di Federica Biolzi
Il femminicidio è assurto recentemente e tristemente agli onori delle cronache. Si tratta, tuttavia, di una piaga sociale con risvolti spesso ancora da investigare. Antonio Gioiello, psicologo e psicoterapeuta, ci aiuta a far luce, con una sua articolata ricerca, su questo fenomeno.
– Il suo attualissimo libro, che analizza il fenomeno nel quinquennio 2018—2022, ci mette di fronte uno dei drammi che, purtroppo, si presenta con cadenza quasi quotidiana, il femminicidio. Occuparsi di queste tristi vicende non è per nulla facile per una serie di criticità, non ultima proprio la definizione del femminicidio stesso. Cosa s’intende per femminicidio e cosa lo distingue da un omicidio?
-Il termine omicidio quando si è di fronte alla morte di una donna per violenza da parte di un uomo è fuorviante. Non ci dice nulla, lascia l’evento nella indeterminatezza e privo di significato sociale e culturale, distoglie l’attenzione dalla matrice di genere del delitto. E’ ciò che vorrebbero coloro che negano l’esistenza di un grande problema nelle relazioni uomo/donna nella nostra società.
Il termine femminicidio invece ci racconta molto. Primo, che è morta una donna. Secondo, che a provocarne la morte è stato un uomo. Terzo, ci dice perché quella donna è stata uccisa o è morta e cioè che il movente è di genere, il suo appartenere al genere femminile. Significati che il termine omicidio non contiene e non può contenere. Per ciò nel mio libro rilevo che una delle maggiori criticità nel contrasto al fenomeno è quella di introdurre nel nostro ordinamento penale il reato di femminicidio. Con l’introduzione di questo reato la morte di tante donne che oggi rimane impunita avrebbe un responsabile e le stesse indagini di forze dell’ordine e di magistratura sarebbero orientate in modo deciso verso la ricerca oltre che del responsabile anche del movente di genere e ciò porterebbe ad una rilevazione più attendibile e ad una migliore conoscenza del fenomeno. Non solo, inoltre emergerebbe con chiarezza che il femminicidio, tranne rare eccezioni, è l’epilogo di una storia di violenza, non un fatto isolato, improvviso ed imprevedibile; e che per essere compreso e prevenuto va inserito in questa storia di violenza, entro la quale assume significato.
– Se stiamo alle statistiche ufficiali fornite dall’Istat, queste non sempre ci restituiscono un quadro chiaro del fenomeno. Perché?
-Infatti, perché i dati forniti dall’Istat non sono dati sul femminicidio, e ce lo dice la stessa Istat. Nel report del 24 novembre del 2023, che riporta i dati del 2022, l’Istat afferma che allo stato si può solo fare “una stima” del fenomeno e che i dati forniti sono “presunti” femminicidi. Poi c’è da tenere conto che l’Istat si avvale dei dati raccolti dal Servizio Analisi Criminale del Ministero dell’Interno che nei suoi Report, riguardo ai dati sugli «omicidi volontari … di vittime donne», annota chiaramente che «Non viene effettuata un’analisi dei “femminicidi” in quanto tale definizione, pur facendo riferimento a una categoria criminologica nota, non trova corrispondenza in una fattispecie codificata nel nostro ordinamento giuridico». Per ciò, toglierei il “non sempre” della sua domanda e direi che “le statistiche ufficiali dell’Istat non ci restituiscono un quadro chiaro del fenomeno del femminicidio”.
Aggiungo, la Treccani di recente ha dichiarato il termine femminicidio la parola dell’anno 2023 ed attribuisce al termine il seguente significato «Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale ….». Ora è evidente che il verbo provocare indica l’essere responsabile di un evento, indipendentemente dalla volontà manifesta ed esplicita di determinarlo. Cosa voglio dire (e che affermo nel mio libro), che il termine femminicidio va oltre quanto sta dentro il reato di Omicidio previsto dall’articolo 575 del nostro codice penale che comprende solo la uccisione volontaria. Infatti con il termine femminicidio, seguendo gli studi delle più importanti studiose del fenomeno Diana Russel e Maria Marsela Lagarde, io penso si debba intendere “la uccisione o la morte anche involontaria di donne a conseguenza di comportamenti maschili violenti”. Quindi considerare vittime di femminicidio anche le donne morte a seguito di maltrattamenti o morte per suicidio dopo maltrattamenti, abusi, violenze. In questo senso, per esempio, come rilevo nel libro, la morte di Tiziana Cantone nel 2016, secondo le indagini morta per suicidio, è da considerarsi pienamente un femminicidio, in quanto provocata dall’azione violenta della diffusione di sue immagini intime.
