EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Sgretolando (il) Tempo.

di Gianfranco Pecchinenda

 

Laggiù in fondo sta la morte, ma niente paura. Afferra l’orologio con una mano, prendi con due dita la rotellina della corda, falla girare dolcemente. Adesso si apre un altro periodo, gli alberi dispiegano le loro foglie, le barche corrono le loro regate, il tempo come un ventaglio si va empiendo di se stesso, e da esso sgorgano l’aria, le brezze della terra, l’ombra di una donna, il profumo del pane.

Che vuoi di più, che vuoi di più? Legalo presto al tuo polso, lascialo battere libero, fa di tutto per imitarlo. La paura arrugginisce le ancore, ciascuna delle cose che si potevano raggiungere e che furono dimenticate sta corrodendo le vene dell’orologio, incancrenendo il freddo sangue dei suoi piccoli rubini. E laggiù in fondo sta la morte, se non corriamo e arriviamo prima e non comprendiamo che non ha più nessuna importanza.

Julio Cortázar, Istruzioni per caricare l’orologio.

 

 

1) Esseri Narratori

Noi umani ci distinguiamo per una serie di capacità peculiari: la prima è l’abilità nell’elaborare e riconoscere schemi regolari di eventi che si ripetono, i cosiddetti pattern. Il riconoscimento di schemi rappresenta, per gli esseri umani, il fondamento di ogni possibile tipo di conoscenza dell’ambiente circostante e di coloro che lo abitano, umani o meno che essi siano. Senza una tale capacità – impressa e stabilizzatasi nei nostri cervelli nel corso di un lungo processo evolutivo – non saremmo in grado di cogliere le somiglianze e le differenze tra i vari oggetti presenti nell’ambiente; non saremmo in sostanza in grado di poter creare (e poi riconoscere) alcun ordine nelle cose.

E senza una tale capacità di classificare e ordinare gli oggetti e gli altri esseri viventi, l’ambiente in cui viviamo resterebbe caotico e indomabile. Come scrive Henry Gee, in un originale saggio, “in epoche precedenti, la capacità di riconoscere rapidamente la struttura e quindi di capire la natura di un qualsiasi oggetto in avvicinamento, poteva essere preziosa per la sopravvivenza. Quei primi ominidi che non fossero stati in grado di cogliere la differenza tra un ramo secco d’albero e un mamba nero, o che avessero scambiato il ringhio sordo di un leopardo col rumore delle fusa di un tenero cucciolo, avrebbero avuto chiaramente poche probabilità di passare i loro geni alla nuova generazione, rispetto ai loro simili capaci di distinguere, catalogare correttamente e fare in tempi rapidi le scelte giuste. Così noi continuiamo a usare questi meccanismi mentali del passato ancora oggi, e tutti i giorni, per dare un senso al nostro mondo”. [1]

Affinché il mondo possa però acquisire un vero e proprio “senso”, alla capacità di elaborare schemi, connessioni, forme e strutture, è necessaria aggiungere un’altra straordinaria capacità, anch’essa tipicamente umana: quella di narrare storie. Non solo siamo esseri in grado di intuire strutture e forme (e, laddove queste non esistano, inventarle e fare “come se” esistessero), ma tendiamo ad intrecciarle tra loro in storie che diano senso e continuità a quelle che resterebbero altrimenti una serie distinte di fenomeni (più o meno schematizzati) senza alcun ordine prevedibile.

Bisogna innanzitutto riconoscere, per spiegare meglio quanto appena affermato, che il mondo, non ha in quanto tale alcun “senso”. Come dicevano gli esistenzialisti, l’universo è puro silenzio. Il senso dipende dagli esseri umani. Ma anche gli esseri umani dipendono a loro volta dal senso. Sì, perché c’è una terza caratteristica assolutamente distintiva della nostra specie, che è peraltro inestricabilmente connessa con la nostra capacità di Esseri Narratori, e che ha molto a che vedere con l’invenzione del Tempo. Tutti gli animali, in un modo o nell’altro, percepiscono, registrano, riflettono. I loro sensi trasmettono delle informazioni relativamente vaghe e imprecise ai loro cervelli, i quali costruiscono, a partire da tali informazioni, l’immagine del mondo in cui si ritrovano ad agire per poter sopravvivere nel modo migliore. Senza chiedersi un “perché”. La caratteristica distintiva di noi umani a cui mi riferivo, da aggiungere alle prime due, è proprio questa: il “perché”.

Perché il perché? Da dove viene fuori una tale curiosa quanto onnipresente caratteristica umana?

La risposta è: il perché emerge grazie all’invenzione del tempo!

E da dove viene fuori… il Tempo?

 

2) Perché il tempo?

 L’essere umano è un organismo che, alla pari di tutti gli altri organismi viventi, ha un’esistenza caratterizzata dal mutamento e dalle continue trasformazioni della materia di cui è formato il suo corpo. Non possiamo sapere con certezza quanti altri organismi abbiano consapevolezza del fatto che tali trasformazioni condurranno necessariamente alla decomposizione organica, e che in un dato momento tale decomposizione porterà, inevitabilmente, alla scomparsa di qualunque attività vitale. In altre parole l’uomo è l’animale consapevole della propria finitudine. L’organismo umano, a partire da una certa fase evolutiva, acquisisce una forma particolare di consapevolezza – possiamo definirla una forma specie specifica di autocoscienza – dell’ineluttabilità del processo di progressiva dissoluzione che caratterizza la sua vita organica.

