di Bruno Mastroianni
Esiste un sogno recondito che ciascuno di noi coltiva dentro di sé ogni volta che affronta una discussione: quello di arrivare a fare in modo che l’altro si arrenda, riconosca i suoi errori, torni sui suoi passi e ammetta di fronte a tutti che abbiamo ragione. È il sogno della disputa che finisce con un vincitore netto e uno sconfitto altrettanto riconoscibile.
Un sogno che non solo non si avvera, ma che mette in una posizione foriera della maggior parte dei fallimenti nelle discussioni. A ben vedere, infatti, questa aspettativa illusoria deriva da una precisa immagine che abbiamo del dibattito – il battersi e la battaglia – metafora che di per sé conduce alla presenza di vincitori e vinti[1]. Ma è davvero questa la raffigurazione che descrive al meglio la situazione in cui ci troviamo quando stiamo discutendo?
Adelino Cattani sostiene che quella della battaglia è un’immagine che non rende pienamente la natura del discutere e ne propone una diversa: quella del collaudo, cioè della messa alla prova delle idee attraverso l’argomentazione di fronte ad altri[2]. Questa seconda immagine, infatti, articola in maniera molto più complessa l’esito di una discussione, che non è più solo lo stabilire un vincitore e un vinto, ma apportare qualcosa alla conoscenza della realtà e alla conoscenza di se stessi da parte dei contendenti e di chi sta assistendo.
A valutare l’efficacia di un’argomentazione in una discussione, infatti, è un insieme di interlocutori in cui non ci sono solo i contendenti attivi, ma anche tutti coloro che assistono pur non prendendo parte attiva allo scambio[3]. Tenere in considerazione questa complessità di relazioni è fondamentale per capire che l’esito di una discussione non è così semplice e immediato da stabilire come una vittoria o una sconfitta di uno dei contendenti sull’altro.
Dalla metafora della battaglia o del collaudo dipende qualcosa di fondamentale: muta il valore che si dà allo scambio e di conseguenza il giudizio su cosa sia una discussione buona e soddisfacente. Tale prospettiva è cruciale per cercare di definire quello che tenteremo di esplorare in queste pagine, ossia trovare dei criteri accettabili per decidere quando sia il momento di interrompere una discussione e capire fino a che punto sia accettabile discutere.
Una domanda che diventa sempre più urgente nello scenario di iperconnessione in cui ci muoviamo, sottoposti a un sovraccarico di discussioni in cui siamo coinvolti spesso senza volerlo e senza averne cercato attivamente la partecipazione[4].
Il “criterio del piccione” non basta
C’è una citazione anonima che ricorre spesso sulla rete, e che viene proposta come criterio per decidere in quali casi discutere o meno:
“Discutere con certe persone è come giocare a scacchi con un piccione. Puoi essere anche il campione del mondo ma il piccione farà cadere tutti i pezzi, cagherà sulla scacchiera e poi se ne andrà camminando impettito come se avesse vinto lui”.
Se da una parte questa immagine è molto efficace, perché sembra proporre un criterio universalmente valido nell’evitare discorsi inutili con persone non all’altezza della discussione, dall’altra non risolve gran parte delle situazioni dialettiche che avvengono nella realtà, soprattutto online, dove è sostanzialmente impossibile un controllo sulle qualità e sulle possibilità cognitive degli interlocutori.
Si pensi ad esempio a due casi concreti e molto comuni: un gruppo whatsapp di genitori di una classe di scuola, in cui ogni tanto affiorano polemiche sollevate in modo inopportuno, e un account ufficiale di un’azienda o un brand in cui compaiono commenti ostili e infondati che alludono a disservizi o difetti dei prodotti.
Applicando la “lezione del piccione” nei due casi si dovrebbe fin da subito rinunciare a discutere in nome dell’inadeguatezza degli interlocutori, ma così facendo si trascurerebbe l’effetto che tali interventi avrebbero sulle altre persone coinvolte nell’interazione dialettica: sia quelli che ascoltano senza intervenire, sia coloro che si lascerebbero trascinare nella diatriba deragliata. Con ripercussioni sulla vita reale e sul clima delle relazioni in quella classe di scuola e sulla reputazione del brand in questione.
In altre parole il “criterio del piccione” non riesce a dare una risposta sufficientemente articolata rispetto al tema della bontà delle discussioni perché riduce il problema all’incapacità dell’ “inerlocutore-piccione” di accettare le regole della discussione (il gioco degli scacchi) in un’ottica di vincitori-vinti.
