di Gianfranco Pecchinenda
Riflessioni a partire dall’ultimo saggio di Christof Koch, Sentirsi vivi. La natura soggettiva della coscienza, Raffaello Cortina 2021
L’io della coscienza
È difficile immaginare, nella storia degli studi sull’essere umano, un tema più affascinante e coinvolgente della coscienza. Da una parte la sua ineluttabile presenza; dall’altra la sua sempre rinnovata inafferrabilità. Nel corso degli ultimi due millenni – secolo più, secolo meno – molti hanno creduto che, grazie ai passi da gigante prodotti nell’ambito degli studi sull’io e l’identità – un altro concetto almeno altrettanto insidioso – ben presto saremmo approdati a definizioni scientifiche soddisfacenti anche per la coscienza. Se oggi siamo effettivamente in grado di definire l’io e l’identità attraverso concettualizzazioni oggettive e discutibili con metodi scientifici (e con una precisione misurabile in gradi diversi a seconda del paradigma teorico di riferimento), la questione della coscienza continua, tuttavia, a porre problematiche scientificamente ancora irrisolvibili.
Appare infatti evidente, come dimostrano soprattutto le neuroscienze cognitive, che l’aderenza tra io e coscienza non possa mai considerarsi “totale”.
Indubbiamente la coscienza comporta una sorta di consapevolezza dell’io e quest’ultimo integra in sé tutto ciò che la coscienza ha da offrire, ma questa continua a non essere sovrapponibile all’io, almeno non del tutto.
Quando ci addormentiamo la sera, ad esempio, l’io delicatamente ci abbandona. Tuttavia, resta attivo un qualche “ente”, una sorta di guardiano che vigila sul nostro corpo e su quello che, al risveglio, riconosciamo (“coscientemente”) come il nostro io. Quando un inatteso rumore interrompe il nostro sonno, o lo spietato risuonare di una sveglia sconvolge i nostri sogni, il vecchio “io”, quello che si era dolcemente eclissato solo poche ore prima, rientra in sé come da un viaggio verso terre ignote.
Si potrebbe però obiettare, a tal proposito, che non sia il nostro vecchio “io” – inteso come quell’identità oggettiva e relazionale che deve manifestarsi al lavoro, piuttosto che in famiglia o in altri innumerevoli ruoli – ciò che si risveglia, ma un “io” inteso come “vita vissuta”. Ed è lì, nel “sentirsi vivi”, che intravediamo qualcosa di più simile alla coscienza, intesa come la consapevolezza di rientrare in un’esperienza vissuta e solo momentaneamente interrotta.
Ognuno di noi potrebbe, ad esempio, provare a cambiare vita, soprattutto se ci sentiamo particolarmente insoddisfatti di quella che stavamo vivendo in precedenza. E, cambiando vita, cambieremmo ineluttabilmente anche il nostro io. La nostra identità, per definizione, è determinata dalle nostre relazioni, dai nostri ruoli, dal trascorrere del tempo. Eppure, avvertiamo che permane comunque qualcosa di stabile e immodificabile.
Il sonno o certe sostanze stupefacenti, alcol compreso, possono liberarcene per qualche ora, ma basta poco per riprendere “coscienza” del nostro precedente “io” e reintegrarlo nell’esperienza vissuta. Inesorabilmente, il nostro vecchio “io”, dotato di quella strana e ancora indefinibile qualità che per comodità denominiamo “coscienza”, sembra sempre essere lì, irremovibile, ad attendere pazientemente il nostro ritorno da una delle tante possibili escursioni “altrove”, che periodicamente ci consentiamo nel corso delle nostre esistenze.
E veniamo dunque alle ricerche sulla coscienza, di cui questo recente libro di Christof Koch – che non a caso intitola il suo lavoro “sentirsi vivi” – costituisce una delle più attuali testimonianze. Koch, in qualche modo, sembra confermare che lo stato attuale degli studi sulla coscienza sia giunto a godere di alcuni punti fermi, di cui parleremo tra breve, a partire dai quali si apre il campo, assai esteso ed eterogeneo, dei tentativi di approfondire la conoscenza scientifica di questo straordinario fenomeno.
The Astonishing Hypothesis
Prima di entrare nel pieno degli argomenti trattati nel libro, ricordiamo innanzitutto che il suo autore, uno dei più influenti e apprezzati neuroscienziati a livello mondiale, ha a lungo collaborato con Francis Crick, premio Nobel e scopritore della struttura del DNA, nonché autore, agli inizi degli anni Novanta, di uno dei più celebri e discussi contributi alla base degli studi empirici sulla coscienza. In esso veniva formulata The Astonishing Hypothesis, la cui espressione rituale recita grossomodo così: e se noi non fossimo altro che il nostro cervello?