È molto probabile che sarà proprio a partire dall’acquisizione di tale forma peculiare di autocoscienza che prenderanno poi vita determinate modalità di autopercezione del proprio organismo, che diventerà perlopiù suddiviso in una parte materiale e in una parte immateriale, destinata, quest’ultima, ad un’esistenza indipendente, autonoma e presumibilmente eterna. Si tratta però di disquisizioni (è fin troppo evidente il riferimento a modelli platonico-cartesiani) che non ci interessano in questa sede, se non a partire dall’ultimo concetto citato: l’eternità.

Essere eterni significa percepirsi indipendenti dal mutamento e dunque implica il collocarsi “fuori dal tempo”. Il tempo è sempre stato concepito dagli esseri umani in maniera, per così dire, strumentale, ovvero come mezzo di sopravvivenza da affiancare all’eternità, dunque all’immortalità. L’organismo umano (in cui è dualisticamente custodita l’essenza inorganica del suo Essere) vive ed esiste “nel” tempo; l’essenza inorganica (spirito, anima, coscienza, mente…) vive ed esiste “fuori” dal tempo.

Il tempo ha a che vedere dunque con la materia e solo con essa. A partire da una certa epoca storica, come ha mostrato magistralmente Norbert Elias, il tempo, anche grazie al supporto di un altro straordinario strumento umano come il linguaggio, è stato investito da un processo di oggettivazione che lo ha reso definitivamente autonomo. Il tempo “scorre”; il tempo “passa”; “non abbiamo molto tempo”, sono tutte locuzioni linguistiche, ad elevato livello di sintesi e di astrazione simbolica, che rappresentano molto bene questo processo di ipostatizzazione. Il tempo è diventato oggettivo; esso esiste e vive autonomamente, indipendentemente dalla percezione che l’uomo ne possa avere.

Detto in altri termini, ci sono due conoscenze relative al tempo che ci caratterizzano: sapere di essere nati; sapere di dover morire. Si tratta di due saperi che non possiedono neppure i nostri parenti evolutivamente più vicini, come gli scimpanzé e i bonobo, e che ci collocano in una situazione esistenziale assolutamente originale, strutturata intorno alla consapevolezza dell’immagine della forma di una vita intera.

Siamo gli unici esseri a percepire la nostra esistenza come una traiettoria dotata di un senso (con un significato e una direzione). Un arco che, come vedremo, può essere racchiuso in una forma circolare, oppure spezzato come una retta, un segmento, una freccia. Una forma che si dispiega nel tempo, con un inizio, delle peripezie intermedie, ed un finale. In altri termini, in una storia.

La narrazione conferisce alla nostra vita – grazie al Tempo – una dimensione di Senso che manca assolutamente a tutti gli altri esseri viventi.

La capacità narrativa si è sviluppata nella nostra specie come una tecnica di sopravvivenza. Essa è oramai inscritta nei circuiti neuronali dei nostri stessi cervelli. Raccontare significa intessere dei legami tra il passato, il presente e il futuro; significa rendere reale il passato e il futuro nel presente (capacità resa possibile dal linguaggio e, soprattutto, dalla scrittura). Tutti gli altri animali vivono solo ed esclusivamente nel presente.

I grandi primati sono in grado, come noi, di provare empatia,[2] riconoscono e valorizzano il gruppo al quale appartengono e sono in grado di combattere anche ferocemente per difenderlo. Sono pertanto anche in grado di provare quel sentimento che noi definiamo compassione. Ciò che differenzia la nostra empatia e la nostra compassione, è la giustificazione e la spiegazione del nostro comportamento (il “perché”) empatico. Tali spiegazioni e giustificazioni sono sempre state, e sempre resteranno, delle finzioni narrative: delle storie. La verità sorprendente è che è più facile mettersi al posto di un altro, che mettersi al posto di se stessi; ovvero: è più facile avere empatia che avere un “io”.

Per mettersi al posto di un altro, non c’è bisogno della capacità narrativa; per mettersi al posto di se stessi, per sdoppiarsi e raccontarsi (avere cioè autocoscienza identitaria), la narrazione è invece necessaria e indispensabile. La differenza tra i primati e noi è esattamente la differenza che intercorre tra intelligenza e autocoscienza; tra il fatto di esistere e il sentimento di esistere. Affinché vi sia autocoscienza, è necessario integrare l’intelligenza con la percezione del tempo, vale a dire: con la narrazione.

È questa la migliore risposta che riesco a trovare al “perché il tempo”: per poter disporre di un “io” è necessario imparare a raccontare storie; a raccontarsi storie. Innanzitutto la storia del proprio “sé”. Tendiamo a dimenticarlo, ma tutti noi abbiamo impiegato molta fatica per diventare qualcuno. Ci sono volute migliaia e migliaia di informazioni percettive intessute e intrecciate in storie, per poterlo diventare: canzoni, racconti, gesti, proverbi, regole, nomi. Siamo stati socializzati dalle storie. Poi siamo diventati noi stessi una storia, una costruzione narrativa particolarmente elaborata, una configurazione mobile, in trasformazione permanente, che è stata fissata per pura convenzione: il sé potrebbe essere definito come un dato genetico intorno al quale sono elaborate delle storie. Una narrazione specifica, relativa a un organismo, attivata a partire da un determinato contesto storico-sociale.

