EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Riconoscersi. Il problema irrisolto della coscienza

di Gianfranco Pecchinenda

 

Una riflessione a partire dal volume di Joseph LeDoux, Lunga storia di noi stessi. Come il cervello è diventato cosciente, Raffaello Cortina 2020.

 

Nel corso della mia adolescenza capitava spesso che i miei genitori, di fronte ad alcuni comportamenti ritenuti socialmente inappropriati, mi chiedessero pazientemente di passarmi “una mano sulla coscienza”. Nella mia memoria riappare ancora oggi, di tanto in tanto e non senza un pizzico di nostalgia, l’immagine di quel mio vecchio io che in modo distratto, piuttosto che annoiato, fingendo di scandagliare alcune zone della superficie del suo corpo, rispondeva ironicamente di non sapere dove poterla trovare, la “coscienza”. Successivamente mi è capitato di usare tale ricordo per spiegare ai miei studenti come la coscienza rappresenti, per tutti noi, un po’ quello che il tempo rappresentava per Sant’Agostino: Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so.

Memorie personali a parte, resta il fatto che uno dei grandi problemi della scienza resti ancor oggi quello del rapporto tra la coscienza e il corpo, tra mente e materia. In che modo il sentire e l’esperienza di sé si rapportano al mondo fisico? In che modo il cervello può dare origine alla coscienza?

La lunga storia della coscienza

È un po’ come se il mondo avesse due aspetti che, sebbene spesso combacino, sembrano però farlo seguendo una logica che, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze scientifiche, non riusciamo ancora a comprendere e spiegare: da un lato, l’esistenza delle sensazioni e degli altri processi mentali avvertiti da un organismo vivente; dall’altro, il mondo della biologia, della chimica e della fisica.

Negli ultimi trent’anni le neuroscienze hanno orientato in particolare la loro attenzione allo studio di questa tematica, nel tentativo di approfondire le dinamiche biochimiche e neurofisiologiche che è possibile rintracciare alla base di questo straordinario fenomeno. Seguendo un diffuso punto di vista evoluzionista, sono state avanzate molteplici ipotesi alquanto verosimili sul modo in cui la coscienza sarebbe comparsa a partire dalla materia, seguendo il seguente ragionamento: Milioni di anni fa gli esseri viventi non erano altro che aggregati di cellule indisciplinate che, in mare, cominciavano a vivere come insiemi dotati di una struttura relativamente stabile. Alcuni di essi, riuscirono ad adottare uno stile di vita particolare. Diedero vita a comportamenti all’insegna della mobilità e dell’attività, stimolando l’emergere di occhi e antenne e sviluppando strumenti per manipolare gli oggetti intorno a loro. Evolsero così il movimento strisciante dei vermi, il volo ronzante dei moscerini, i viaggi su scala planetaria delle balene.

“In tale contesto – come ha scritto Peter Godfrey-Smith, filosofo australiano, autore di uno dei più apprezzati lavori di stampo neoevoluzionista sulla coscienza – a un certo stadio imprecisabile, evolse anche l’esperienza soggettiva: alcuni animali provano una sensazione particolare a essere ciò che sono. Vi è un sé di qualche tipo che vive l’esperienza di quel che accade”.[1]

Joseph LeDoux, neurobiologo di fama mondiale, ha recentemente provato ad affrontare anch’egli la stessa titanica impresa di ricostruire “la lunga storia” dell’evoluzione della coscienza, a partire dal modo in cui gli organismi più semplici hanno usato il comportamento per soddisfare, nel corso della loro vita, gli stessi requisiti di sopravvivenza, fino ad arrivare agli esseri umani[2].

La sua tesi, in estrema sintesi, è che “il linguaggio, la cultura, la capacità di pensare e ragionare e la capacità di riflettere su chi siamo”, per quanto rappresentino una novità assoluta e rivoluzionaria nella storia dell’evoluzione, abbiano radici profonde che risalgono agli albori della vita.

Affrontare l’impegno di leggere le cinquecento pagine di questo libro, le quindici parti in cui è suddiviso, i sessantasei capitoli (oltre prefazione, prologo ed epilogo) dedicati a un tema tutto sommato già assai dibattuto in maniera ricorrente, sarebbe stata un’impresa di cui avrei fatto volentieri a meno, se non fosse per l’indiscusso fascino di un autore che, a partire dalla pubblicazione de Il Sé Sinaptico[3], ho sempre seguito con passione, fino ad assumere un ruolo determinante nell’introdurmi all’oramai imprescindibile mondo delle neuroscienze.