L’ipotesi sorprendente di Crick sosteneva in pratica che tutta la nostra esperienza fosse in realtà destinata a restare chiusa all’interno del nostro cervello, in quei pochi grammi di sostanza gelatinosa piena di neuroni, imprigionata nella nostra scatola cranica. Io, qualunque cosa sia questo “io”, sono lì dentro e solo lì. E gli altri, tutti gli altri, compresi mia madre e mio padre, la sedia su cui sono seduto, così come i tasti che sto premendo per scrivere questo articolo, non vivono all’esterno di me, nel cosiddetto ambiente o realtà esterna; gli altri, che mi sembrano popolare la realtà esterna, in verità non si muovono, non soffrono, non amano, non si divertono, non patiscono in qualche luogo del pianeta chiamato terra, ma si trovano qui, solo qui, all’interno del mio cranio.
L’io non sarebbe altro, da questo punto di vista, che una specie di illusione o di epifenomeno: qualcosa che l’uomo ha compiuto con l’enorme potenza neuronale di cui è dotato, al di sopra e al di là delle sue necessità evolutive per la sopravvivenza.
Sarebbe perfettamente comprensibile che a Noi sembri di vivere il mondo come un “Io” che ha il suo centro nella mente, e che assorbe, cataloga, ricorda e collega tutte le informazioni provenienti dall’esterno, giunte a noi attraverso i sensi; è perfettamente comprensibile che ci sembri che le cose stiano così, e dal punto di vista pratico è anche necessario, se dobbiamo funzionare come esseri umani.
Ma ciò non significa che le cose stiano effettivamente così, o che si debba presupporre l’esistenza di qualsiasi fattore o procedimento non materiale. In un certo senso, il ragionamento non farebbe una piega: ben protetto dal cranio e dalla barriera ematoencefalica, il cervello può ricevere l’informazione dall’ambiente esterno soltanto attraverso dei segnali chimici ed elettrici che gli trasmettono i sensi.
L’esperienza come processo inferenziale
Quello che però andrebbe anche ricordato – e che rappresenta il punto di partenza di quest’ultimo lavoro di Christof Koch – è che il cervello, da un punto di vista strettamente materiale, non è altro che una parte di quel corpo che è al contempo mio e non mio; io e non-io. Prendere un pezzo del corpo e cercare in esso l’essenza dell’identità (il cosiddetto homunculus), è un’operazione filosofica che ci ricondurrebbe a un essenzialismo riduzionistico che, di fatto, è stato definitivamente screditato dalla stragrande maggioranza degli scienziati contemporanei. Il motivo per cui non è possibile ridurre la coscienza (né tantomeno l’io) al cervello, è che quest’ultimo non è in grado di avere esperienze. Il cervello non prova dolore o piacere, gusto o disgusto, odio o amore. È possibile studiare e lavorare alla ricerca dei cosiddetti correlati neurali della coscienza (NCC), e dunque identificare cosa accade nel cervello, o in determinate aree del cervello, quando viviamo un’esperienza, ma il cervello – di per sé – non è in grado di vivere alcuna esperienza. La coscienza – qualunque cosa essa sia – possiede una natura soggettiva per indagare la quale esiste un solo e unico possibile punto di partenza: l’esperienza soggettiva.
Questa identificazione tra esperienza e coscienza costituisce la prima delle due mosse che Christof Koch mette in atto per presentarci questo suo brillante lavoro: Le esperienze – egli scrive – sono l’unico aspetto della realtà di cui possiamo essere direttamente consapevoli. “La loro esistenza rappresenta un’ovvia sfida alla nostra comprensione attuale, del tutto limitata, della natura fisica della realtà e richiede a gran voce una spiegazione razionale, sperimentabile empiricamente”. Per affrontare tale sfida, Koch si affida fiduciosamente al metodo fenomenologico: tutto ciò di cui facciamo esperienza – e il modo in cui le nostre esperienze sono strutturate – precede ciò che possiamo inferire sul mondo esterno, comprese le leggi scientifiche.
In altre parole, la coscienza viene prima della fisica.
Pensatela in questi termini. Vedo qualcosa che ho imparato a chiamare volto. Quanto percepisco dei volti è soggetto a determinate regolarità: i volti solitamente sono simmetrici rispetto a destra-sinistra; in genere, presentano elementi che sono convenzionalmente chiamati bocca, naso, occhi. Tramite un’analisi più ravvicinata degli occhi all’interno di un volto, posso inferire se il volto stia guardando me, se sia arrabbiato o impaurito, e così via. Attribuisco queste regolarità, in modo implicito, a degli oggetti, chiamati persone, che esistono in un mondo esterno a me; ho imparato come interagire con essi e inferisco di essere una persona come loro. Crescendo, questo processo inferenziale diventa per me così familiare che finisco per ritenerlo del tutto scontato. Da queste esperienze costruisco un’immagine del mondo. Questo processo inferenziale viene amplificato e acquisisce un immenso potere attraverso l’utilizzo del metodo intersoggettivo della scienza che svela aspetti reconditi della realtà, come gli elettroni e la forza di gravità, la conflagrazione delle stelle, il codice genetico, i dinosauri, e quant’altro. Eppure, alla fine, queste sono tutte inferenze; decisamente ragionevoli, ma pur sempre inferenze. Ognuno di questi fatti potrebbe rivelarsi errato. Non, però, il fatto che io provi delle esperienze. Questa è l’unica cosa della quale sono assolutamente certo. Tutto il resto è una congettura, inclusa l’esistenza di un mondo esterno.
