EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

(Ri)Essere nel mondo: Martin Heidegger, il progetto e il labirinto dell’esistenza.

di Giacomo Dallari

 

Martin Heidegger ha consegnato al mondo una grande verità: ognuno di noi esiste in quanto collocato in una determinata situazione o, come preferiva descriverla il filosofo tedesco autore di Essere e tempo, l’esistenza è un essere – gettato (geworfen) ed esistere, in fin dei conti, vuol dire avere a che fare con un progetto. Siamo soggetti interessati a mantenere o a modificare una situazione: la manteniamo nel momento in cui non  arreca danni, la modifichiamo, o tentiamo di modificarla, nel momento in cui, in un modo o nell’altro, può rappresentare una minaccia. Abbiamo quindi due possibilità: conservazione o trasformazione. In entrambi i casi, comunque, non abbiamo una reale possibilità di scelta e le regole del gioco non sono decise da noi, ma dalla condizione storica in cui ci troviamo e dalle caratteristiche che essa ha determinato.

Questo, però, non deve deresponsabilizzarci rispetto alle nostre esistenze, non può in alcun modo divenire un fatto determinato, tantomeno determinante, che consegna le nostre vite ad una condizione di passiva rassegnazione e di aprioristica rinuncia. Il termine progetto, anche se rimanda inevitabilmente ad una condizione già costituita e precedentemente organizzata, non ha nulla di generico. Una cattiva abitudine ci porta a ritenere che la vita prosegua a nostra insaputa, come un fatto compiuto determinato da molteplici cause e diversi fattori: biologici, ambientali, economici e culturali.

Certo, è anche questo, ma non solo. «Noi – come scrive Gianni Vattimo nella sua celebre Introduzione a Heidegger – non siamo al mondo per osservarlo come oggetto o come legge, ma siamo al mondo per progettarci: il nostro rapporto con l’essere è un rapporto progettuale» (Vattimo, 2011, p.22).

Ognuno di noi è chiamato a ragionare all’interno di un orizzonte storico e culturale, composto da una serie di presupposti ereditati che, spesso, possono trasformarsi in pregiudizi e, quasi certamente, possono limitare la nostra conoscenza del mondo. Ed è qui che l’importanza dell’insegnamento di Heidegger si mostra con tutta la sua forza: se è vero che non posso scegliere il mondo in cui mi trovo, è altrettanto vero che proprio la sua progettualità intrinseca lo rende conoscibile, comprensibile e, soprattutto, sperimentabile. L’esperienza del mondo deve essere guardata con gli occhi, con i nostri occhi e il mondo è un complesso di aspettative sulle quali siamo chiamati ad un lavoro di comprensione e di interpretazione senza il quale non avrebbe senso la nostra esistenza.

La nostra capacità conoscitiva, infatti, non rispecchia sterilmente le cose del mondo e gli oggetti di cui è composto, anche perché – se così fosse – la realtà sarebbe completamente priva di interesse umano, senza passione e scevra di partecipazione e il tempo avrebbe una natura puramente lineare, pura per così dire, senza divenire storicità e temporalità, che è poi la condizione del tempo che ci interessa maggiormente in quanto storia personale. Per non parlare del futuro, che perderebbe la sua dimensione progettuale fatta di attese, di speranze e di aspettative rimanendo semplicemente un qualcosa che già si conosce che deve essere semplicemente raggiunto, un luogo nel quale dovremmo unicamente arrivare.

Secondo Heidegger gli uomini si trovano sempre all’interno di un insieme di significati, le stesse strutture concettuali che alcuni autori contemporanei come Jack Mezirow chiamano prospettive di significato (cfr. Mezirow, 2003) che utilizziamo come valigie colme di idee, aspettative, metodi, e linguaggi che ci accompagnano nel viaggio di comprensione del mondo. Ognuno di noi possiede queste valigie, le porta con sé, magari modificandone i contenuti: alcune volte una semplice ventiquattrore, altre volte una di quelle valige con le ruotine, semplici, comode e veloci, altre ancora porta con se un bagaglio più pesante e ingombrante. Ma questo non modifica la nostra natura di esseri chiamati a rapportarci alla nostra possibilità: l’esistenza non è da intendersi come un qualcosa di dato una volta per tutte, immutabile e imperturbabile ma, proprio come suggerisce il suo significato etimologico, esistere significa letteralmente stare fuori, cioè andare oltre la realtà e consegnarla alla possibilità e alla sua condizione di poter – essere.