Essere il proprio cervello

In questo monumentale lavoro LeDoux prende spunto da un’affermazione a suo dire incontrovertibile: l’essenza di chi siamo dipende dal nostro cervello. “Il cervello ci permette di pensare, di provare gioia e dolore, di comunicare attraverso la parola, di riflettere sui momenti della nostra vita e di anticipare, pianificare e preoccuparci del futuro che immaginiamo”.[4] Tuttavia, la diffusa tradizione secondo cui, al fine comprendere la nostra psicologia e, soprattutto, l’emergere della nostra coscienza, si debba guardare ai cervelli di altre specie animali, e in particolare ai mammiferi e agli altri vertebrati, sarebbe secondo LeDoux una strategia sbagliata. Sarebbe un po’ come voler cercare di capire la storia dei computer digitali partendo dai primi dispositivi esteriormente simili ai computer di oggi: Commodore, Apple e Personal Computer IBM della fine degli anni Settanta. A suo parere, per comprendere davvero le complesse funzioni psicologiche dei nostri cervelli, dovremmo invece prendere in considerazione la storia più profonda, andando alle radici della vita stessa, fino agli antichi microrganismi unicellulari. Questi ultimi, pur non avendo un sistema nervoso, né tantomeno un cervello, hanno comunque messo in atto comportamenti tesi a risolvere i problemi fondamentali della sopravvivenza, trasmettendo attraverso i millenni la loro soluzione a tutti gli organismi successivi.

Una delle questioni chiave da cui prende spunto tutta l’opera di LeDoux, è dunque proprio questa: studiare il comportamento umano non in quanto strumento della mente ma – soprattutto – come strumento di sopravvivenza. La connessione del comportamento con la vita mentale sarebbe, come la vita mentale stessa, soltanto una tappa di passaggio frutto del nostro portato evolutivo. “Per apprezzare veramente il modo in cui il nostro cervello ci fa essere quello che siamo” – è, insomma, la sua tesi portante – “dobbiamo capire le strategie di sopravvivenza che sono state messe in atto in antichi organismi unicellulari, conservate in forme di vita primitive multicellulari, recepite da cellule specializzate, dette neuroni, quando nei primi invertebrati si è sviluppato il sistema nervoso, per essere poi mantenute nel sistema nervoso degli invertebrati antenati dei vertebrati, e successivamente usate dall’uomo e da tutti gli altri animali nella loro vita quotidiana, indipendentemente dal livello di semplicità o complessità del loro corpo”.[5] È insomma necessario comprendere soprattutto quali siano quegli aspetti del comportamento umano legati a processi ereditati da vari altri organismi, in modo tale da poter spiegare meglio quelli che non lo sono.

Chiarito il tema di fondo della prospettiva di LeDoux, come dicevo, ho deciso di proseguire questo faticoso e impegnativo corpo a corpo intellettuale con il testo, anche grazie alla presenza di una serie di argomenti che mi stanno particolarmente a cuore, che vengono affrontati da LeDoux a partire dal quarantaduesimo capitolo, dedicato alle origini della cognizione, e portati avanti fino al tentativo finale di spiegare le radici stesse dei nostri cervelli emotivi (capitoli 65 e 66) nonché, appunto, su come il cervello è diventato cosciente.

Su questo tema, devo dire subito che la mia formazione radicalmente fenomenologica, mi induce a nutrire delle salde perplessità che vorrei provare qui ad argomentare.

Un cervello che pensa

Nonostante io non possa evitare di ammettere – come d’altronde fa lo stesso LeDoux – che il nostro cervello sia indispensabile per consentirci di pensare, provare gioia e dolore, comunicare attraverso la parola, immaginarci il passato e, soprattutto, il futuro; trovo allo stesso modo del tutto scontata l’affermazione secondo cui non è il cervello a pensare, provare gioia e dolore, a comunicare attraverso la parola o a progettare eventi futuri. Un cervello, infatti, non pensa, prova dolore o piacere. Sono “io” (o, se vogliamo, la mia “coscienza”) a vivere tali esperienze puramente soggettive. Certo, il cervello è indispensabile, ma non lo è più del corpo in cui è incarnato o del contesto sociale (gli “altri” con cui inevitabilmente interagisce) in cui è situato.

Insomma, la fenomenologia ci insegna che nessun “cervello”, di per sé, può diventare “cosciente”. Anzi, al contrario, la coscienza costituisce il vero problema irrisolto, la vera “sfida” di ogni approccio scientifico finalizzato allo studio del cervello in relazione al comportamento umano.

Mi piace sottolineare a tal proposito l’affermazione del filosofo statunitense Alva Noë,[6] secondo cui il miglior punto di partenza per affrontare il tema della coscienza sarebbe quello di smettere di guardare nel nostro cervello o nei recessi della nostra interiorità, per volgere invece lo sguardo “ai modi in cui ciascuno di noi, nella sua interezza, porta avanti la propria vita in relazione al mondo che lo circonda, con esso e in risposta a esso. Il soggetto dell’esperienza non è una parte del nostro corpo. Noi non siamo il nostro cervello. Il cervello, piuttosto, è una parte di ciò che noi siamo”.[7]

Un problema difficile

Una volta condiviso questo fondamentale punto di partenza, ci troviamo però di fronte a una spinosa biforcazione del problema, per risolvere il quale il filosofo australiano David Chalmers,[8] intorno alla metà degli anni Novanta, aveva introdotto una distinzione divenuta oramai celebre. La questione della coscienza, egli scriveva, può essere affrontata in due modi: uno semplice, l’altro ben più difficile.