La grande forza di questa definizione di senso comune – la coscienza come esperienza – è la sua completa ovvietà. Che cosa potrebbe esserci di più semplice? La coscienza è il modo in cui il mondo mi appare e in cui lo provo. Per fare esperienza di qualcosa non ho bisogno di una teoria scientifica, di un testo sacro, della conferma da parte di alcuna autorità ecclesiastica, politica, filosofica o di qualsiasi altra cosa. La mia esperienza esiste di per sé, senza bisogno di alcunché dall’esterno come, per esempio, di un osservatore.
Dopo aver chiarito le motivazioni fenomenologiche che lo inducono a collocare l’esperienza al centro del dibattito sulla coscienza, Koch delinea altri diversi elementi che considera imprescindibili per la sua analisi:
Coscienza e Struttura
Ogni esperienza – ovvero ogni coscienza – contiene delle distinzioni al suo interno. Questo significa che ogni esperienza è strutturata, composta da molte distinzioni fenomeniche interne. Su questo punto, Koch propone una serie di esempi, alcuni dei quali tratti a partire da un celebre disegno a matita del fisico e fenomenologo del XIX secolo Ernst Mach, di cui egli si serviva per descrivere la sua innenperspektive (prospettiva interiore). Sono esempi che richiamano alla mente anche altri studiosi che hanno analizzato il tema della strutturazione gestaltica del nostro sistema percettivo. Si pensi, ad esempio, a questo illuminante passaggio di José Ortega y Gasset:
Quando apriamo gli occhi – scriveva il filosofo spagnolo – c’è un primo istante in cui gli oggetti penetrano convulsi nel campo visivo. Sembra che si allarghino, si stirino, si disuniscano come se fossero di una corporeità gassosa tormentata da una raffica di vento. Ma a poco a poco subentra l’ordine. Per prime si acquietano le cose che cadono al centro della visione, poi quelle che occupano i bordi. Questo acquietarsi e questa fissità dei contorni provengono dalla nostra attenzione che le ha ordinate, che ha teso, cioè, fra di esse una rete di relazioni. Una cosa non si può determinare o delimitare se non in relazione ad altre (vale per l’identità personale stessa). Se continuiamo a prestare attenzione a un oggetto, questo si andrà determinando sempre più, perché troveremo in esso più connessioni e riflessi delle cose circostanti. L’ideale sarebbe fare di ogni cosa il centro dell’universo. Questa è la profondità: ciò che in qualcosa è riflesso, allusione alle altre cose. Il riflesso è la forma più sensibile di esistenza virtuale di una cosa in un’altra. Il “senso” di una cosa è la forma suprema della sua coesistenza con le altre, è la sua dimensione profonda.
Tale concezione orteghiana della struttura dell’esperienza, contribuisce a chiarire il fatto che ogni esperienza cosciente “co-costruisce” gli elementi della realtà esterna ai quali noi attribuiamo un carattere oggettivo. Tale realtà emerge aggiungendo ai singoli elementi qualcosa d’altro, qualcosa di diverso da essi, cioè una struttura che non è riducibile ai suoi singoli elementi. Ciò che Ortega chiamava struttura è una realtà che include gli elementi, ma secondo un certo ordine, una certa disposizione o relazione. La conseguenza è che la cosa, presa singolarmente, ha una realtà molto scarsa, isolata; e le realtà effettive di cui facciamo esperienza sono strutture in cui agli elementi materiali si sovrappongono ordini o disposizioni di diverso valore o significato.
Coscienza e informazione integrata nello spazio e nel tempo
Al di là della natura intrinseca e strutturata di ogni singola esperienza, ci sono altre proprietà che, imprescindibilmente, secondo Kock, caratterizzerebbero la coscienza. Per prima cosa, ogni esperienza è altamente informativa, si distingue per come è. Ogni esperienza – scrive Koch – è “informazionalmente” ricca. Contiene cioè una grande quantità di dettagli, una composizione di differenze fenomeniche specifiche, legate insieme in maniera particolare. Ogni fotogramma di ogni film che io abbia mai visto o che vedrò in futuro rappresenta un’esperienza distinta, ciascuna con un’abbondante fenomenologia di colori, forme, linee e trame posizionati lungo il campo visivo. Ci sono poi le esperienze uditive, olfattive, tattili, sessuali e le altre esperienze corporee – ciascuna distinta a modo suo. Non può esistere un’esperienza generica. Perfino l’esperienza di vedere vagamente qualcosa attraverso una coltre di nebbia, senza essere sicuri di cosa si stia vedendo, costituisce una specifica esperienza.
