas, ou qui viendrait nier son identité. Lorsque l’histoire est traumatique et non élaborée. IL peut s’agir assez souvent de la lutte plus moins conscient contre un pacte dénégatif familial. Les enfants qui n’ont pas d’histoire font des histoires, dimension que l’on retrouve très souvent chez les enfants adoptés qui gâchent le plaisir d’une façon qui met le lien à l’épreuve et donne l’impression que l’enjeu est pour eux que ne soient pas oubliés leur origine, le passé, qui constituent une part d’eux-mêmes. Ce qui semble négatif, voire suicidaire ou masochique est en fait une survie face à d’autres enjeux inconscients, mais qui n’en sont pas moins importants pour le sujet.

Il s’agit de maintenir finalement par l’opposition un écart, une ouverture, une polémique plutôt qu’une adhésion qui équivaudrait à une résignation et à une coalescence, signifiant la fin d’un enjeu particulièrement important ou un meurtre d’identité.

Quelques pistes thérapeutiques

Ces enfants opposants sont parmi les plus difficiles à soigner. Chaque situation appelle des réponses différentes en fonction du contexte dans lequel les troubles s’inscrivent et cela impose d’adapter le cadre en s’efforçant de le rendre fiable et cohérent et en prenant en compte l’environnement scolaire souvent éprouvé par les troubles de l’enfant.

Philippe Jeammet souligne l’importance d’offrir à ces enfants et adolescents «une alliance narcissique » suffisante pour faire contrepoids à leur insécurité interne et rendre tolérable l’établissement d’une relation.

S’interroger sur son contre-transfert

Il nous semble avant tout primordial de ne pas considérer l’attitude opposante de l’enfant comme un refus du transfert, mais au contraire de comprendre qu’elle constitue le transfert. Un transfert particulier, basé sur l’expulsion de la rage et de la détresse et qui suscite généralement un contre-transfert tout aussi négatif, mais qui n’en reste pas moins un transfert à soutenir et qui va évoluer avec le temps et la fiabilité de la relation. La rencontre de l’autre est une épreuve pour ces enfants, le thérapeute représente d’autant plus une menace qu’il est censé établir une relation durable. Les turbulences de la rencontre entravent les capacités de penser et éloignent, c’est le but, le contact dans la relation dont il peut être tentant de s’évader en se détachant. Le comportement de l’enfant, ses provocations incitent aussi ceux qui s’en occupent à agir ou à le raisonner alors qu’il ne faut surtout pas entrer dans les négociations qui s’avèrent sans issue. Il n’est pas toujours évident de rester souple tout en étant ferme et de ne pas devenir rigide tout en protégeant le cadre, de rester calme et serein quand l’enfant l’attaque et le désorganise. On y parvient mieux en gardant présent à l’esprit que ces manifestations agressives, ce mal-être, se relient à l’angoisse de perte de l’amour de l’objet et sont une mise en scène de la manière dont l’enfant se relie à ses objets internes défaillants. Le thérapeute peut se sentir à son tour mauvais, défaillant, inefficace comme un objet dont il n’y aurait rien à attendre, comme le souligne Bokanowski, à qui nous empruntons ces considérations, à propos de la psychanalyse de l’adulte border line. Derrière les sentiments d’impuissance et de désespoir qu’une telle situation fait vivre en retour au thérapeute, « celui-ci peut entendre les demandes absolues, exigeantes et tyranniques, du patient d’être aimé, quel qu’en soit le prix… Masquée par la haine et la destructivité celle-ci revient de manière lancinante, comme au titre d’une réparation face à l’impossibilité de transformer les traces d’un objet par trop défaillant, qui se dérobe, en un objet qui accepte de supporter un « amour impitoyable » (“ruthless love”, D.W. Winnicott, 1954 [34]) ». Pour dépasser cette situation il faut du temps, de la patience, tenir et ne pas être détruit. Le soutien apporté par une équipe pluridisciplinaire et le recours à une prise en charge multifocale s’avèrent en ce sens un atout précieux, plus à même d’éviter le sentiment de dépendance et l’angoisse de perdre l’objet mais aussi le risque d’enfermement du thérapeute et de son patient dans une relation d’emprise pour favoriser ainsi la reprise des processus introjectifs transférentiels.

Quelques pistes thérapeutiques

Ces enfants opposants sont parmi les plus difficiles à soigner. Chaque situation appelle des réponses différentes en fonction du contexte dans lequel les troubles s’inscrivent et cela impose d’adapter le cadre en s’efforçant de le rendre fiable et cohérent et en prenant en compte l’environnement scolaire souvent éprouvé par les troubles de l’enfant.

Philippe Jeammet souligne l’importance d’offrir à ces enfants et adolescents «une alliance narcissique » suffisante pour faire contrepoids à leur insécurité interne et rendre tolérable l’établissement d’une relation.

S’interroger sur son contre-transfert

Il nous semble avant tout primordial de ne pas considérer l’attitude opposante de l’enfant comme un refus du transfert, mais au contraire de comprendre qu’elle constitue le transfert. Un transfert particulier, basé sur l’expulsion de la rage et de la détresse et qui suscite généralement un contre-transfert tout aussi négatif, mais qui n’en reste pas moins un transfert à soutenir et qui va évoluer avec le temps et la fiabilité de la relation. La rencontre de l’autre est une épreuve pour ces enfants, le thérapeute représente d’autant plus une menace qu’il est censé établir une relation durable. Les turbulences de la rencontre entravent les capacités de penser et éloignent, c’est le but, le contact dans la relation dont il peut être tentant de s’évader en se détachant. Le comportement de l’enfant, ses provocations incitent aussi ceux qui s’en occupent à agir ou à le raisonner alors qu’il ne faut surtout pas entrer dans les négociations qui s’avèrent sans issue. Il n’est pas toujours évident de rester souple tout en étant ferme et de ne pas devenir rigide tout en protégeant le cadre, de rester calme et serein quand l’enfant l’attaque et le désorganise. On y parvient mieux en gardant présent à l’esprit que ces manifestations agressives, ce mal-être, se relient à l’angoisse de perte de l’amour de l’objet et sont une mise en scène de la manière dont l’enfant se relie à ses objets internes défaillants. Le thérapeute peut se sentir à son tour mauvais, défaillant, inefficace comme un objet dont il n’y aurait rien à attendre, comme le souligne Bokanowski, à qui nous empruntons ces considérations, à propos de la psychanalyse de l’adulte border line. Derrière les sentiments d’impuissance et de désespoir qu’une telle situation fait vivre en retour au thérapeute, « celui-ci peut entendre les demandes absolues, exigeantes et tyranniques, du patient d’être aimé, quel qu’en soit le prix… Masquée par la haine et la destructivité celle-ci revient de manière lancinante, comme au titre d’une réparation face à l’impossibilité de transformer les traces d’un objet par trop défaillant, qui se dérobe, en un objet qui accepte de supporter un « amour impitoyable » (“ruthless love”, D.W. Winnicott, 1954 [34]) ». Pour dépasser cette situation il faut du temps, de la patience, tenir et ne pas être détruit. Le soutien apporté par une équipe pluridisciplinaire et le recours à une prise en charge multifocale s’avèrent en ce sens un atout précieux, plus à même d’éviter le sentiment de dépendance et l’angoisse de perdre l’objet mais aussi le risque d’enfermement du thérapeute et de son patient dans une relation d’emprise pour favoriser ainsi la reprise des processus introjectifs transférentiels.

 

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