Il nostro cervello, evidentemente, processa i vari contenuti e stimoli che riceve dal corpo e dall’ambiente. Questa è la parte facile. Rientrano in questo caso gli studi relativi alla capacità di discriminare, categorizzare e reagire agli stimoli ambientali; alla riferibilità neuronale di determinati stati mentali; alla capacità di un sistema di accedere ai propri stati interiori; alla focalizzazione dell’attenzione; al controllo deliberato del comportamento; alla differenza tra stati di veglia e di sonno. Si tratta, in questi e altri casi simili, di problemi relativamente facili da affrontare (anche se non sempre altrettanto facilmente risolvibili) che sembrano poter essere esaminati con i metodi standard delle scienze cognitive, dove un fenomeno è spiegato in termini di meccanismi computazionali o neurali.

Tuttavia, il cervello sembra aggiungere un fattore addizionale che trasforma il puro processamento oggettivo dei contenuti nell’esperienza soggettiva. È a questo punto che il discorso sulla coscienza cambia radicalmente, aprendo il campo al cosiddetto “problema difficile”.

Come sosteneva Thomas Nagel,[9] esiste qualcosa come essere un organismo conscio: quando vediamo, ad esempio, facciamo esperienza di sensazioni visive; la qualità percepita del rosso, l’esperienza del buio e della luce, la peculiarità della profondità in un campo visivo. Altre esperienze accompagnano la percezione secondo modalità differenti: il suono di un sassofono, l’odore del caffè. Ci sono poi sensazioni corporee, dal dolore all’orgasmo; immagini mentali rievocate interiormente; la qualità sentita di un’emozione e l’esperienza di un flusso di pensiero conscio. Ciò che unisce tutti questi stati è il fatto che ci sia “qualcosa come” essere in loro: “cosa si prova a” / “what it is like”.

Insomma, si è perlopiù concordi sul fatto che l’esperienza derivi da una base fisica, neuronale, ma non è ancora emerso alcun tipo di spiegazione convincente relativa al perché e al come avvenga una tale derivazione. Perché un processo fisico dovrebbe dare origine in generale a una vita interiore? Oggettivamente sembrerebbe immotivato che ciò debba avvenire e tuttavia accade. Il cervello non si emoziona, non vive esperienze soggettive, non prova sentimenti; tuttavia, quando ci emozioniamo, quando viviamo esperienze e quando proviamo qualcosa, avvengono manifestazioni oggettivamente verificabili a livello cerebrale.

Sebbene le neuroscienze abbiano fatto passi da gigante nel rispondere alle questioni connesse al problema facile della coscienza, esse – nonostante i ripetuti sforzi di prestigiosi studiosi, tra i quali spicca per originalità e competenza quello del nostro Joseph LeDoux – non sembrano in grado di poter affrontare autonomamente le complesse questioni legate al problema difficile.

Un cervello incarnato ed esteso

Un passo avanti può essere fatto avvicinando ulteriormente l’approccio fenomenologico a quello più specificamente neuroscientifico. Per affrontare tale passaggio è necessario chiarire alcuni altri elementi riguardanti il rapporto tra coscienza e cervello, associando alla risposta relativa allo “spazio” (il luogo della coscienza), quello relativo al “tempo”. Il neuroscienziato portoghese António Damasio, definisce la coscienza come “uno stato della mente in cui vi è conoscenza della propria esistenza e di quella dell’ambiente circostante”.[10] Prendendo spunto da questa semplice definizione possiamo sottolineare il fatto che tale concetto è riferito, appunto, a uno stato della mente particolare, arricchito dalla percezione del particolare organismo in cui la stessa mente sta operando, e dalla percezione di un ambiente – e dunque di uno specifico contesto sociale – all’interno del quale lo stesso organismo è situato.

“Riconoscere come nostro” l’organismo, non equivale però a dire che “il nostro cervello riconosce”: il fatto che oggi le neuroscienze dispongano di strumenti in grado di dimostrare che quando un soggetto prende coscienza di qualcosa che accade al suo organismo, il suo cervello (o una parte di esso) reagisce in modo empiricamente misurabile, non implica che tale stato di coscienza sia equiparabile al suo cervello. Come abbiamo già osservato, un cervello non è in grado di percepire un colore rosso; è lo stato di coscienza del colore rosso che rende possibile l’esperienza vissuta.