In secondo luogo, qualsiasi esperienza è integrata, irriducibile alle sue componenti indipendenti. Ogni esperienza è unitaria, olistica, comprese tutte le distinzioni fenomeniche e le relazioni presenti al suo interno. Se in questo momento distogliete lo sguardo dallo schermo del computer (o dai fogli del libro che state leggendo), farete esperienza dell’intera immagine che troverete di fronte a voi, incluso il vostro corpo sulla sedia e la stanza in cui vi trovate. Non avrete esperienza del lato destro o sinistro indipendentemente l’uno dall’altro o del quadro di fronte a voi separatamente dalla parete su cui è appeso, né dei cuscini separatamente dal divano su cui sono adagiati. Farete esperienza dell’intero “fenomeno”.
Terzo punto, ogni esperienza è definita nel contenuto e a livello di grana spaziotemporale. Non ci si può sbagliare. Guardando di nuovo la scena precedente, percepiremo il mondo esterno in prospettiva, dalla sedia, attraverso i nostri occhi. Vi è un contenuto preciso della coscienza che si trova “dentro”, mentre tutto il resto si trova “fuori”, oltre i riflettori. Il mondo che non percepiamo, al di fuori della delimitazione consentita dalla nostra specifica prospettiva, semplicemente non esiste. Le pennellate sono dipinte sulla tela; il resto non c’è. La nostra esperienza è quella che è, con un contenuto definito. Se fosse qualcosa di più (per esempio, vedere mentre si sente un mal di testa pulsante) o qualcosa di meno (la parete, ma senza la presenza del quadro), sarebbe un’esperienza diversa. In sintesi, qualsiasi esperienza cosciente possiede innanzitutto queste proprietà distinte e innegabili: ognuna esiste di per sé, è strutturata, informativa, integrata e definita. Queste, secondo Koch, sono le cinque caratteristiche fondamentali di ogni esperienza cosciente.
La teoria della coscienza integrata di Giulio Tononi
Dunque, ricapitolando, grazie ad un prima mossa Koch ripropone, in maniera sintetica e molto accurata, una più che soddisfacente risposta alla domanda: che cos’è la coscienza. La risposta è, grossomodo, quella già indicata dalla fenomenologia. Da scienziato autentico, Koch prova poi ad approfondire il suo discorso, andando anche alla ricerca di possibili ed eventuali riscontri empirici. In altri termini: ora noi sappiamo esattamente dove si trovi la coscienza; quello che non sappiamo ancora è dove essa “non è”. Sappiamo cioè che essa è determinata dal cervello. Tuttavia, sappiamo anche che non si trova in nessuna parte del cervello; che non è possibile determinare scientificamente nessun luogo specifico, di carattere materiale (un po’ quel luogo che Cartesio aveva creduto di trovare nella ghiandola pineale) dove essa si realizzi. Dai tempi di Cartesio a oggi abbiamo però fatto dei poderosi passi in avanti: sappiamo, ad esempio, che a livello neocorticale i neuroni sono organizzati in maniera reticolare. E sappiamo soprattutto, grazie a studiosi del calibro di Giulio Tononi, che le quantità di informazioni integrate possono essere calcolate con una certa precisione e che, insomma, è addirittura possibile misurare la coscienza; ovvero misurare la quantità di informazione che proviene dall’interazione a livello reticolare tra i neuroni.
Quella dell’informazione integrata è certamente la teoria più promettente per spiegare il funzionamento della coscienza umana che sia mai stata elaborata, ed è ad essa che Koch sembra voler totalmente affidarsi per gli ulteriori progressi della cosiddetta scienza della coscienza. Insomma, secondo Koch, molte delle risposte che ancora oggi ignoriamo relative alla coscienza, potremo trovarle presto grazie alla Teoria dell’Informazione Integrata di Tononi, l’unica che oggi ci consenta di poter individuare le proprietà fondamentali che i correlati neurali della coscienza devono soddisfare, offrendoci anche uno strumento per misurare l’essere coscienti o meno in pazienti in cui altrimenti non sarebbe possibile rilevare la presenza di comportamenti consapevoli.
Poniamola in questi termini: I circa ottantamila milioni di neuroni che compongono il nostro cervello, si trovano in continuo movimento, interconnessi, intercambiandosi un’infinità di segnali chimici ed elettrici che abbiamo appena cominciato a comprendere. Nel corso di questo processo, alcuni gruppi di neuroni si attivano in reti specifiche che immagazzinano una miriade di dati o – sarebbe meglio dire – modelli o pattern di dati, che a loro volta danno vita a reazioni particolari stimolate dall’esterno. Perché non dovrebbe essere possibile che da questi flussi emergano le idee che ci formiamo sul mondo e poi altre idee o insiemi di idee più insolite e strane in grado di vedere se stesse?