 

3) Il cerchio e la freccia

Nato dunque dall’esigenza di un organismo vivente estremamente complesso come l’uomo, il Tempo si è autonomizzato ed ha successivamente cominciato a determinare i modi e le forme con cui quel particolare essere vivente orienta e coordina le sue attività. Nelle prime fasi dell’evoluzione dell’organismo umano – già evidentemente organismo sociale a tutti gli effetti – una tale esigenza di oggettività e di autonomia si manifesta attraverso il riferimento ad oggetti sensibili: non è ancora il “tempo” che può essere misurato o analizzato, ma sono le “lune”, i “soli”, le maree, le stagioni. È un tempo concreto. Poi via via l’uomo, grazie al linguaggio, a sua volta supportato da determinate tecnologie, elaborerà concetti come “l’anno”, “il mese”, “il giorno”. Poi addirittura, per necessità legate all’organizzazione della giornata di alcuni ordini religiosi in Occidente, avremo le “ore” e – anche a seguito della geniale invenzione di strumenti di misurazione sempre più specifici, come ad esempio l’orologio meccanico – avremo infine i “minuti”, i “secondi” e gli infiniti possibili frazionamenti di questi ultimi. [3]

Il tempo, in una prospettiva più specificamente sociologica, è un prodotto umano. Come ogni fenomeno umano esso ha una dimensione fondamentalmente sociale, ovvero relazionale. Il tempo è di fatto uno strumento prodotto dall’uomo per risolvere un problema condiviso con altri uomini. Quando la soluzione diventa funzionale e gli uomini si accordano per renderla stabile, essa allora diventa oggettiva. Il tempo diventa una vera e propria istituzione sociale: una soluzione permanente a un problema condiviso. Qual è il problema umano che il tempo risolve? Dipende dalla situazione storico-sociale.

È importante sottolineare, innanzitutto, che la nozione di “durata” e di “mutamento” – nell’ambito di una concezione del tempo tradizionale – viene colta soprattutto attraverso il tipo di relazioni che si instaurano tramite azioni di carattere vitale per la sopravvivenza delle comunità. I caratteri di queste visioni del tempo – al di là degli ovvii e diversificati riferimento di carattere sacro-religioso – appaiono straordinariamente simili, a grandi linee, nelle Americhe, in Cina, nelle Indie, in Mesopotamia, così come ovviamente anche in Europa, almeno fino all’epoca medioevale. Alla base di tutti i diversi calendari permaneva sempre e dovunque l’idea di un tempo circolare, di un Ciclo o di un Cerchio contrassegnato dal continuo ritorno di una serie di eventi importanti per le comunità, quali possono essere la maturazione di una data pianta commestibile, la riproduzione della selvaggina, il ritorno della marea o della posizione di un determinato astro.

Erano insomma i ritmi naturali a definire nella loro essenza i ritmi del tempo sociale. “Presso i germani – scrive lo storico Aron Gurevic – i mesi portavano nomi che indicavano i lavori agricoli e le altre attività svolte nelle diverse stagioni: il mese del maggese (maggio), il mese della falciatura (luglio), il mese della semina (settembre) …”.[4] Più che un’astratta nozione di tempo, come quella che si comincerà ad interiorizzare a partire dalla modernità, si tratta più specificamente della risposta ad una domanda dai risvolti molto più pratici e concreti, e con una ben definita rilevanza sociale, del tipo: “Quando bisogna mettere in atto un dato comportamento collettivo?”. Cioè, in quelle società ancora così fortemente sottoposte ai ritmi della natura, da cui dipendeva praticamente la loro stessa sopravvivenza, si rendeva oltremodo necessario “determinare il tempo”, ma non astrattamente, bensì per sapere “quando seminare”, “quando arare”, “quando raccogliere”, “quando cacciare” e così via.

Questa, per millenni, è stata la modalità prevalente di percezione del tempo in tutte le società umane. Poi, lentamente, le cose sono cominciate a cambiare, con l’imposizione graduale di un tempo riferito non più alla natura, ma – come già accennato – al trascorrere uniformemente scandito da ore, minuti, secondi e oltre.

Questa trasformazione non fu però possibile prima del verificarsi di alcuni fondamentali mutamenti nell’ambito della struttura sociale, quali ad esempio lo sviluppo del processo di urbanizzazione o l’imporsi di una società dei mercanti su quella degli agricoltori.[5]

In sostituzione di questo tempo dominato dalla ciclicità e dalla ripetitività di un passato immobile e immutabile, in cui “nulla può accadere che non sia già accaduto agli antenati”, si imporrà (con le buone o con le cattive) un tempo rettilineo e unidirezionale. Una “freccia” si sostituirà alla vecchia “ruota”.

Le radici di una tale concezione temporale, possono riscontrarsi nella visione del mondo professata dalla religione giudaico-cristiana, la cui influenza sulla cultura europea è stata pressoché totale. Per la prima volta nella storia dell’uomo questa religione aveva sviluppato una visione del mondo in cui la circolarità del tempo non era più considerata necessaria per fornire le adeguate legittimazioni al mantenimento di una data struttura sociale. Il tempo diviene così una linea retta, o meglio vettoriale, determinata da un punto iniziale (rappresentato dalla Creazione) ed uno finale (la “fine dei tempi”). Tra questi due grandi eventi si colloca la venuta di Cristo, che costituisce il perno centrale su cui si fonda l’intera storia cristiana e che, gettando luce sia sul passato sia sul futuro, riesce a conferirle un suo significato intrinseco.