È in questo suo aspetto che le tematiche proposte nella prima metà del Novecento  da Martin Heidegger sono per noi oggi così attuali. Proprio nel momento in cui la crisi spalanca le sue porte e si mostra per quello che è, le parole di Heidegger possono offrirci la possibilità di ritrovarci in un contesto che da familiare e abituale è divenuto, in poche settimane, minaccioso e imprevedibile. Se è vero che l’essere dell’uomo è  un rapportarsi alla possibilità, è altrettanto vero che tale possibilità, soprattutto nel momento di una crisi che abbraccia tutti gli aspetti della nostra vita, possa attuarsi non in termini astratti e immateriali, ma nella sua natura concreta e materiale fatta di un costante rapporto quotidiano con le cose, gli oggetti e con le altre persone.

Parafrasando le parole di Heidegger potremmo dire che siamo chiamati a “(ri)essere nel mondo”. Il termine tedesco utilizzato da Heidegger per indicare l’esistenza è infatti Dasein che letteralmente significa esserci e l’aggiunta della particella ci esprime con efficacia che l’esistenza, lungi dall’essere pura trascendenza o  meccanica datità, è da intendersi come ci siamo, cioè partecipiamo attivamente alla nostra quotidiana battaglia contro il tempo, lasciando un segno nel nostro personale progetto.

Il Coronavirus ha modificato sostanzialmente i nostri rispettivi progetti; ha modificato alcune dinamiche che non erano neppure prese in esame poiché rimanevano nel sottofondo delle nostre esistenze come semplici fatti aprioristici e scontati. Nessuno avrebbe mai immaginato di pensare in termini critici alla propria libertà di movimento. Essa era istantanea, immediata, libera da vincoli di qualsiasi tipo, era un fatto e un oggetto che utilizzavamo talmente tanto che perdeva la sua natura di entità separata da noi: per la prima volta abbiamo percepito la libertà come un qualcosa, cioè come una presenza, come direbbe Martin Heidegger, esistenziale. L’esserci è dunque nel mondo come un fatto legato alla comprensione stessa del mondo ed è criterio della sua significabilità: «L’esserci – scrive a questo proposito il filosofo tedesco – nella sua intimità con la significabilità è la condizione ontica della possibilità della scopribilità dell’ente che si incontra nel mondo nel modo d’essere dell’utilizzabilità»(Heidegger, 1998,p165).

La libertà è diventata qualcosa di utilizzabile a tal punto che il suo vero significato si è scontrato, per la prima volta nel mondo contemporaneo, con la nostra vita. Abbiamo vissuto e compreso che le cose, gli oggetti e gli enti, come per esempio la libertà, sono dotate di una funzione che noi scopriamo essere all’interno di una totalità di significati più ampi. L’esistenza, quindi, non è la somma delle sue caratteristiche peculiari come, ad esempio, libertà, identità, soggettività, conformità e altro ancora, ma è la condizione stessa della sua essenza: ri-essere nel mondo significa quindi non tanto avere a che fare con quell’ente o quell’oggetto, ma percepire una rinnovata familiarità con la totalità dei significati che costituiscono sostanzialmente noi e il mondo. E questo significa che la libertà, così duramente messa alla prova, si è mostrata per quello che è. Proveniamo, infatti, da decenni in cui abbiamo interpretato la libertà come fosse una proprietà dell’individuo e non una sua caratteristica. Ricordiamoci che l’essere è il mondo. Questo ha fatto sì che la libertà coincidesse sempre di più con la volontà del tutto individuale di fare ciò che si vuole, come una manifestazione, a volte capricciosa e altre volte impetuosa, del libero arbitrio. Al contrario, la libertà che Heidegger definirebbe progettuale, implica sempre l’altro e, nel caso specifico di questo periodo storico, viene a delinearsi come esperienza collettiva che ne mostra il valore più alto.

Ognuno di noi ha uno scopo: capire chi si è autenticamente. Potrebbe apparire come un compito estremamente complesso, labirintico e faticoso. L’idea proposta da Heidegger dell’esistenza come progetto, però, ci può essere d’aiuto soprattutto nel momento in cui i nostri costrutti principali sono messi alla prova, sono portati all’estremo: siccome sono un progetto, il mio obbiettivo è comprendere a pieno le mie possibilità, dare ad esse l’opportunità di manifestarsi come enti strumentali, capaci cioè di offrirmi una serie di dispositivi di significato che mi consentano di ricostruire la mia condizione come persona, come corpo e come ente.

 

 

Bibliografia

G. Vattimo, Heidegger e la filosofia della crisi, Capire la filosofia. La filosofia raccontata dai filosofi, La biblioteca di Repubblica n°12, Gruppo Editoriale l’espresso s.p.a., Roma, 2011.

G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971.

M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1998.

J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003.

 

 

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