Se volessimo portare avanti questo discorso, nulla ci impedirebbe però di giungere a conclusioni come quelle proposte a suo tempo da Richard Dawkins, il quale sosteneva che l’insieme dei nostri organismi sarebbero in un certo senso succubi dell’egoismo dei nostri geni, in quanto questi ci obbligano a soddisfare la loro ansia di immortalità. La nostra coscienza, da questo punto di vista, non sarebbe altro che una sorta di pilota automatico che serve a far atterrare i suoi passeggeri nel modo migliore possibile: una geniale invenzione, una sorta di finzione grammaticale, poco più che un personaggio romanzesco.
Fenomenologia o scienza della coscienza?
Mentre, personalmente, ho trovato straordinariamente efficace la prima mossa di Koch, la seconda ripropone una questione a mio parere ancora sterile: la possibilità di una vera e propria scienza della coscienza. Come ho già avuto modo di argomentare su questa stessa rivista, andrebbe innanzitutto accettato il fatto che il metodo scientifico è semplicemente inappropriato per poter affrontare adeguatamente il tema della coscienza.
Le scienze, infatti, fondano i loro sforzi su un’analisi di tipo “differenziale”. Il loro obiettivo è stabilire delle categorie distintive in grado di guidare alcune attività selettive di ordine tecnologico. Quella che il filosofo francese Michel Bitbol definisce la “desaturazione” del loro campo di studi, appare dunque come una insormontabile condizione limitante, che si impone fin dai primi passi della ricerca scientifica.
L’allontanamento di questo genere di ricerca da quella che resta l’unica possibile fonte della coscienza – il soggetto stesso portatore di un’esperienza cosciente – finisce per essere il principio portante di ogni “scienza della coscienza”.
Un simile approccio sembrerebbe dunque destinato, a causa dei suoi stessi principi, a risultare fallimentare. E questo proprio perché, una volta stabiliti i suddetti criteri di “correttezza scientifica”, sarebbe semplicemente impossibile separare ciò che è coscienza da ciò che non lo è. Se lo strumento per definire la coscienza dev’essere una categoria chiusa che separa qualcosa come un’esperienza da un altro “qualcosa”, si finisce per non cogliere l’essenza stessa della coscienza, che si caratterizza proprio per collocarsi “qui e ora” – prima dell’apparire stesso delle cose del mondo, degli oggetti come delle persone. La coscienza è come la finestra attraverso cui osserviamo ciò che sta al di là della finestra stessa.
La proprietà principale di ogni parola, in fondo, è “significare” qualcosa che si trova “altrove”. La parola “tavolo” rinvia, ad esempio, attraverso il “suono” percepito nel presente “qui e ora”, a qualcosa che si trova in un “altrove” (distante nello spazio e, necessariamente, anche nel tempo). Per la loro stessa natura, le parole definiscono, classificano, allontanano dal qui e ora dove, invece, si svolge l’esperienza cosciente.
Citando Ernest Cassirer, potremmo dire che la coscienza è “la meta a cui tutta la nostra conoscenza volta le spalle”. Una conoscenza delle cose che si trovano davanti a noi, o di lato, dietro, etc.. Ma la coscienza – come suggerisce ancora lo stesso Bitbol – non si trova davanti a noi, ma alle spalle degli oggetti verso cui orientiamo il nostro desiderio di conoscere. “La coscienza è ciò che ci consente di conoscere qualcosa che si trova “là”; ma essa non si trova “là”, bensì “qua”.
In altri termini, non possiamo pretendere di far dire alle (neuro) scienze qualcosa che esse non potranno mai essere in grado, per definizione, di dirci. Non è possibile, ad esempio, dire qualcosa sulla coscienza soggettiva – l’esperienza in prima persona – senza chiedere, in un modo o nell’altro, al soggetto stesso, “cosa lui senta”, “cosa lui provi”. Dall’esterno, attraverso l’analisi delle correlazioni tra attività cerebrali e comportamenti osservabili, possiamo trovarci solo di fronte al manifestarsi di processi elettrici o biochimici misurabili, il che ha solo molto parzialmente a che vedere con le qualità soggettive (i famosi qualia) che caratterizzano l’esperienza cosciente.
Questo esercizio di “ignoranza consapevole” non deve tuttavia impedirci di continuare a porci delle domande relative al tema della coscienza. La provocazione è quella di non continuare a pretendere di cercare qualcosa in un luogo solo perché è solo lì che troviamo un lume disponibile per poter vedere. Si può trovare qualcosa anche senza doverla necessariamente percepire con gli occhi.