Il senso e il contenuto di questa storia è inoltre unico, in quanto una è l’incarnazione della divinità. Pur rappresentando un momento di riattualizzazione del trascendente, e quindi per molti versi assimilabile alle concezioni di tipo ciclico precedenti, l’incarnazione si distingue da queste proprio perché è avvenuta una sola volta e per sempre, e non si ripeterà mai più. Si tratta quindi anche di un tempo irreversibile, in quanto viaggia verso un fine, con uno scopo ben determinato, dando luogo ad un processo continuo. A ciò si aggiunga che, essendo il Cristianesimo nato da una fermentazione di tipo apocalittico, esso è, anche in questo caso per la prima volta, proiettato verso un futuro che può essere distinto in modo netto sia dal passato sia dal presente.[6]

In Europa, e poi gradualmente nell’intero mondo occidentalizzato, la percezione del tempo, comincia inoltre ad essere sempre più astratta, sciogliendo i nodi che lo tenevano legato tanto agli eventi della natura quanto a quelli divini. La tematica che emerge a questo punto può essere considerata in tutta la sua straordinaria importanza per la storia del mondo occidentale, in quanto strettamente interconnessa, tra le altre cose, nientemeno che alla nascita della scienza moderna. Il distacco dell’uomo dal mondo circostante e la de-divinizzazione rappresentano infatti una conditio sine qua non per la nascita e lo sviluppo della “scienza”. Come si potrebbe pensare, ad esempio, di deviare il corso di un fiume per sfruttarne le forze (e trasformarle in energia), se al contempo permane la credenza che esso sia popolato o governato da un qualche essere divino? O se addirittura si ritiene che il fiume stesso sia una manifestazione di una divinità stessa? Come si sarebbe, insomma, potuto solo immaginare di modificare il corso e la volontà naturale dell’universo sacro?

Un’analisi seppur sommaria di questa ampia e complessa tematica, meriterebbe però un ben più ampio spazio di approfondimento. Visto il carattere meramente esemplificativo di questa parte del discorso, mi limiterò dunque ad una sintetica descrizione, di carattere più generale, inerente alcune tra le principali questioni finora emerse e che caratterizzano in particolare l’avvento della “freccia” temporale occidentale. Esse sono:

 

  • la definitiva rottura di ogni tipo di rapporto con un qualsivoglia ordine trascendente (il mondo non ha più un “ordine” né una “comprensibilità”);
  • l’emergere di un futuro che non ha più alcuna direzione, né senso (un futuro di tipo “aperto”);
  • l’affermarsi di un’idea di natura neutrale e, soprattutto, manipolabile (la natura, neutralizzata affettivamente, diviene completamente assoggettata alle esigenze produttive dell’uomo).

 

Infine, un’ultima questione, sulla quale è a mio parere utile soffermarsi, concerne il sempre più elevato livello di astrazione simbolica e di conseguente autonomia assunta dal concetto di Tempo. Una volta oggettivato, il Tempo ha cominciato ad essere “capitalizzato”, assumendo qualità specifiche. Tra queste, particolarmente significativa è diventata la sempre più diffusa distinzione tra tempo libero e tempo lavorativo.

 

4) Il tempo consumato

Il tempo del lavoro, così come paiono dimostrare alcune recenti ricerche, sembra nelle società occidentali odierne sempre più in caduta libera. Secondo il sociologo francese Roger Sue, dal punto di vista prettamente quantitativo (peraltro caratteristica essenziale del tempo industriale), il declino del tempo dominante del lavoro appare evidente. «In totale – egli scrive, in riferimento alla situazione francese[7] –, da più di 5000 ore di lavoro all’anno nel 1850, si è passati a 3200 ore circa verso il 1900, e a 1650 ore all’inizio degli anni ’80. In altre parole, nello spazio di poco più di un secolo, la durata annuale media del lavoro è diminuita di circa 1/3. Tali cifre, già di per sé molto significative, misurano solo la riduzione lorda del tempo di lavoro. La riduzione netta deve calcolarsi sull’insieme del ciclo di vita e dei differenti tempi sociali che lo compongono».[8] Sue si riferisce a tal proposito all’aumento della speranza di vita nel corso di questo secolo e mezzo, che ha aumentato notevolmente il tempo di vita globale; all’ingresso sempre più ritardato nel mondo del lavoro; all’inserimento di norme relative all’obbligo scolastico sempre più prolungato, e così via. Tutto sommato, insomma, le cifre che valutano la riduzione netta del tempo di lavoro sembrano evidenziare un declino ancora più impressionante, assumendo l’andamento di quella che il sociologo francese definisce una “caduta vertiginosa”.

Cifre a parte, è però la logica della dialettica dei tempi sociali individuata da Roger Sue ad apparire più interessante per il nostro discorso, e che può essere analizzata in riferimento ad almeno a tre fattori: il primo, ha a che fare con ciò che già i primi grandi economisti del XIX secolo avevano abbondantemente previsto, ovvero la progressiva sostituzione del lavoro con il capitale. Comunque lo si voglia valutare – aspetto che qui ci interessa solo relativamente – il capitale, pur non escludendo il lavoro in senso stretto, conduce ad una radicale trasformazione della natura del lavoro, oltre a ridurne sostanzialmente i tempi; il secondo fattore è legato alla crescente importanza del tempo al di fuori del lavoro per la produttività del lavoro stesso. Dal tempo della semplice riproduzione della forza di lavoro del XIX secolo, si è passati al tempo complesso della sua riproduzione allargata.

Riproduzione allargata nella misura in cui un individuo in salute fisica e psicologica, che dispone di un certo tempo di svago, ma soprattutto meglio formato, ha un rendimento superiore a quello il cui tempo fuori lavoro basta appena alla soddisfazione dei bisogni fisiologici. In altre parole, i fattori esterni al lavoro finiscono col diventare più importanti del lavoro stesso, e concorrono in ogni caso a ridurne sensibilmente la durata, il terzo e – a mio parere – più significativo elemento essenziale della logica interna al declino del tempo del lavoro, concerne il passaggio dalla società di produzione alla società di consumo, a partire dalla metà del XX secolo. «È lo sviluppo del consumo – fa notare Sue – che permette di evitare le crisi di sovrapproduzione e di mantenere costante il «ritmo» di crescita. Sviluppo che suppone un aumento del potere di acquisto ma anche del tempo disponibile per il consumo».[9]

Al di là di una serie di questioni legate alla logica di questa società fondata sul consumo, sulla quale torneremo in seguito, vale la pena sottolineare il seguente fenomeno: quanto più una società si sviluppa, più i tempi si spostano dalla produzione (lavoro) verso il consumo (tempo libero) che suppone esso stesso un “consumo di tempo” sempre maggiore.