Noi emergiamo grazie a un momento di attenzione, quando rivolgiamo intenzionalmente il nostro sguardo verso qualche oggetto presente nel mondo esterno e – contemporaneamente – lo colleghiamo in qualche modo a una rappresentazione del nostro mondo interno. Una rappresentazione del tutto illusoria, se vogliamo, senza la quale però saremmo del tutto ciechi nei confronti dell’ambiente che ci circonda.

Affinché una tale esperienza si manifesti, è necessario che l’organismo in questione disponga di un cervello dotato di determinate caratteristiche (ovvero di una serie complesse di reti neurali particolarmente evolute e interconnesse tra loro). Tuttavia – come ad esempio sostiene il premio Nobel Gerald Edelman – il cervello che interessa il fenomeno esperenziale della coscienza non può essere ridotto semplicemente all’organo materiale, perlopiù composto da una massa grassosa di carne, racchiusa all’interno di una scatola cranica. Il cervello inteso in questo senso, indipendentemente dalle sue connessioni con l’ambiente e con il resto dell’organismo, non sarebbe molto diverso da un ammasso di materia inerte.

Il cervello che ha a che fare con il “problema difficile della coscienza”, ovvero con il vissuto esperenziale, è sempre un cervello incarnato ed esteso. Il primo concetto, relativo alla cosiddetta embodied cognition, si riferisce al fatto che tutte le attività neurobiologiche possibili a livello materiale, dunque empiricamente descrivibili e verificabili scientificamente, sono possibili se e solo se il cervello invia dei segnali al corpo e il corpo invia dei segnali al cervello. Questo equivale a dire che le mappe cognitive connesse alle aree cerebrali eventualmente attivate, sono modificate non solo da ciò che percepiamo attraverso i sensi, ma anche dal modo in cui ci muoviamo fisicamente. Oltre a ciò – come ribadisce lo stesso Edelman – il cervello regola a sua volta le funzioni biologiche fondamentali degli organi del nostro corpo, e gestisce i movimenti e le azioni che accompagnano e orientano i nostri sensi.

Il secondo concetto, relativo al cervello esteso, è riferito al fatto che il corpo (di cui è parte integrante il cervello stesso) è sempre immerso e situato in un ambiente particolare, che lo influenza e da cui è influenzato. Il che equivale a dire che la triade cervello-corpo-ambiente sociale dev’essere, sempre e comunque, considerata inscindibile.[11]

Una fenomenologia della coscienza: Michel Bitbol

Gran parte di queste riflessioni non sono del tutto estranee ai ragionamenti proposti nelle pagine del libro di LeDoux, il quale tuttavia permane sempre coerentemente ingabbiato in un paradigma scientifico che non prende neppure in considerazione la possibilità di rivolgersi a una diversa modalità di affrontare la questione della coscienza, come potrebbe essere quella derivante da un approccio più genuinamente fenomenologico.

A tal proposito il filosofo francese Michel Bitbol[12] rileva l’opportunità di considerare innanzitutto il fatto che il metodo scientifico è semplicemente inappropriato per poter affrontare adeguatamente il tema della coscienza.

Le scienze, infatti, fondano i loro sforzi su un’analisi di tipo “differenziale”. Il loro obiettivo è stabilire delle categorie distintive in grado di guidare alcune attività selettive di ordine tecnologico. Quella che Bitbol definisce la “desaturazione” del loro campo di studi, appare dunque come una insormontabile condizione limitante, che si impone fin dai primi passi della ricerca scientifica.

L’allontanamento di questo genere di ricerca da quella che resta l’unica possibile fonte della coscienza – il soggetto stesso portatore di un’esperienza cosciente – finisce per essere il principio portante di ogni “scienza della coscienza”. E questo nonostante le difficoltà di poter dimostrare in alcun modo che possano esistere processi mentali totalmente “privi” di coscienza; nonostante le difficoltà di poter dimostrare la plausibilità di tesi alternative che sostengano come tutti i processi mentali siano in qualche modo coscienti, anche se non necessariamente memorizzati o riflessivi; nonostante il carattere incerto dell’esistenza di un “punto zero” della coscienza che possa finalmente renderla una variabile oggettiva, categorizzata e utilizzabile quantitativamente dalla “scienza della coscienza”.[13]

Un simile approccio, sostiene insomma Bitbol, è destinato, a causa dei suoi stessi principi, a risultare fallimentare. E questo proprio perché, una volta stabiliti i suddetti criteri di “correttezza scientifica”, sarebbe semplicemente impossibile separare ciò che è coscienza da ciò che non lo è. Se lo strumento per definire la coscienza dev’essere una categoria chiusa che separa qualcosa come un’esperienza da un altro “qualcosa”, si finisce per non cogliere l’essenza stessa della coscienza, che si caratterizza proprio per collocarsi “qui e ora” – prima dell’apparire stesso delle cose del mondo, degli oggetti come delle persone. La coscienza è come la finestra attraverso cui osserviamo ciò che sta al di là della finestra stessa.