I qualia, la narrazione e l’esperienza del tempo
A questo proposito, il romanziere e saggista David Lodge proponeva alcuni anni fa di riflettere sul possibile contributo della letteratura allo studio della coscienza. La letteratura – egli scriveva – è documento della coscienza umana, è la testimonianza più ricca ed esauriente che si possa avere. Mentre con il romanzo l’uomo è probabilmente riuscito a descrivere al meglio l’esperienza dell’individuo che si muove attraverso spazio e tempo, la scienza cerca di formulare leggi esplicative generali che si applicano universalmente, leggi che erano in funzione prima di essere scoperte, e che presto o tardi qualcuno avrebbe scoperto. Le opere di letteratura descrivono sotto forma di narrazione la solida specificità dell’esperienza personale, che è sempre unica, perché ognuno di noi ha una propria, più o meno diversa, storia personale, che modifica ogni nuova esperienza; e la creazione di testi letterari riassume questa unicità (vale a dire, Emma di Jane Austen, per esempio, non avrebbe potuto essere scritto da nessun altro, e non sarà mai scritto un’altra volta da nessun altro, mentre un esperimento che dimostri la seconda legge della termodinamica è, e deve essere, ripetibile da qualsiasi scienziato capace).
Il dilemma nasce dal fatto che l’esperienza fenomenica è fatta in prima persona, e ciò sembra impedire la formulazione di un resoconto completamente oggettivo oppure causale. La scienza, naturalmente, è un discorso in terza persona. Non si usa la prima persona nelle opere scientifiche. Qualsiasi accenno ai qualia in un discorso scientifico – come a suo tempo avvertiva il celebre neurobiologo americano Gerald Edelman – sarebbe eliminato dal revisore. Ma uno studio scientifico della coscienza non può evitare i qualia.
Anche lo stesso Koch, a dire il vero, sembra consapevole della particolare delicatezza di un ulteriore elemento che indubbiamente caratterizza l’esperienza del “sentirsi vivi”: la questione del rapporto tra tempo e coscienza. È possibile sostenere – egli scrive – che ogni esperienza avviene in un momento particolare, il momento presente. Definire in modo oggettivo questo momento è stata una sfida per filosofi, fisici e psicologi sin da tempo immemore. Non ci sono dubbi che la vita vissuta sia costituita da tre diverse aree temporali: il passato, il presente e il futuro, laddove l’esperienza del presente rappresenta uno stadio intermedio tra il passato e il futuro. Il passato comprende tutto quello che è già accaduto. È immutabile, benché il modo in cui richiamo gli eventi all’interno del palazzo della mia memoria sia soggetto a reinterpretazioni e a ricorrenze che si susseguono in apparente violazione della causalità. Il futuro è la somma totale di tutto quello che ancora non è accaduto; è indeterminato e contingente. L’avanguardia del futuro continua a tramutarsi nel presente apparente che irrimediabilmente recede a passato non appena se ne è fatta esperienza.
Eppure, non si può evitare di ammettere che esistono esperienze non comuni durante le quali la percezione del tempo oggettivato svanisce. Per coloro che assumono sostanze allucinogene, per esempio, lo scorrere del tempo, la durata del momento presente, può rallentare e persino fermarsi del tutto. Il tempo avanza lentamente quando la propria attenzione è fortemente e totalmente coinvolta, come per esempio durante gli infiniti minuti finali di una partita di calcio in cui la tua squadra del cuore sta vincendo per un solo gol di scarto. Film come Matrix visualizzano questo rallentamento nella percezione del tempo attraverso il noto effetto del colpo di proiettile. In altre parole, lo “scorrere” esteriore e oggettivo del tempo non costituisce una proprietà universale di tutte le esperienze soggettive, ma solo di gran parte di queste.
Nessuno ha saputo proporci riflessioni più acute e geniali di Julio Cortázar, a proposito dell’esperienza soggettiva della temporalità, nonché sulle enormi difficoltà di descriverle e renderle oggettivamente fruibili al di là dei confini dell’espressione artistica.
Concentriamoci su questi brani tratti da “Il persecutore” – un racconto dedicato da Cortázar al genio del grande musicista Charlie Parker e al suo rapporto con la temporalità:
“Bruno, se tu un giorno potessi scriverlo… Non per me, capisci, a me che me ne importa. Ma dev’essere bello, io sento che dev’essere bello. Ti stavo dicendo che quando cominciai a suonare da ragazzino mi resi conto che il tempo cambiava. Glielo raccontai una volta a Jim e mi disse che tutti quanti sentono lo stesso, e che quando uno si astrae… Disse così, quando uno si astrae. Ma no, io non mi astraggo quando suono. Solo che mi sposto. È come in un’ascensore, tu te ne stai nell’ascensore a parlare con la gente, e non senti niente di stano, e nel frattempo passa il primo piano, il decimo, il ventunesimo, e la città è rimasta laggiù e tu stai finendo la frase che avevi cominciato entrando, e fra le tue prime parole e le ultime ci sono cinquantadue piani. Io mi accorsi, quando cominciai a suonare, che entravo in un ascensore, ma era un ascensore di tempo, se posso dirtelo così. Non credere che mi dimenticavo dell’ipoteca o della religione. Solo che in quei momenti l’ipoteca e la religione erano come il vestito che uno non porta addosso; io so che il vestito sta nell’armadio, ma non venirmi a raccontare che in quel momento quel vestito esiste. Il vestito esiste quando me lo metto, e l’ipoteca e la religione esistevano quando finivo di suonare…”
La coscienza – sembra dirci Cortázar, in piena consonanza con i dettami della fenomenologia – si manifesta solo quando sospendo l’esperienza, quando mi estraneo e rifletto su di essa. Poi sparisce, per ricomparire quando, insieme al nostro vecchio “io” di cui dicevamo all’inizio, ho bisogno di rispondere alle aspettative degli altri o agli stimoli che derivano dalla necessità di adattarmi all’ambiente in cui si trova il mio corpo (e il mio “io”). Ed è proprio lì che “io” – per dirla con Christof Koch – “mi sento vivere”.