Il punto è che le discussioni non sono mere partire a scacchi, e che nel giudizio sulla validità di un’argomentazione c’è qualcosa di molto più articolato e complesso di un semplice stabilire il vincitore in un confronto tra abilità alla pari con regole condivise[5].
La discussione e il suo limite
Quello quindi che dobbiamo esplorare, con l’intento di giungere a criteri adeguati a capire quando sia opportuno porre fine alle discussioni, è una condizione di confronto che ha almeno tre caratteristiche di base:
- Non siamo di fronte a un semplice scambio a due, ma dobbiamo tenervi all’interno tutti gli interlocutori coinvolti, compresa la moltitudine silenziosa di chi assiste senza intervenire[6].
- Non è un confronto basato su regole prestabilite accettate tra tutti gli interlocutori (non è una partita a scacchi).
- Non finisce con un vincitore e un vinto, ma i suoi esiti sui contendenti e sugli osservatori sono molto più complessi e articolati.
Queste tre caratteristiche impongono allora di muoversi in una prospettiva che permetta in modo sufficientemente pratico di affrontare la complessità insita in qualsiasi discussione online e offline.
L’ipotesi di poter creare un modello predittivo che controlli tutte le variabili in gioco è alquanto irrealizzabile: non si potranno mai collezionare davvero tutti i dati necessari, perché gran parte degli interlocutori non darà per forza un segnale esterno apprezzabile sulla reale incidenza delle argomentazioni sul suo pensiero, e molti altri potrebbero dare segnali fuorvianti (ad esempio sostenere in pubblico di non essere stati convinti, ma esserlo interiormente). In ogni caso, se mai si riuscisse ad avere anche tutta la disponibilità di dati salienti a proposito di chi è toccato da una discussione, tale operazione non risulterebbe alla portata di chi in una discussione viene coinvolto e deve prendere decisioni sul da farsi.
Sostanzialmente, quindi, una possibile teoria sulla fine delle discussioni avrà a che fare con il riconoscimento dei limiti propri e degli altri coinvolti. L’impossibilità del controllo su tutti e su tutto ciò che è implicato in un’interazione non può che portare il discutente a concentrarsi su ciò che è alla sua portata in quell’interazione, cioè il suo comportamento e ciò che può davvero fare in prima persona.
In altre parole più che attraverso un criterio di efficienza in termini di vittoria/sconfitta (che sono sfuggenti) si potrebbe tentare di valutare la partecipazione a una discussione attraverso il criterio del bene potenzialmente generabile per se stessi e per gli altri nel procedere o meno nel confronto. Un criterio non di affermazione, ma di apertura a una possibilità e di riconoscimento di un limite. Una discussione allora sarà da condurre fino a che potrà almeno potenzialmente apportare un certo beneficio sugli interlocutori (anche se non avrò la certezza che quel beneficio arrivi a destinazione) e di contro la si dovrà interrompere nel momento in cui apporterebbe solo un male e un danno a chi la conduce e chi ne è coinvolto.
Secondo Andrew Aberdein la virtù principale dell’argomentazione dovrebbe essere quella di propagare la verità (propagate truth)[7], cioè una buona argomentazione in una discussione dovrebbe avere l’effetto di diffondere credenze fondate rispetto a quelle infondate. Prendendo spunto da questa prospettiva, che si inserisce nel filone di riflessione sulle virtù dell’argomentazione[8], potremmo arrivare a dire che il bene della discussione ha a che fare non solo con la verità, e quindi con la conoscenza attendibile, ma anche con l’accettazione di questa conoscenza attendibile da parte dei partecipanti alla discussione: la sua propagazione appunto.
Ciò implica che in una discussione ci sono almeno due livelli da considerare: quello della bontà (o meno) delle argomentazioni che ne emergono, ma anche quello della bontà (o meno) degli argomentatori e dei loro scopi nella discussione. A contare in una discussione non è soltanto ciò che si dice (l’argomento), ma anche e soprattutto l’atteggiamento più o meno virtuoso degli interlocutori, siano essi gli argomentatori attivi o coloro che assistono.
Raccogliendo tali spunti e cercando di applicarli alla situazione di una discussione non controllabile a cui partecipano interlocutori disomogenei, si potrebbe provare a tenere i due piani (quello dell’argomentazione e quello degli scopi degli argomentatori) distinti ma intrecciati, per capire quando un confronto può portare un beneficio e quando no.