Ora c’è da dire che, pur essendosi sviluppata nell’ambito di un profondo e sempre più radicale processo di secolarizzazione, la percezione del tempo propria della società occidentale contemporanea sembra aver sostituito la tradizionale dicotomia temporale “tempo sacro-tempo profano” nei suoi elementi essenziali: se è scomparso il sacro, non è però scomparsa la necessità di ritualizzare il nuovo tempo dominante emergente (il tempo libero), così come ad esempio suggerisce l’istituzionalizzazione del week-end.[10] «Il dispiegarsi cronologico dei giorni feriali, come il tempo profano, è lineare. Rappresenta una progressione irreversibile di giorni, dal lunedì al venerdì, anno dopo anno. Il tempo andato è andato. Le giornate di scuola sono seguite da quelle di lavoro, il primo impiego dal secondo e dal terzo. In nessun caso potrò tornare ad essere uno scolaro, o un giovane universitario (…). Il tempo dei giorni feriali non solo è lineare, ma – anche in questo assimilabile a quello profano – racchiude una componente d’imprevedibilità (…). Il fine settimana, invece, per riprendere le parole di Platone, è un momento di respiro, un tempo separato dalla sfera dei problemi e delle preoccupazioni banali, dal mondo in cui bisogna guadagnarsi la pagnotta. Durante il sabato e la domenica il tempo si ferma e non soltanto perché lasciamo l’orologio sul comodino (…). Il tempo del fine settimana condivide con il tempo sacro proprio questo senso di ripetizione della stessa scena e se l’uno era caratterizzato dal rituale, anche l’altro, nonostante sia il modello ideale per esercitare la propria libertà personale, è governato dalla convenzione (…). La componente prevedibile dei giorni festivi è una della caratteristiche che li rendono confortevoli. Come il tempo sacro, il fine settimana è ripetitivo ma rassicurante, tuttavia la convenzionalità dello svago offerto, che deve convivere a fianco di passatempi privati e di hobby stravaganti, spesso sembra restrittiva».[11]

Questo movimento e questa dinamica s’iscrivono in un processo che viene definito come una “dialettica dei tempi sociali”. «Di fatto il tempo religioso è l’emanazione del tempo sacro al quale finisce col sostituirsi, come il tempo di lavoro finisce con l’opporsi e sostituirsi al tempo religioso. Un meccanismo identico è all’opera con il declino del tempo di lavoro»,[12] modalità che sta oramai trasformandosi in un vero e proprio tempo dell’impegno ludico.

Il tempo libero non è infatti più un tempo liberato, né tanto meno un tempo dell’ozio o del riposo: esso è invece sempre più un tempo di un nuovo impegno, basato principalmente sull’obbligo del gioco. È – ha fatto notare Witold Rybczynski – come se la cultura del tempo libero avesse subito una mutazione inattesa: «La libertà di fare qualsiasi cosa si è trasformata nell’obbligo di fare qualcosa e, nell’elenco degli impegni da rispettare, rientrano severe discipline per migliorare il fisico (ginnastica, jogging, ciclismo), sport competitivi (tennis, golf) e passatempi che mettono alla prova la nostra abilità (vela, sci …). Tutto ciò induce a pensare che il moderno week-end sia contraddistinto non soltanto dalla necessità di fare qualcosa, ma anche da quello di farla bene. Il desiderio di compiere un’attività nel modo migliore, riflette un’esigenza prima riscontrabile solo sul luogo di lavoro. Era infatti sul lavoro che ciascuno dimostrava la propria competenza, ritenendosi quasi in dovere di metterla da parte durante le vacanze. Oggi la situazione si è rovesciata. La tecnologia ha reso superflua l’abilità nella maggior parte delle occupazioni (…). La riduzione della competenza professionale non si limita ai lavori manuali: se la memoria, una volta requisito primo di un buon impiegato, è diventata inutile grazie alla presenza dei computer, gli insegnanti, che un tempo per attirare l’attenzione dovevano improvvisarsi anche un po’ attori, ora si servono di sussidi didattici come i proiettori di diapositive e i video, mentre in politica l’arte oratoria è stata uccisa dagli spot di propaganda elettorale. Di conseguenza – conclude l’autore scozzese – la storia del tempo libero e del suo impiego ha subito un’evoluzione inaspettata. Per molti, il week-end è diventato non un’occasione per sfuggire al lavoro, ma un’opportunità per svolgerne uno più significativo e interessante – quello di dedicarsi al proprio svago – ottenendo così quelle soddisfazioni personali che la fabbrica o l’ufficio hanno smesso di offrire».[13]

Se, come ormai appare evidente, il gioco sta diventando nell’economia culturale della nostra società tanto importante quanto il lavoro lo è stato nell’epoca industriale, è almeno altrettanto chiaro che il significato e la funzione socio-culturale stessa del gioco non può essere più considerata la stessa. E questo a causa di una serie di fattori, tra i quali certamente ricoprono un ruolo di primo piano le trasformazioni tecnologiche cui rivolgeremo adesso la nostra attenzione.