L’impostore
Un tale richiamo all’arte della narrazione introduce un ultimo punto su cui amerei soffermarmi prima di concludere. Esso ci riconduce in un altro territorio assai controverso, molto noto a chi si occupa di coscienza e identità: l’io come forma narrativa, come storia che raccontiamo a noi stessi mentre si vive. Ci sono molti autorevoli studiosi, neuroscienziati e filosofi, fisici e romanzieri, che abbracciano questa feconda prospettiva teorica. Devo ammettere di essere per lungo tempo stato io stesso sedotto da una tale visione del sé e della coscienza: l’idea di un io come prodotto narrativo conferisce al soggetto un lusinghiero livello di efficacia performativa. Ci sentiamo corroborati dal pensiero di essere costruzioni volontarie e intenzionali di noi stessi. Ho dedicato numerosi lavori allo studio dell’identità come narrazione di sé. Tuttavia, devo ammettere di avvertire un disagio sempre crescente, soprattutto in qualità di romanziere (a proposito, di un mio altro “io”), in rapporto a questo incanto incondizionato per una tale idea. Prima di tutto ha cominciato a emergere in me una sorta di crescente scetticismo nei riguardi del libero arbitrio necessario a scrivere e a costruirmi un’identità: non mi sono scelto il corpo e il patrimonio genetico (né, tanto meno, il cervello e le reti neurali); non mi sono scelto genitori, fratelli, sorelle, amici d’infanzia, maestra di scuola: non mi sono mai scelto l’io della mia prima socializzazione, fondamento dell’io e della coscienza di me stesso su cui potrei elaborare, oggi, la narrazione della mia identità. Resterebbe poi molto da discutere sui gradi di libertà esercitati a proposito di molte delle esperienze fondanti le forme narrative delle mie identità successive: la scelta del partner sessuale, della moglie, dei figli, dei maestri, delle letture, della professione…; per non dire degli infortuni e delle malattie.
Al tempo stesso, sono sempre stato ben felice di accettare (in piena e ovvia contraddizione con me stesso!) il libero arbitrio come una sorta di illusione necessaria: possediamo una coscienza e dobbiamo di conseguenza farcene carico!
In secondo luogo, c’è inoltre quello scetticismo legato alla particolare fragilità della mia memoria. Quelli che sono gli anni della mia infanzia, della mia giovinezza e anche, oramai, quelli della mia maturità, sono dei semplici brandelli di ricordi dotati di legami solo molto labili tra loro. Insomma, non mi sento un testo coerente e lineare; il mio sentirmi vivo ha molto poco a che fare con il modo in cui sento vivere il protagonista o un qualunque altro personaggio (per quanto ben riuscito) di un romanzo. La mia vita è più simile a una catena di episodi casuali legati da un susseguirsi di presenti che non il risultato di un racconto o di una storia ben confezionata.
La questione dell’io come costruzione narrativa ci riporta inoltre, ancora, al paradosso poc’anzi accennato della temporalità: riconosciamo che il tempo ci trasforma, che il nostro io di tre anni era diverso di quello di otto, diciannove, quarantacinque anni e – soprattutto – che tutti “loro” erano diversi da quello attuale; eppure, ognuno di essi rivendica sul nostro io attuale un proprio diritto alla narrazione. E noi, d’altra parte, abbiamo piena consapevolezza che qualcosa (foss’anche un filo sottile) ci lega ad essi. Come ha scritto recentemente Ian McEwan in un godibilissimo saggio sull’identità, “durante un evento pubblico può capitare a un autore di dover rispondere a domande riguardo a un racconto o un romanzo scritti cinquant’anni prima. L’obbligo a farlo risulta chiarissimo, dal momento che nessuno scrittore solleva mai obiezioni all’eventuale pagamento dei diritti d’autore su un testo. Il che tuttavia non lo affranca dalla sensazione di essere un impostore, un ciarlatano. Quel libro non è il frutto del suo io attuale. Le frasi irriconoscibili, le tematiche sorprendenti potrebbero benissimo essere l’invenzione di un altro”.