Per tutte queste ragioni i dati forniti dall’Istat, che i mezzi di informazione traducono disinvoltamente in dati sul femminicidio, non solo non ci consegnano un quadro attendibile del fenomeno, ma sono la dimostrazione di quanto ancora siamo indietro nella vera rilevazione e conoscenza del fenomeno.
– Entrando nel merito dell’articolata ricerca da lei condotta, quali sono stati i risultati che maggiormente evidenziato il fenomeno negli anni di riferimento?
-La ricerca ha analizzato il fenomeno attraverso i casi di femminicidio accaduti in Italia dal 2018 al 2022, che sono stati n. 499. Si sono esaminate le caratteristiche degli autori e delle vittime: età delle vittime, nazionalità di autore e vittima, rapporto tra autore e vittima, movente, regione nella quale si è verificato il femminicidio e se esso è avvenuto in casa o fuori casa, esito delle indagini. Inoltre, ho rilevato anche le altre vittime di femminicidio, cioè altre persone uccise o assieme alla donna vittima o anche separatamente. In questa rilevazione per esempio ci sono i figli e le figlie minori uccisi dai loro padri che sono stati n. 32, tantissimi. Poi ci sono i dati sui minori orfani che sono stati n. 190. Numeri che evidenziano la gravità di questo fenomeno, che al di là di sterili dichiarazioni ancora non si affronta in modo adeguato.
Ritornando ai dati sulle donne vittime, impressionante è il numero delle donne dai sessantacinque anni in su, sono quasi 1/3 del totale. E se si vuole fare un’analisi seria del fenomeno bisogna differenziare i casi dai sessantacinque anni in su dai casi di età inferiore. Assieme a questo dato, elemento non secondario emerso nella ricerca è stata l’alta percentuale delle donne uccise dai loro figli, anche questo aspetto trascurato nelle quasi totalità delle analisi sul fenomeno. Altro dato rilevante è la distribuzione dei casi in Italia: tranne che nel Molise in tutte le regioni ci sono stati femminicidi. La Regione con l’indice di femminicidio più elevato in rapporto alla popolazione femminile residente è risultata il Trentino Alto Adige, dato che sconfessa lo stereotipo secondo il quale la violenza sulle donne ed il femminicidio siano più frequenti al Sud. Ma il dato più significativo è stato quello sul movente. Separazione-Maltrattamenti-Sfera della sessualità, nelle fasce d’età sino ai 64 anni, sono stati nel loro insieme il 91% dei moventi dei femminicidi. Ciò a conferma che le donne sono uccise in quanto donne in un contesto culturale che le vuole assoggettate.
– Uno dei moventi principali di quest’atto criminoso riguarda la separazione della coppia. Si tratta, precisiamo, di percorsi molto dolorosi soprattutto in presenza di figli minori. Lei pensa che sia possibile, attraverso una maggiore responsabilizzazione delle figure che a vario titolo intervengono in questa delicata fase, riuscire a ridurre la conflittualità?
-Si, nella mia ricerca la Separazione, nella fascia d’età inferiore ai sessantacinque anni, è stato il movente del 48% dei femminicidi, la percentuale più alta dei moventi. Ma nei casi di violenza la conflittualità non c’entra niente, è un’altra cosa, che coinvolge coppie appunto in conflitto ma su un piano di parità. Ed è assolutamente necessario che tutte le figure professionali che a vario titolo intervengono nelle situazioni di separazione siano formate a distinguere i casi di conflitto dai casi di violenza. Fare confusione tra le due diversissime situazioni è molto pericoloso. Per esempio, si potrebbe nei casi di violenza costringere la donna a percorsi di conciliazione o mediazione, tecniche vietate dalla Convenzione di Istanbul e dalla Riforma Cartabia che mettono a rischio l’incolumità della donna e dei suoi figli. Non pochi bambini e bambine sono stati uccisi perché non si è attentamente valutato il rischio che correvano a frequentare il padre.