Il bene possibile nelle discussioni
Ora, se assumiamo come effetto virtuoso della discussione la propagazione della verità, cioè il diffondersi del sapere attendibile e fondato, possiamo dire che questo effetto si può realizzare al suo massimo quando coincidono due condizioni: la presenza di una questione oggettiva e davvero rilevante da affrontare (piano dell’argomentazione), e al contempo il fatto che i partecipanti alla discussione abbiano lo scopo di raggiungere maggiore chiarezza su quella questione attraverso la discussione (piano degli argomentatori).
Tali condizioni però vanno intese come solo sufficienti perché possono essere presenti in una discussione anche in modo imperfetto, per esempio quando un argomento oggettivo viene sollevato e portato avanti da un argomentatore che non ha lo scopo di capire meglio o crescere nella conoscenza, ma quello di esprimere la sua posizione rispetto agli altri, oppure di disturbare e distruggere. Oppure si può avere anche la situazione opposta: un interlocutore con lo scopo genuino di contribuire a una discussione apporta argomentazioni che sono soggettive, poco rilevanti o addirittura inadeguate al tipo di questione.
La mia tesi è che anche in queste situazioni miste vale la pena affrontare la discussione perché la presenza di un bene, per quanto mescolato a vizi e deragliamenti da parte degli interlocutori, può ancora permettere al sapere di propagarsi in quel sistema complesso di relazioni che attiva ogni discussione[9].
Tutto ciò ci porta a una prima, parziale, conclusione: una discussione può essere terminata, o nemmeno iniziata, se non si riscontra in essa almeno un potenziale bene riguardante l’argomento trattato o gli scopi di chi lo sta sollevando. Sono i casi delle questioni soggettive sollevate con il puro scopo di posizionarsi rispetto agli altri (dimostrare la propria superiorità, dichiarare i propri gusti senza davvero argomentare), o con lo scopo di disturbare insultando e aggredendo gratuitamente gli altri interlocutori.
Quando in una discussione si arriva a non avere più una questione oggettiva e rilevante da trattare e non c’è nemmeno lo scopo minimo di contribuire, siamo di fronte al caso del “piccione della scacchiera”, in cui l’unico vero bene è accettare il limite: evitare di aggravare il male che si potrebbe arrecare proseguendo nel discutere.
Allo stesso tempo ogni volta che invece ci sia almeno una questione rilevante – per quanto posta con intenti opachi dagli interlocutori – o al contrario un desiderio di contribuire alla discussione seppure espresso tramite argomentazioni inadeguate, vale sempre la pena dare seguito e affrontare il confronto visto che in esso sono implicati dei beni perseguibili seppure in forme imperfette.
Fino a che punto discutere
Come fare allora in tutti questi casi a capire quando è il momento di fermarsi? La domanda del limite della discussione, infatti, non riguarda tanto le situazioni in cui è evidente che non si va da nessuna parte (la situazione del piccione insomma) quanto piuttosto quell’enorme insieme di situazioni intermedie e più frequenti in cui la discussione ha degli elementi di bontà e validità misti a elementi deragliati e viziati.
Qui si torna all’illusione iniziale: se ci aspettiamo che la fine di una discussione sia prodotta da uno degli interlocutori che si arrende e cambia idea, dichiarando la sua sconfitta di fronte a tutti quelli che assistono, non andiamo lontano.
Il criterio da seguire potrebbe essere allora quello di individuare negli scambi di un’interazione i segnali che rivelino che chi sta argomentando non ha più davvero qualcosa da dire e non contribuisce più al bene della discussione, pertanto replicare sarebbe sostanzialmente improduttivo. La comparsa di questi segnali sarebbe il riscontro che quella discussione più in là di così non può andare. Vorrebbe dire passare dall’illusione della resa dell’altro, a un più realistico e limitato accorgersi che l’altro non ha più un reale contributo da dare né per sé né per chi gli replica e tantomeno per la moltitudine silenziosa che assiste.
I segnali potrebbero essere individuati in alcune forme espressive ricorrenti nelle discussioni, che sostanzialmente corrispondono ad argomenti fallaci[10], cioè ad argomentazioni che risultano non valide o nel loro contenuto o nell’uso che ne viene fatto dall’interlocutore.