E a questo si aggiunge che la nostra concezione della causalità cronologica degli eventi non è altro che una complessa, per quanto profonda e radicata, convenzione culturale. Che forse – come avvertiva Nabokov – “se il futuro esistesse in modo concreto e individuale, come qualcosa che può essere percepito da un cervello superiore, il passato non sarebbe così seducente: le sue esigenze risulterebbero controbilanciate da quelle del futuro (…). Ma il futuro non possiede questa realtà (contrariamente al passato rivisto nel ricordo e al presente percepito); il futuro non è che una figura retorica, un fantasma del pensiero”.
Ancora una volta: come affrontare questa sfuggevole e complessa molteplicità di fenomeni riportabili alla questione della coscienza? Come definire – per dirla con Virginia Woolf – quella miriade di impressioni – futili, fantastiche, evanescenti, o scolpite con una punta d’acciaio? “Esse ci giungono da ogni parte, in uno scroscio incessante di innumerevoli atomi; e mentre ricadono … prendono forma nella vita di un qualsiasi lunedì o martedì”.
Come radunare dunque questi elementi, potenzialmente infiniti, che costituiscono la vera e propria “natura” della coscienza?
A breve completerò questo scritto, spegnerò il computer, mi solleverò dalla sedia e uscirò di casa per recarmi all’Università dove lavoro. La sensazione delle dita che accarezzano la tastiera, la pressione della pianta dei piedi sul cuoio delle scarpe che avrò calzato, la percezione dell’asfalto sotto le suole, la disinvolta familiarità del passo, il contatto dell’aria pungente sul mio volto, la gradevole freschezza dell’aria e il leggero fremito provocato dal cambio di temperatura sul mio corpo nel passaggio da un ambiente (interno e riscaldato) a un altro (esterno e notevolmente più freddo). E poi l’incrociare degli “altri”. Scambi di sguardi con persone conosciute o mai viste prima. Rumori e immagini attese o impreviste che sottendono mentalmente il routinario registrare il traffico e i passanti. Tali pensieri sparsi sembrano presentarsi in modo spontaneo e ciononostante essere in qualche modo sotto controllo.
L’assillo di un compito non portato a termine, la vaga anticipazione della visita di un amico, un ricordo, un desiderio, una bramosia sessuale transitano come pulviscolo senza lasciare se non una flebile traccia; il rapido richiamo all’insonnia della notte precedente, la lingua che scandaglia con cautela il contorno di un dente mentre già si sta pensando al dentista. Disseminate dentro tutto questo, nell’ineffabile fattualità tenuta appena sotto la soglia del pensiero, stanno le intenzioni immediate: arrivare in tempo al lavoro, fare quel che dobbiamo una volta arrivati. Una voce ribelle, un altro io, ci dice, non per la prima volta, che sarebbe ora di mollare tutto. Lasciati andare, finché hai la forza di farlo! Raggiungi il molo, sali su una barca a vela e vai a farti un lungo giro in mare a goderti il sole di questa giornata, di questo presente …; Impossibile, ribatte l’io che ci sta portando a lavorare. Hai degli obblighi. Il dialogo interiore potrebbe proseguire all’infinito, arricchito da tutti i potenziali congiuntivi e condizionali possibili.
Magari incontri un vecchio amico e ti fermi a chiacchierare. Automaticamente cerchi di leggergli nel pensiero interpretando le sue espressioni, i gesti, la postura, il contenuto di quel che va dicendo e il tono in cui lo dice. Ma soprattutto, mentre conversi con lui, vedi il riflesso di te tornare indietro. L’altro, a sua volta, fa la stessa cosa. Quell’io che tu credi tanto personale a sua volta prende forma e consapevolezza di sfumature diverse del proprio valore anche da altri.
E nel frattempo, casomai, proprio mentre chiacchieri con l’altro, ripensi alle diverse teorie della mente di cui dovrai parlare tra breve ai tuoi studenti, e di cui avevi riletto alcuni appunti ieri sera. E poi confronti quello che ti appresti a spiegare in aula, con le questioni su cui ti sei appena confrontato con tua figlia a colazione, quelle secondo cui, quando interagiamo con una persona, ci illudiamo di essere due, mentre in realtà siamo almeno in sei: io, tu, colui che tu credi che io sia, colei che io credo che tu sia, colui che io credo che io sia, colei che tu credi che tu sia. E inoltre – sempre “casomai” – ripensi a quel brano del racconto di Cortázar, appena riletto in metropolitana, in cui il genio argentino si chiede come diavolo sia possibile “pensare un quarto d’ora in un minuto e mezzo”.
A questo punto temo ci tocchi riesaminare, con aumentata consapevolezza, la natura soggettiva della nostra coscienza; i molteplici motivi, talvolta anche inconsapevoli, che ci procurano la straordinaria sensazione di “sentirci vivi”.
Ma questo, forse, l’ho già scritto domani.
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Christof Koch
Sentirsi vivi. La natura soggettiva della coscienza
Raffaello Cortina 2021