La proprietà principale di ogni parola, in fondo, è “significare” qualcosa che si trova “altrove”. La parola “tavolo” rinvia, ad esempio, attraverso il “suono” percepito nel presente “qui e ora”, a qualcosa che si trova in un “altrove” (distante nello spazio e, necessariamente, anche nel tempo). Per la loro stessa natura, le parole definiscono, classificano, allontanano dal qui e ora dove, invece, si svolge l’esperienza cosciente.

Citando Ernest Cassirer, potremmo dire che la coscienza è “la meta a cui tutta la nostra conoscenza volta le spalle”. Una conoscenza delle cose che si trovano davanti a noi, o di lato, dietro, etc.. Ma la coscienza – suggerisce Bitbol – non si trova davanti a noi, ma alle spalle degli oggetti verso cui orientiamo il nostro desiderio di conoscere. “La coscienza è ciò che ci consente di conoscere qualcosa che si trova “là”; ma essa non si trova “là”, bensì “qua”.

Il modo migliore per affrontare fenomenologicamente il tema della coscienza diventa dunque, secondo Bitbol, quello di rinunciare a un approccio cocciutamente scientifico ed aprirsi fiduciosamente al metodo fenomenologico. Il che significa, in altri termini, evitare di provare a rispondere alla questione, se questa viene posta in termini ontologici (smettere cioè di provare a rispondere alla domanda “che cos’è” la coscienza?), e rivolgere la nostra domanda di ricerca al processo che rende possibile l’emergere dell’esperienza cosciente, chiedendosi: “Chi” pone la domanda “che cos’è la coscienza?”.

In altri termini si rende necessario provare a tornare “là” (hic et nunc) dove la domanda di carattere ontologico è stata eventualmente posta. È quello, il “là” del soggetto, l’unico possibile “luogo” da cui cominciare la nostra ricerca sulla coscienza come processo esperenziale.

Un tale approccio non è tuttavia esclusivamente critico nei confronti delle neuroscienze cognitive, disciplina rispetto alla quale lo stesso Bitbol nutre il più grande rispetto, soprattutto per l’enorme contributo che la ricerca continua incessantemente ad apportare allo studio e alla comprensione del “problema facile” della coscienza.

Tuttavia – egli sostiene – non possiamo pretendere di far dire alle neuroscienze qualcosa che esse non potranno mai essere in grado di dirci. Non è possibile, ad esempio, dire qualcosa sulla coscienza soggettiva – l’esperienza in prima persona – senza chiedere, in un modo o nell’altro, al soggetto stesso, “cosa lui senta”, “cosa lui provi”. Dall’esterno, attraverso l’analisi delle correlazioni tra attività cerebrali e comportamenti osservabili, possiamo trovarci solo di fronte al manifestarsi di processi elettrici o biochimici misurabili, il che ha solo molto parzialmente a che vedere con l’esperienza cosciente.

Se l’approccio è quello di definire il proprio oggetto di ricerca definendo, classificando, sottraendo, eliminando tutto ciò che ci può essere di “soggettivo” in ciò che appare e si manifesta all’osservazione (umana o puramente strumentale), esso è, comunque, inevitabilmente destinato a fallire il bersaglio. Se si cercano le invarianti (ciò che non varia in base all’esperienza soggettiva), ricercando gli aspetti oggettivi-formali delle manifestazioni dei soggetti studiati, si evita di osservare proprio l’elemento che maggiormente caratterizza l’esperienza cosciente.

In tal senso la proposta fenomenologica potrebbe essere letta proprio come lo studio di ciò che è troppo evidente per essere osservato. Va però ricordato che, secondo molti (ma non certo per Bitbol e, più modestamente, neanche per me), sarebbe proprio questo il suo lato debole, il suo non essere “scientifica”.

Certo, la fenomenologia non è una “scienza”, così come non è neppure una “filosofia”. Essa è principalmente una pratica. O meglio, è una disciplina fondata su una pratica di trasformazione continua e costante dello sguardo; della percezione di ciò che chiamiamo “coscienza”. L’epoché – che, come tutti sanno, costituisce lo strumento principale e fondamentale di ogni fenomenologia – pretende in fondo proprio di marcare una pausa, una sospensione rispetto al nostro abituale modo di osservare il mondo che ci circonda. Fare dei ragionamenti su dei concetti già precedentemente definiti, come appunto può essere il concetto di coscienza, sarebbe pertanto un atteggiamento per definizione estraneo a un approccio genuinamente fenomenologico.