«L’uomo moderno – scrive l’economista Daniel Cohen – oggi scopre che una società prospera non è una società emancipata dal lavoro. Infatti, contrariamente a quanto ritengono i teorici della fine del lavoro, le moderne tecnologie non sostituiscono l’uomo. Al contrario, esigono da lui che faccia più cose (…). L’uomo moderno scopre così che una società sette volte più ricca assomiglia maggiormente a un’automobile che va sette volte più veloce che non a un podista che ha sette volte più tempo per camminare (…). L’uomo moderno scopre in maniera sempre più profonda che se il mondo tecnologico lo emancipa progressivamente dalle necessità, non lo emancipa però dalla tecnologia stessa».[14] L’uomo d’oggi, in sostanza, a seguito del manifestarsi di una serie di fenomeni sociali di enorme portata, sta scoprendo che l’imperio del lavoro è stato progressivamente sostituito da altre forme di dominio più sottili, ma non meno efficaci. Tali forme di costrizione sociale, che possono assumere diverse manifestazioni nella nostra società, hanno certamente in comune due elementi causali: l’innovazione tecnologica (in particolare quella connessa ai mezzi di comunicazione elettronica) e il consumismo (nel cui ambito assume una particolare importanza la sua promozione ideologica della logica del gioco).

Se, sulla falsariga di quanto precedentemente accennato, continuiamo a considerare, come cartina di tornasole, un aspetto così fondamentale per l’analisi sociale come l’atteggiamento nei confronti della temporalità, possiamo notare come, nel mondo contemporaneo, non siamo più appartenenti al flusso lineare e irreversibile dominato dall’idea di progresso, né siamo tornati indietro all’eterno presente della cultura della ciclicità, ma stiamo cominciando ad immergerci in un universo temporale indifferenziato, che dipende dagli impulsi e dai bisogni dei fruitori (consumatori) a loro volta intimamente legati alle decisioni dei produttori tecno-economici di questa emergente cultura virtualizzata. Questa presentificazione, questa “compressione del tempo” fino ai margini dei suoi limiti, può essere considerata equivalente “alla scomparsa della sequenza temporale e quindi del tempo”. Le conseguenze di una così esasperata percezione della temporalità sono ovviamente molteplici, e sarebbe fuori luogo anche solo provare a sintetizzarle qui tutte.

L’antropologo norvegese Thomas Hylland Eriksen – che ha dedicato una brillante ricerca al tema della “tirannia del tempo” – ha scritto: «Viviamo con lo sguardo fisso nel futuro, ai due secondi che verranno. Le conseguenze di questa terribile fretta sono devastanti: il passato e il futuro, come categorie mentali, sono minacciate dalla tirannia dell’istante. Questa è l’era del computer, di internet, dei satelliti per le telecomunicazioni, della televisione multicanale, dei messaggi SMS, dell’e-mail, dei palmari e dell’e-commerce. Quando si è dalla parte del mittente, la risorsa più scarsa è l’attenzione degli altri. Quando si è dalla parte del destinatario, la risorsa più scarsa è un tempo lento e continuo. Sta qui la principale tensione della società contemporanea».[15] Da ciò consegue che una delle principali abilità che dovrebbe acquisire un abitante della società dell’informazione sarebbe quella di essere in grado di difendersi dal 99,9 per cento delle informazioni che ci vengono offerte e di cui non abbiamo assolutamente bisogno, predisponendo dei filtri confezionati ad hoc per selezionare le informazioni.

Sempre a proposito del processo di presentificazione[16] David Lyon, scrive: «Questa è l’attuale crisi del tempo. Se facciamo attenzione al modo in cui le tecnologie della comunicazione e il consumismo stanno contribuendo alla costruzione di un mondo postmoderno, allora lo sconvolgimento del tempo diventa un problema serio. Lo zapping col telecomando e il fast food possono sembrare esempi banali, ma sono segni simbolici dei nostri tempi. Benché il termine cyberspazio suggerisca l’idea di luogo o di posto, si può ugualmente sostenere che Internet consista essenzialmente in una drastica riduzione dei tempi di comunicazione. L’istantaneo ci ha spinti verso il campo gravitazionale di un perenne presente. Siamo prigionieri dell’immediato, intrappolati tra passato e presente (…); nelle condizioni postmoderne, conservare una memoria vivente come fonte di significato per il presente e speranza per il futuro è a dir poco difficile».[17] Se, anche solo seguendo le indicazioni appena citate, possiamo considerare un dato acquisito che il fenomeno dell’accelerazione temporale rappresenti uno dei tratti caratterizzanti il nostro mondo, proviamo ora a considerarne alcune conseguenze più profonde sull’uomo contemporaneo.

Johan Galtung, studioso peraltro noto per un certo suo spiccato ottimismo, ebbe a dire, a proposito delle sue esperienze con studenti degli anni ‘90: «troppi di loro sono cronicamente affetti da una visione a flash, da un’esperienza sincronica di una realtà fatta da immagini ricche di dettagli, e non da linee temporali che l’attraversano, né da sequenze di cause e di effetti o da ragionamenti. Certo, c’è la necessità di entrambi gli aspetti, ma, per come vanno le cose oggi, si sta a poco a poco neutralizzando la capacità stessa di pensare a favore di un’abilità nel vedere e nel sentire, gustare e provare – un orgasmo di sensi che offre poco spazio all’intelletto».[18] La stessa questione può essere posta nei termini seguenti: «se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato. Cause ed effetti, crescita organica interna, maturità ed esperienza: tutte categorie messe in crisi da questa situazione».[19]