Una possibile classificazione elaborata altrove[11] suddivide queste mosse scomposte nella discussione in due categorie fondamentali:
- Espressioni belligeranti: sono forme espressive che hanno l’effetto di creare immediatamente scontro nella discussione portandola al fallimento.
- Dissociazioni sintetiche: “no!”, “non è così!”, “falso!”, “non è vero!”; affermazioni di contrarietà non argomentate ma semplicemente dichiarate per dissociarsi.
- Espressioni di indignazione: “non puoi dire così!”, “è vergognoso!”, “è indegno!”; affermazioni di supposta inferiorità morale del pensiero altrui senza la dimostrazione di tale inferiorità.
- Argomenti ad hominem: il rivolgersi alle caratteristiche personali dell’interlocutore per usarle come dimostrazione della invalidità dei suoi ragionamenti.
- Generalizzazioni: il rivolgersi alle caratteristiche di appartenenza a un gruppo, a una categoria, a una corrente, a una cultura dell’interlocutore per rifiutare i suoi argomenti.
- Pseudo-argomentazioni dietro cui nascondersi: sono manovre usate per dare forza alle proprie idee senza avere una reale forza argomentativa.
- La petizione di principio: “ciò che è vero è vero!”; si inferisce la conclusione dalla premessa, il principio dà valore a se stesso in modo tautologico.
- Il richiamo al ruolo: “studio queste cose da anni, ne so qualcosa”; la posizione che si ricopre viene chiamata in causa per garantire la validità di ciò che si dice.
- L’intervento dell’autorità: mettere in campo “la Costituzione”, “la dottrina”, “il vangelo”, “la tradizione” e qualsiasi altra autorità per usarla come iniezione di forza nel proprio ragionamento.
- Le procedure: “non è questo il luogo in cui discuterne”, “non posso spiegarmi qui al meglio”; appellarsi ai limiti del mezzo di discussione come impedimento alla discussione stessa.
- Le emozioni: “quello che dici mi offende e quindi la finiamo qui!”; porre come barriera al confrontarsi uno stato emotivo negativo procurato dalle parole altrui.
Questa non vuole certo essere una lista esaustiva dei possibili segnali di assenza di reale argomentazione[12], l’intento è quello di avere uno sguardo sintetico d’insieme che possa dare un immediato riscontro su quando non si sta più davvero dando un contributo al confronto.
Chi vince perde
Riconoscere questi segnali, e altri che ne potrebbero scaturire, può servire nono solo per giudicare quando l’altro non ha più nulla da dire – e quindi che la discussione può finire lì – ma dovrebbe portare ad applicare la stessa analisi a se stessi nel momento in cui ci si accinge a replicare. Se nel nostro intervento non abbiamo altro da offrire che una di queste forme prive di un vero contributo siamo di fronte alla necessità di smettere di insistere e di compiere un atto di umiltà intellettuale[13] (Kidd, in corso di pubblicazione) che possa rimetterci alla ricerca di un bene: ad esempio approfondire, riflettere meglio sulla nostra convinzione, riconsiderare le nostre opinioni in base a ciò che è stato detto.
Come fa notare Iovan Drehe la fallacia in un’argomentazione è una forma di incontinenza in senso aristotelico[14]: ricorrere a pseudo-argomentazioni vuol dire di fatto agire in modo contrario a ciò che la ragione ci suggerirebbe come bene per noi a causa di una debolezza umana. Come quando scegliamo di fare qualcosa (ad esempio mangiare del dolce) anche quando sappiamo che ci farà del male (perché le nostre condizioni di salute non ci consentono di assumere troppi zuccheri).
“Chi vince non sa cosa si perde” è il motto citato da Stefano Bartezzaghi[15] per spiegare la differenza che c’è nel competere in un conflitto belligerante o in un gioco: nel primo si desidera battere l’avversario particolare e quindi la vittoria è l’orizzonte che ne esaurisce il seno; nel secondo conta invece “la posta in gioco”, in cui ha un ruolo anche il pubblico che osserva, perché la soddisfazione non è data solo ed esclusivamente dalla vittoria di uno sull’altro ma soprattutto dalla maestria che il giocatore mostra nel muoversi all’interno della dinamica della competizione stessa.