Emozioni e coscienza

Malgrado le perplessità appena espresse, relative in particolare a questo ostinato tentativo di voler spiegare l’emergere della coscienza attraverso lo studio del cervello, nel quadro di un paradigma rigidamente legato al modello delle scienze “dure”, il volume di Joseph LeDoux ci dice però ancora molte altre cose di grande e indiscusso interesse culturale, a partire da quello che resta il suo campo disciplinare più congeniale: lo studio dei comportamenti emotivi e, in particolare, delle emozioni correlate alla paura e all’ansia.[14]

Riprendendo una celebre affermazione di William James, secondo cui bisognerebbe sempre fare molta attenzione nel formulare ipotesi tratte dal senso comune per ciò che concerne il ruolo svolto dalla paura, dall’ansia o da altre emozioni nel determinare il comportamento umano, LeDoux riesce a dimostrare (in questo caso sì, la funzione del metodo scientifico può dirsi determinate ed efficace) come la correlazione tra l’esperienza soggettiva della paura e le risposte comportamentali e fisiologiche che ricorrono insieme ad essa, sia più debole di quanto le persone in genere credano.

Noi tutti ereditiamo un corpo significativo di “credenze” – nel senso orteghiano del termine[15] – dalla società in cui ci ritroviamo a far parte e, soprattutto, le rinforziamo con assunti che derivano dal linguaggio di senso comune proprio della nostra cultura. Una volta recepita tale credenza, essa diviene un punto di riferimento dato per scontato per riflettere sulle nostre intuizioni e per motivare i nostri comportamenti. Ciò che risulta incoerente o contraddittorio con le nostre credenze, viene in genere ignorato. Questo discorso, ovvero il cosiddetto pregiudizio della conferma, come ci ricorda LeDoux, vale tuttavia anche per la scienza e per gli scienziati.

Per esempio, l’area cerebrale più spesso considerata responsabile della paura è l’amigdala. Il collegamento tra l’amigdala e la paura era stato individuato per la prima volta negli anni Cinquanta. Ma l’idea che l’amigdala fosse il centro della paura del cervello aveva iniziato a prendere piede in seguito a una ricerca condotta negli anni Ottanta da un gruppo coordinato dallo stesso LeDoux, in cui veniva usato il condizionamento pavloviano per studiare tale emozione. In questa procedura, l’associazione di uno stimolo di per sé non significativo, come un suono, a una leggera scossa elettrica, suscitava comportamenti difensivi e aggiustamenti fisiologici (ad esempio la cavia si immobilizzava e la frequenza cardiaca si accelerava, così come si modificavano il livello di pressione sanguigna o i livelli ormonali).

La ricerca del gruppo di LeDoux dimostrava in modo scientifico, insomma, che l’amigdala era una parte essenziale del circuito cerebrale che controllava le risposte comportamentali e fisiologiche suscitate dalla minaccia condizionata. E poiché l’oggetto della ricerca era il condizionamento alla “paura”, era nata in modo naturale l’ipotesi secondo cui lo stato della paura fosse ciò che veniva condizionato, e che l’amigdala fosse un centro determinate della paura.

Da allora in poi, una molteplicità di altre ricerche aveva continuato a confermare tale ipotesi, al punto che oggi, la tesi che l’amigdala sia il centro della paura non è più solo una dottrina scientifica, ma anche una sorta di meme culturale entrato nella routine e nelle conversazioni abitudinarie nella vita quotidiana, nonché naturalmente presente in film, cartoni animati, canzoni, racconti eccetera.

Tuttavia – dando qui un’ulteriore prova della sua irreprensibile onestà intellettuale, nonché del suo genuino e rigoroso spirito scientifico – LeDoux ammette che una tale associazione di senso comune, benché fondata sulle sue stesse teorie scientifiche, è sbagliata. E questo nonostante le sue ricerche abbiano contribuito in maniera determinante – soprattutto a partire dalla pubblicazione di un altro dei suoi importanti lavori sul cervello emotivo[16] – alla diffusione di una tale erronea ipotesi. “Quando ho scritto Il cervello emotivo” – egli ammette – “non ero ancora a conoscenza degli scritti di Bacon”.

Francis Bacon, già nel lontano 1620, aveva infatti messo in guardia gli scienziati dal concedere tacitamente realtà alle cose semplicemente perché abbiamo parole per esse. “In altre parole – scrive LeDoux – quando diamo un nome alle cose le reifichiamo, conferendo a esse le proprietà implicite nel nome che diamo a esse”. L’uso di nomi soggettivi come etichette per stati non soggettivi che controllano il comportamento, espone al rischio di infettare il comportamento con proprietà dello stato soggettivo implicite nel nome.

Infatti – egli continua – quando si chiamano i comportamenti e i circuiti che li controllano usando parole relative a emozioni come paura, i comportamenti e i circuiti acquisiscono le implicazioni emotive del nome.

