intervista di Gianfranco Brevetto
Domenico De Masi è una delle massime autorità in materia di Sociologia del Lavoro. E’ stato per noi un privilegio porgli alcune domande per cercare di far luce in un campo dagli orizzonti non sempre chiari e definiti.
– Professore, quando si affronta un tema come il lavoro, articolato e complesso, spesso si ha la sensazione che si tenda a farlo con eccessiva approssimazione, senza approfondire. Qual è la sua opinione?
– Direi che il lavoro è una categoria che tutti conosciamo in prima persona. Fortunatamente un bel numero di persone lavora e sanno di cosa si tratta. In Italia l’occupazione complessiva è di 23 milioni di persone, di cui circa 18 milioni sono lavoratori dipendenti e quindi sanno bene non solo cosa è il lavoro ma anche cosa è il lavoro “dipendente”. Di questi 18 milioni, 15 sono a tempo indeterminato, pari all’84 %, con tutti i vantaggi e svantaggi di avere un padrone e un’occupazione garantita da una certa stabilità a tempo indeterminato. In ultimo, il 16 % possiede un lavoro a termine e dunque sperimenta tutti gli inconvenienti del precariato.
– Ma allora perché, affrontando questo tema, si ha la sensazione di trovarsi di fronte al tempo di agostiniana memoria: quando cerchiamo di descriverlo ci sfugge?
– La nostra costituzione è fondata sul lavoro. Ciò che posso realizzare, il potere d’acquisto e il prestigio di cui posso avvalermi, dipendono dal lavoro che faccio. Sui nostri biglietti da visita, sotto il nome, c’è scritta la professione. Noi ci identifichiamo con quello che facciamo. Come giustamente si chiedeva già Hannah Arendt: cosa succede se in una società fondata sul lavoro, il lavoro viene a mancare? Il problema che ci dobbiamo porre è quello di come organizzare una società interamente modulata sul lavoro se di lavoro ce n’è sempre meno. Questo crea, comprensibilmente, un disorientamento.
– Aggiungerei che anche al lavoro che abbiamo non sempre riusciamo a dare un senso…
– I problemi sono due: il primo riguarda la mancanza di lavoro, per cui si discute su come crearlo e come distribuirlo; il secondo riguarda chi ce l’ha e cosa ne ricava in termini di identità, di felicità, di prestigio e di retribuzione. Sono situazioni distinte tra chi lo vorrebbe e chi ce l’ha ma non ne è contento.
– E come fare nel secondo caso?
– Esistono lavori che comunque non hanno un senso: gli svantaggi che comportano in termini di identità e felicità sono superiori ai vantaggi. Si tratta di lavori cui ci si sobbarca semplicemente per poter sopravvivere, sono quei lavori che noi in sociologia chiamiamo “strumentali”. Ci sono però altri lavori che ci piacciono e con i quali riusciamo a realizzarci. In sociologia li chiamiamo “lavori espressivi”. Alcuni fortunati fanno un lavoro nel quale si sentono gratificati e altri sono costretti a fare un lavoro che non corrisponde alle loro aspirazioni e per il quale non hanno alternative. E quando non c’è significa due cose: o che una persona era fatta per tutta altra attività oppure era fatto per quel lavoro ma, quel lavoro, risulta inferiore alle sue aspettative.
– Passando alla cronaca sembrerebbe che oggi ci sia una certa difficoltà a mobilitarsi sui temi del lavoro; sembra che l’opinione pubblica si sia più sensibilizzata verso temi che, in altri tempi, sarebbero stati del tutto marginali.
– A me pare che la mobilitazione sulla questione lavoro sia permanente; ci sono continuamente tavoli di contrattazione dove il governo interviene. Non mi pare che sia un campo privo di conflittualità. I problemi di politica economica hanno sempre come sottofondo il lavoro.
– Non ritiene che gli interventi in materia di lavoro, negli ultimi anni, siano in qualche modo troppo frammentati? Sono il frutto di una politica complessiva?