È un’immagine che può essere illuminante per quel particolare tipo di gioco che sono le discussioni: non semplici guerre da vincere, secondo l’immagine battagliera che abbiamo provato a criticare all’inizio, ma “gare di idee”, cioè dispute, che in quel collaudare e mettere alla prova argomenti e argomentatori apportano un beneficio (o meno) ai partecipanti attivi o silenti nel confronto.
In questa messa alla prova che rappresenta ogni discussione, in cui il comportamento dell’argomentatore ha un peso rilevante tanto quanto l’oggetto delle sue argomentazioni, il saper smettere di replicare, riconoscendo il limite del discutere, diventa atto non di resa, ma attivo contributo al bene di tutti coloro che sono coinvolti.
Riferimenti bibliografici
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Cantù, P. e Testa, I. 2006, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo. Milano, Bruno Mondadori.
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Kidd I. J. (in corso di pubblicazione), Intellectual Humility, Confidence, and Argumentation. Forthcoming in a special issue of Topoi on ‘Virtue and Argumentation’ edited by Andrew Aberdein and Daniel Cohen.
Mastroianni, B. 2017, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico. Firenze, Cesati.
Mastroianni, B. 2019a, La “mossa del gattino”: l’autoironia per alleggerire il sovraccarico nelle discussioni online. In “ExAgere Rivista”, n. 1-2 anno IV, gennaio – febbraio 2019.
Mastroianni, B. 2019b, Gestire commenti (e critiche) online, le regole che le aziende non possono ignorare. AgendaDigitale.eu, 28.5.2019.
Mastroianni B. (in corso di pubblicazione 2020), Discussioni online: coltivare la reputazione tra dissenso e comunicazione di crisi. In Baldi B. (a cura di), Comunicare ad arte. Messaggi ed eventi per significare. Bologna, Zanichelli.
[1] Cfr. Heinrichs, J. [2007] 2017, Thank you for arguing. What Cicero, Shakespeare and the Simpsons Can Teach Us About the Art of Persuasion. Penguin, p. 15.
[2] Cfr. Cattani A. 2012, Dibattito. Doveri e diritti, regole e mosse. Napoli, Loffredo, p. 12.
[3] Cfr. Cohen D. H. 2013, Virtue, In Context. Informal Logic, Vol. 33, No. 4 , pp. 480-482.
[4] Cfr. Mastroianni, B. 2019, La “mossa del gattino”: l’autoironia per alleggerire il sovraccarico nelle discussioni online. In “ExAgere Rivista”, n. 1-2 anno IV, gennaio – febbraio 2019.
[5] Cfr. Cantù, P. e Testa, I. 2006, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo. Milano, Bruno Mondadori, p. 43.
[6] Cfr. Gheno, V. e Mastroianni, B. 2018, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello. Milano, Longanesi, p. 226.
[7] Cfr. Aberdein A. 2010, Virtue in Argument. Argumentation, 24(2), pp. 165-179.
[8] Cfr. Aberdein A. & Cohen D. H. 2016, Introduction: Virtues and Arguments. Topoi, 35 (2):339–343.
[9] Per una trattazione del tema cfr. Mastroianni, B. 2019, Gestire commenti (e critiche) online, le regole che le aziende non possono ignorare. AgendaDigitale.eu, 28.5.2019; e Mastroianni B. (in corso di pubblicazione 2020), Discussioni online: coltivare la reputazione tra dissenso e comunicazione di crisi. In Baldi B. (a cura di), Comunicare ad arte. Messaggi ed eventi per significare. Bologna, Zanichelli.
[10] Cfr. Cantù, P. e Testa, I. 2006, Teorie dell’argomentazione, op. cit., pp. 43-52.
[11] Mastroianni, B. 2017, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico. Firenze, Cesati.
[12] Per una trattazione di 50 fallacie vedere Cattani A. [1995] 2011, 50 discorsi ingannevoli. Argomenti per difendersi, attaccare, divertirsi. Padova, Edizioni GB.
[13] Cfr. Kidd I. J., Intellectual Humility, Confidence, and Argumentation. In corso di pubblicazione in Topoi, ‘Virtue and Argumentation’ edited by Andrew Aberdein and Daniel Cohen.
[14] Cfr. Drehe I. 2016, Argumentational Virtues and Incontinent Arguers. Topoi, 35 (2), pp. 385-394.
[15] Cfr. Bartezzaghi S. 2017, “Chi vince non sa cosa si perde”. Aut aut, 375 (settembre 2017), Il Saggiatore, pp. 58-77.