La ricostruzione che LeDoux propone per risalire ai motivi che hanno generato il suo errore, costituiscono a mio avviso una delle vette delle riflessioni proposte in questo suo libro: “Fin dai primi giorni della mia ricerca sugli animali – scrive – ho sostenuto che l’amigdala fosse responsabile del controllo delle cosiddette risposte alla paura, ma non della generazione del sentimento cosciente di paura. Per concettualizzare semanticamente questa differenza, ho preso in prestito la distinzione tra esplicito e implicito che stava emergendo nella ricerca sulla memoria. In particolare, ho proposto che l’amigdala fosse responsabile della paura inconscia o implicita per il controllo delle risposte. Per contro, la paura cosciente esplicita, ho sostenuto, emerge dai circuiti cognitivi corticali che sono responsabili di altre esperienze coscienti. L’amigdala contribuisce così al sentimento cosciente della paura, ma solo indirettamente, senza esserne essa stessa la responsabile (…). Tuttavia, molti (sia profani sia scienziati) non erano consapevoli della distinzione tra paura implicita ed esplicita (…), così, invece di considerarla parte di un circuito implicito della paura, l’amigdala è stata vista come un centro della paura. E senza l’aggettivo qualificante (cioè, implicita), si è dato per scontato che la paura indicasse la paura cosciente”.[17]

Dopo essersi assunto la responsabilità dell’equivoco – sottolineando l’importanza del fatto che spesso l’ovvio non è così scontato quando si è immersi nelle cose, LeDoux si ripropone di contribuire alla soluzione della confusione da lui stesso generata, consigliando di “ripulire il linguaggio della paura” a partire dalla considerazione, di derivazione puramente fenomenologica, secondo cui il modo in cui parliamo del nostro lavoro ha effetti profondi sul modo in cui lo pensiamo e procediamo nella nostra ricerca.

“Retrospettivamente – conclude LeDoux su questo punto – penso che la distinzione tra paura implicita e paura esplicita fosse destinata a fallire perché il termine paura costringe la mente umana a completare il pattern concettuale di paura. Anche se una migliore attenzione al linguaggio potrebbe aiutare a chiarire la semantica del controllo comportamentale, penso che sia necessario un approccio più radicale, che ci permetta di discutere del modo in cui gli animali e gli esseri umani danno una risposta comportamentale a stimoli significativi nella loro vita, senza essere confusi e/o intrappolati nei dibattiti su ciò che sperimentano quando ciò avviene.

Questa concezione, credo, ci aiuterà a spianare la strada per abbandonare l’idea che la coscienza emotiva tragga origine da antichi circuiti ereditati da antenati animali a favore di una visione che si basi sulla scienza moderna della coscienza umana”.[18]

Per una semantica della coscienza

Pur ribadendo le mie perplessità relative al diffuso ottimismo connesso alla possibile realizzazione di una vera e propria “scienza” della coscienza, a meno che questa non includa in sé un approccio più radicalmente fenomenologico (e quindi, ahimè, paradossalmente, anche poco “scientifico”), mi piace notare come la proposta di LeDoux di ridefinire una “semantica delle emozioni”, da porre alla base di una riflessione che faccia progredire la conoscenza in questo delicato ambito dell’esistenza umana, lasci intravedere quanto meno alcuni squarci di luce tra le pareti finora apparentemente inviolabili del linguaggio troppo “oggettivizzante” di questa pretesa “scienza” della coscienza. L’idea di una maggiore apertura, insomma, ai fondamentali contributi interdisciplinari che possano derivare dalle scienze umane e sociali, dal mondo dell’arte e, soprattutto, dalla letteratura.

In tal senso il riferimento di LeDoux al completamento (fenomenologico) di patterns concettuali, mi sembra un passaggio determinante.

Le parole, insomma, “contano”.

Contano per la scienza, così come per i discorsi di senso comune. Proviamo dunque a riformulare, in conclusione, alcune delle riflessioni fin qui proposte.

Gli esseri umani, così come tutti gli organismi viventi, sono dotati di comportamenti guidati da meccanismi non coscienti, che ne promuovono la sopravvivenza e la riproduzione. I meccanismi di base di tali comportamenti sono implementati nel sistema nervoso e vengono definiti, nel linguaggio scientifico di LeDoux, circuiti di base. Nel senso comune (ma, come abbiamo appena visto, anche nella scienza), ci si riferisce spesso a questi “circuiti” che sono alla base del comportamento, in termini di stati mentali. Si parla pertanto di circuito della paura, di circuito dell’ansia e così via, inducendo talvolta (erroneamente) a presupporre che lo stato mentale sia la causa del comportamento.

Abbiamo tuttavia appena chiarito come tali circuiti (che lo stesso LeDoux definisce, infine, circuiti di sopravvivenza), e gli stati globali che essi generano negli organismi, controllano il comportamento in modo inconsapevole.