Il linguista Raffaele Simone ha recentemente parlato a tal proposito di una “grande sostituzione”, riferendosi alla trasformazione dei “fatti”in “spettacoli” e delle “persone” in “spettatori”: «tra la realtà e noi si è frapposto lo schermo – egli scrive – non importa se del calcolatore o della televisione. Si vede il mondo essenzialmente attraverso lo schermo. Lo schermo ci da una varietà di rappresentazioni di qualcosa che ci sembra il mondo, ma il mondo che vediamo potrebbe non esserci affatto. Cosa comporta questo per la mente? Che non distinguiamo più tra reale e virtuale. La percezione è andata in malora, con il senso di realtà, con la ricchezza degli oggetti «veri» e tutto il resto. La gente comune si è già arresa».[20] E lo psicologo Alberto Oliverio, dal canto suo, in un recente saggio dedicato alle trasformazioni della memoria umana avverte: «se il bagno di immagini è eccessivo, la mente infantile si adegua a una realtà fatta di messaggi brevi ed episodici e tende a scartare quelle procedure mentali e quelle realtà che richiedono una progettualità più a lungo termine. (…). La frenetica scansione di messaggi non collegati, il continuo sovrapporsi di nuovi stimoli, soprattutto visivi, può favorire una destrutturazione mentale, un pensiero privo di quella progettualità e logica che vuole che A preceda B e B preceda C. Esistono insomma dei limiti oltre i quali la stimolazione si trasforma in confusione».[21]

Un acuto osservatore della società contemporanea – infine – quale certamente è il già citato Jeremy Rifkin, sostiene, ancora in riferimento a tali tematiche, che ci troviamo di fronte ad un nuovo archetipo umano, secondo un paradigma che ben si sposa con quelli finora ricordati nelle pagine precedenti: «L’uomo nuovo del ventunesimo secolo – egli scrive – è profondamente diverso da coloro che l’hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell’era industriale: si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del cyberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell’economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia vivere esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per adattarsi a qualsiasi situazione (reale o simulata) (…). Vivono in un mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all’accesso rapido alle informazioni, hanno una soglia d’attenzione labile, sono più spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time e sono abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di quelle dei loro genitori. Sono più ‘terapeutici’ che ideologici e pensano più in termini di immagini che di parole: sono meno abili nelle composizioni di frasi, ma superiori nell’elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano “veri”, considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra sovranità del consumatore e democrazia. Trascorrono con personaggi di fantasia, nei film, nei programmi televisivi e ne ciberspazio, tanto tempo quanto ne dedicano ai propri simili nella vita reale; anzi, arrivano perfino a inserire tali personaggi nella conversazione e nell’interazione, rendendoli parte della propria storia personale. Il loro mondo è più fluido, segnato da confini più sfumati (…). Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della propria esistenza, sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e queste donne non sono interessati alla Storia, bensì ossessionati dalla moda e dallo stile. Provano tutto e amano l’innovazione. D’altra parte, nel loro ambiente in rapido e costante mutamento, costumi, convenzioni e tradizioni sono quasi inesistenti».[22]

Riflettendo alcuni anni fa su questi stessi temi, nell’ambito di una ricerca sui videogiochi e la cultura della simulazione, mi ero soffermato anch’io sull’ipotesi della tendenziale scomparsa di una tipologia identitaria, tipicamente occidentale (caratterizzata da una determinato atteggiamento nei confronti della realtà, fondato su una percezione del tempo, dello spazio e su di una corrispondente immagine di sé in quanto essere razionale, unico, autonomo e indipendente da tutti gli altri uomini) e della sua sostituzione con quello che definivo il nascente homo game,[23] le cui caratteristiche ricalcano a grandi linee quelle finora tratteggiate.

Al di là di questo, però, ciò che potrebbe risultare più interessante da approfondire, concerne a mio avviso i fenomeni che hanno reso possibile l’affermazione, a livello sia tecnologico che culturale, di questo nuovo archetipo umano. È necessario insomma soffermarsi, seppur sinteticamente, su quella che è stata definita l’autoreverse dell’esperienza.[24]

 

5) L’atrofia del tempo

È oramai trascorso più di mezzo secolo da quando Gunther Anders[25] aveva manifestato la felice intuizione secondo la quale il mondo sarebbe potuto diventare illeggibile a causa di una overdose di informazioni, facendo perdere all’uomo il suo bene più prezioso: la capacità di fare esperienza. Si tratta, in effetti, come da molti versanti è stato in anni più recenti notato, di uno dei fenomeni cruciali che hanno accompagnato la formazione della modernità occidentale, il cosiddetto processo di esproprio dell’esperienza. «Ogni discorso sull’esperienza – ha scritto Giorgio Agamben – deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato da fare. Poiché, così come è stato privato della sua biografia, l’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi, l’incapacità di fare e trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso».[26]

Dal punto di vista dell’analisi storico-sociale un momento di svolta nella riflessione su tale tematica è certamente rappresentato dal pionieristico lavoro di Walter Benjamin. Come è noto, uno dei punti chiave dell’analisi benjaminiana può essere considerata la sua significativa distinzione tra esperienza accumulata ed esperienza vissuta. Tale differenziazione è tanto più importante in quanto, se è oramai un dato acquisito la tendenziale scomparsa del primo tipo di esperienza (nel senso di una possibilità di sedimentazione di determinati contenuti nella memoria e della possibilità di una loro ricomparsa in termini di autocoscienza),[27] non bisogna trascurare l’importanza delle trasformazioni connesse alla perdita dell’altro tipo di capacità esperenziale, quella della cosiddetta “esperienza vissuta”, intesa come percezione attuale, come presentificazione alla coscienza di un determinato contenuto.