La separazione è un momento doloroso della vita della coppia, è il momento in cui una delle due parti decide che la coppia scompare, non esisterà più. I componenti la coppia che si separa affrontano un percorso non semplice. Sul piano psicologico, la necessità di ripensare se stesso/a ed il senso del proprio vivere. Difficoltà e sofferenze amplificate nelle situazioni di violenza. Ma in diversi casi, quando è la donna a decidere la separazione, ciò non è accettato, anzi è rifiutato, nei casi di femminicidio sino alla soppressione fisica della donna. E’ evidente in questa reazione tipicamente maschile il peso determinante di fattori culturali, sui quali si dovrebbe riflettere per cambiare. Non è un conflitto tra due alla pari, ma il non riconoscimento da parte dell’uomo della libertà della donna di scegliere e di autodeterminarsi.
– I minori orfani costituiscono un dramma nel dramma, destinato a durare. Cosa si sta realmente facendo per garantire un sostegno che vada al di là delle buone intenzioni?
-Si fa pochissimo, come del resto si fa pochissimo per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza maschile sulle donne. I finanziamenti pubblici che sostengono i servizi specialistici che sono i Centri Antiviolenza e le Case Rifugio sono assolutamente insignificanti. Ed è spiazzante la differenza tra la partecipazione emotiva e gli impegni manifestati a cospetto dell’ennesima vittima di femminicidio da coloro che hanno responsabilità di Governo, ai vari livelli Istituzionali, e le decisioni che poi assumono quando devono finanziare i servizi. Non si può affrontare efficacemente una problematica così vasta e dalle molteplici dimensioni senza investimenti economici adeguati.
I minori orfani di femminicidio hanno necessità immediata di assistenza economica e soprattutto di essere psicologicamente protetti. Bisogna garantire contesti e luoghi stabili e sicuri. Ed è fondamentale che questi supporti arrivino in modo tempestivo. Per loro si apre subito la fase delicata dell’affidamento, è importantissimo che vengano scelte figure per il minore o la minore altamente significative da un punto di vista affettivo, generalmente tra i familiari della vittima. E si dovrebbe considerare con elevata attenzione sulla inopportunità di incontri con il genitore-femminicida e con membri della sua famiglia. Sono responsabilità grandissime, che incidono in modo irreversibile sul destino di questi bambini e di queste bambine.
Ma principalmente i minori orfani di femminicidio sono bambini e bambine che in tenera età sono costretti a subire e a vivere il trauma di una doppia separazione, quella dalla madre e quella dal padre.
D’altra parte, stesse delicate responsabilità si hanno nei confronti di minori vittime di violenza assistita. Anche in questi casi gli operatori e le operatrici che li assumono in carico sono chiamati/e a scelte decisive per il loro sviluppo e per la loro vita futura. Sono chiamati/e a gestire dinamiche psichiche profonde, che riguardano le figure primarie di attaccamento.
Per gestire queste situazioni occorrerebbe una formazione specialistica e continuativa di tutto il personale che viene a contatto con queste realtà: dal personale del sistema Giustizia, a quello dei Servizi Sociali Territoriali, a quello della Sanità, e non di meno a quello della Scuola.
Ma appunto più che “buone intenzioni” ci vorrebbero investimenti che non ci sono.
Per adesso c’è l’esperienza di Impresa Sociale Con i Bambini, che nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa, ha emanato il bando “A braccia aperte”, da cui sono stati selezionati 4 progetti, distribuiti per 4 macroaree italiane (progetto S.O.S. – Sostegno Orfani Speciali, per il nord-ovest; progetto Orphan of Femicide Invisible Victim, per il nord-est; progetto Airone, per il centro; progetto R.E.S.P.I.R.O., per il sud). Una esperienza che si sta rivelando molto interessante e che mi auguro abbia un seguito.
Antonio Gioiello
Il femminicidio in Italia
Cinque anni all’inferno
2023 Armando Editore