Negli organismi che, come gli esseri umani, sono in grado di prendere coscienza delle attività del proprio cervello, le varie componenti degli stati di sopravvivenza globale “possono anche influenzare le emozioni coscienti che, a loro volta, possono portare a un controllo deliberativo del comportamento emotivo, tanto non conscio quanto cosciente. I sentimenti emotivi possono, quindi, avere conseguenze reali nella nostra vita (…). Per comprendere le loro reali conseguenze dobbiamo però separarle da quelle che sono impropriamente attribuite ai sentimenti”.[19]

Provo a chiarire quest’ultima fondamentale riflessione proposta da LeDoux, attraverso un esempio:

Posto di fronte a una minaccia (la presenza di un serpente) il sistema sensoriale di cui è dotato un determinato organismo, reagisce attivando un circuito (istintuale e inconsapevole) di sopravvivenza, che a sua volta condurrà a una determinata risposta comportamentale (ad esempio, la fuga). In tale processo, il ruolo dell’amigdala, a livello del circuito di sopravvivenza, può essere considerato determinante.

Al contempo, però, negli organismi dotati di un sistema nervoso caratterizzato dalla presenza di circuiti cognitivi corticali, come quello di siamo dotati noi esseri umani, oltre a una risposta inconsapevole, compare anche uno stato correlato che produce un’esperienza cosciente che può essere definita paura, ovvero un sentimento consapevole che conduce la persona in questione a sentirsi impaurita o ansiosa.

La differenza tra i due stati è sostanziale.

Come fa notare lo stesso LeDoux, se un farmaco che agisce sull’amigdala viene somministrato a un paziente ansioso, avrà effetti per ciò che concerne l’attivazione di strategie inconsce di difesa, ma non otterrà grandi risultati (probabilmente non ne otterrà alcuno) dal punto di vista del lenimento del sentimento di paura o di ansia correlato alla vista del serpente (o anche solo a una fotografia di un serpente o della semplice parola “serpente”).

“Siamo stati troppo soddisfatti – conclude LeDoux – delle correlazioni superficiali tra il comportamento e gli stati mentali coscienti. Avremmo dovuto scavare più a fondo per capire le condizioni in cui gli stati coscienti controllano e non controllano il comportamento negli esseri umani. E avremmo dovuto usare queste informazioni per temperare le nostre naturali intuizioni antropomorfe sul ruolo dei sentimenti emotivi coscienti negli animali. Quando tutto ciò su cui dobbiamo fare affidamento è il modo in cui si comportano gli animali, tutto ciò che possiamo fare è avvicinarci con cautela alla coscienza”.[20]

Ecco: dobbiamo approcciarci sempre con molta cautela alle questioni che riguardano la parola coscienza, compresi i significati che tale concetto suscita nell’esperienza del soggetto in questione, sia per ciò che concerne il linguaggio comune, sia per quanto riguarda la cosiddetta “scienza” della coscienza.

Joseph LeDoux, 

Lunga storia di noi stessi. Come il cervello è diventato cosciente,

Raffaello Cortina 2020.

[1] Peter Godfrey-Smith, Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza, Adelphi 2018 (2016), p. 21

[2] Joseph LeDoux, Lunga storia di noi stessi. Come il cervello è diventato cosciente, Raffaello Cortina 2020 (2019)

[3] Joseph LeDoux, Il Sé Sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quello che siamo, Raffaello Cortina 2002

[4] Joseph LeDoux, Lunga storia di noi stessi, p. 31.

[5] Ivi, p. 34.

[6] Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2010 (2009), p. XV.

[7] Ivi, pp. 7-8

[8] David Chalmers (1996), The conscious mind: In search of a fundamental theory, Oxford University Press.

[9] Thomas Nagel, Che cosa si prova a essere un pipistrello?, Castelvecchi, Roma 2013 (1974).

[10] António Damasio Il Sé viene dalla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano 2012 (2010), p. 201. Considerata l’enorme e sempre crescente letteratura, anche semplicemente divulgativa, sul tema, nonché l’obiettivo prevalentemente introduttivo di questo scritto, non mi dilungherò sulle possibili alternative alle definizioni proposte da Damasio.

[11] Gerald M. Edelman, Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza, Einaudi, 2005 (2004).

Gerald Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina, 2007.

[12] Michel Bitbol, La conscience a-t-elle une origine? Des neurosciences à la pleine conscience: une nouvelle approche de l’esprit, Flammarion, 2014.

[13] Ivi, p. 474.

[14] L’autore ha dedicato a questo tema un altro monumentale saggio: Joseph LeDoux, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, Raffaello Cortina, 2016.

[15] Josè Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Mimesis, 2014 (1934)

[16] Joseph LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini e Castoldi, 2014 (1995).

[17] Joseph LeDoux, Lunga storia di noi stessi, pp.413-414.

[18] Ivi, p. 416.

[19] Ivi, p. 417

[20] Ivi, p. 423

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