– Nel 2011 l’occupazione in Italia era del 57,1 %, molto bassa: su 100 adulti solo 57 lavoravano. Per fare in modo che ci fosse maggiore lavoro sono stati messi in atto una serie di interventi: è entrata in vigore la legge Biagi, è stato ridotto il cuneo fiscale, è stato abolito l’art. 18, è stata azzerata l’Irap, sono stati aboliti e poi reintrodotti i voucher, sono entrate in vigore le norme che vanno sotto il nome di Jobs Act. Tutti questi provvedimenti sono costati decine di miliardi. Quindi non è che non si sia affrontato il lavoro nel suo complesso: lo si è fatto in modo sbagliato. Tanto è vero che, dopo tutti questi interventi, che hanno comportato migliaia di ore di scioperi e di trattative, oggi l’occupazione è arrivata al 58, 4%. Non è crescita affatto se si pensa che l’occupazione in Germania è, attualmente, al 79%. Interventi globali ce ne sono stati ma sono stati sbagliati.
– In cosa?
– Si è cercato di creare nuovi posti di lavoro invece di ridistribuire il lavoro che già c’è. Il lavoro diminuisce per due motivi: 1) per la globalizzazione; 2) per il progresso tecnologico e organizzativo. Noi abbiamo macchine e capacità organizzative con cui produciamo sempre più beni e sempre più servizi con sempre meno lavoro umano. Questo è il progresso! Però, siccome il lavoro diminuisce, bisogna ridistribuirlo: se il padre continua a lavorare 10 ore al giorno il figlio resta disoccupato. In Germania l’hanno fatto: in media, un tedesco lavora 1371 ore in un anno; un italiano ne lavora 1725. Dunque, un italiano sgobba 400 ore in più. E, lavorando 400 ore in più, naturalmente ci sono meno posti di lavoro. Infatti la disoccupazione tedesca è al 3,8% mentre quella italiana è all’11%. Da noi, invece di fare delle politiche per ridurre l’orario di lavoro, si è cercato di creare nuovi lavori, che, alla fine dei conti, sono stati pochi e, per di più, precari.
– Quest’anno cade il bicentenario della nascita di Karl Marx, in cosa aveva visto giusto?
– In moltissime cose, per esempio nel fatto che oltre a creare lavoro occorre anche, come si diceva, ridistribuirlo. Questa operazione non è semplice da farsi e spesso occorre intervenire con le lotte sindacali e, se nemmeno con queste si riesce, diceva Marx, bisogna passare dalle riforme alla rivoluzione. Le riforme spesso sono insufficienti perché, mentre si realizzano lentamente, i problemi che con esse si voleva risolvere mutano radicalmente e quindi si ritorna punto e a capo, come è successo con la legge Fornero. Marx da questo punto di vista aveva visto bene.
In un primo momento Marx aveva sottovalutato il fatto che si andava verso una forte riduzione tecnologica del lavoro necessario per produrre beni e servizi per cui il problema successivo sarebbe stato quello di cosa si fa nel tempo libero. Però nell’ultima parte dei Grundisse trattò con grande lungimiranza il rapporto che si sarebbe creato tra il progresso tecnologico e l’occupazione, prevedendo alla perfezione la disoccupazione tecnologica.
– Un’ultima domanda, gli immigrati, i nuovi arrivati, vengono spesso considerati come una concorrenza sul mercato del lavoro. Lei crede che questo sia un problema reale o gli immigrati sono funzionali al mercato del lavoro?
– Noi siamo separati dai paesi poveri per mezzo di una barriera liquida come il mare. Al di là del Mediterraneo vivono 1,2 miliardi di persone con un Pil pro capite intorno ai 5.000 euro l’anno. Al di qua c’è l’Europa dove vivono meno di 750 milioni di persone con un Pil che supera i 30.000 euro annuali. É ovvio che si cerchi di andare verso le zone più ricche: l’abbiamo fatto anche noi quando siamo emigrati verso l’America del nord, il Brasile o l’Australia. Viviamo in un paese che si sta contraddistinguendo per la bassa natalità e negli ultimi tre anni i morti sono stati più dei nati. Quindi abbiamo bisogno di giovani e, quelli che arrivano sui barconi, sono tutti giovani, spesso sono anche scolarizzati più di quanto noi crediamo. Senza immigrati, molte imprese, soprattutto al Nord, rischierebbero di chiudere. Il fatto di bloccare totalmente l’immigrazione è una miopia che, tra qualche anno, pagheremo caramente.