Nel primo caso la cosiddetta atrofia dell’esperienza è essenzialmente “fine della tradizione”, ovvero interruzione – tipicamente moderna – di quel processo che crea, nel singolo, la tradizione. «Tale interruzione corrisponde tanto ad una ostruzione della capacità dei singoli di essere colpiti nel profondo dai materiali del vissuto e di permetter loro di depositarsi nella memoria, quanto ad una difficoltà nell’elaborazione di tali materiali attraverso un linguaggio che medi i vissuti del singolo con elementi della memoria collettiva».[28] Nel secondo caso siamo invece di fronte ad una tendenziale trasformazione delle capacità percettive e cognitive dei soggetti, un fenomeno che lascia intravedere la possibilità del verificarsi di una sorta di mutazione antropologica che coinvolgerebbe, in particolare nella tarda modernità, soprattutto le più giovani generazioni. «Nei contesti dove il mutamento è più rapido, questo processo non mette in discussione solo il legame tra le generazioni e la possibilità della trasmissione di un’esperienza, ma la stessa possibilità di sedimentare un sapere valido una volta per tutte nel corso di una vita. È il valore stesso dell’esperienza che decade».[29]

Sempre in riferimento a questa radicale accelerazione del mutamento, Odo Marquard ha coniato il concetto di tachiestraneità al mondo. Sono sempre più rare – egli sostiene – quelle situazioni per cui gli essere umani sono in grado di poter dire di “aver fatto” le proprie esperienze. Una tale condizione ci porrebbe in definitiva nella posizione di “coloro per i quali il mondo è, in prevalenza, ignoto, nuovo, estraneo e impenetrabile, la condizione in altri termini dei bambini”.[30] «Ma ciò non basta – commenta Antonio Cavicchia Scalamonti – la tachiestraneità al mondo è anche il risultato di due altri fenomeni: l’espansione della scuola e l’affermazione del sentito dire. Ambedue riguardano le esperienze o meglio l’impossibilità di esperire direttamente: la diffusione della scuola infatti sempre più capillarmente, testimonia che l’uomo moderno, le cui esperienze invecchiano rapidamente, e le cui nuove esperienze – in quanto specialistiche – non sono vere e proprie esperienze, è obbligato ad adattarsi ad un surrogato d’esperienza (…). Insomma (…) nonostante la modernità sia il luogo deputato dell’esperienza, e cioè non si sono mai date altrettante nuove esperienze quanto oggi, queste esperienze non vengono più fatte per noi stessi, ma sono gli altri che le fanno per noi».[31] Perfino uno specialista dell’empiria – fa notare ancora Marquard – quale può essere un fisico sperimentale, fa egli stesso al massimo dal 2% al 5% di quegli esperimenti sui cui risultati egli deve fare costante affidamento, e ciò per ragioni di costo e di tempo. In tal modo, finiamo col doversi fare carico di esperienze che non siamo noi stessi a fare, ma che conosciamo solo per sentito dire, attraverso informazioni dominate dai media di vario genere.[32]

C’è anche chi parla a proposito di questo fenomeno della nascita di una vera e propria industria dell’esperienza, riferendosi con tale espressione a quell’insieme di attività culturali che oggigiorno si estende dal turismo alla new economy. Il futurologo James Ogilvey osserva: «la crescita dell’industria dell’esperienza è il segnale che il mercato è saturo di roba prodotta dalla rivoluzione industriale … e che i consumatori di oggi non si domandano più “cosa vorrei possedere che ancora non ho?”, ma, invece, “cosa potrei provare che ancora non ho provato?”». Altri analisti sottolineano come nell’emergente economia dell’esperienza non si producano beni ma ricordi, suggerendo ai produttori di esperenzializzare i beni che fabbricano. E sulla stessa lunghezza d’onda, teorizzando quella che egli definisce la interpassività della cultura contemporanea, Slavoj Zizek a sua volta osserva: «oggi noi attraverso i prodotti acquistiamo in verità la nostra vita, l’esperienza stessa, senza però la fatica di farla… ci riempiamo le case di videocassette che non vedremo mai, ci piacciono le trasmissioni con le risate registrate perché ci dispensano perfino dall’obbligo di ridere… altro che interattività, si tratta di una interpassività».[33]

Non ritengo necessario procedere oltre verso una eventuale più precisa definizione semantica e teoretica di un termine come esperienza che – per sua natura – è destinato a mantenere un alone di ambiguità nel senso comune, soprattutto in seguito alle più recenti innovazioni tecnologiche. D’altronde, più che allo statuto ontologico dell’esperienza intendo qui riferirmi ad alcune delle conseguenze che proprio la confusione sempre più manifesta tra le esperienze dei diversi gradi di realtà e simulazioni tecnologiche legate al gioco possono comportare, soprattutto per la costruzione dell’identità per le più giovani generazioni.

La simulazione può essere considerata la manifestazione di un fenomeno presente nell’ambito della cultura contemporanea, divenuta dilagante a seguito della diffusione della digitalizzazione dei processi comunicativi, in virtù della quale le modalità esperenziali rivolte ad oggetti materiali hanno cominciato ad essere orientate prevalentemente verso le rappresentazioni d’essi. Si tratta, in altre parole, degli sviluppi di una più radicale trasformazione dell’esperienza connessa ad un processo di astrazione e de-materializzazione, i cui albori possono essere fatti risalire perlomeno al periodo della nascita della scrittura, che ha reso il linguaggio “esteriore” rispetto all’uomo, facendolo diventare qualcosa che esiste in modo “oggettivo”, indipendente dall’esperienza umana del parlare. Alla realizzazione di un tale complesso processo hanno peraltro contribuito strumenti spesso eterogenei quali l’orologio (e, in misura diversa, il calendario), che ha fatto per il tempo ciò che la scrittura ha fatto per il linguaggio; quali il denaro, che ha reso astratte le transazioni e le misure di valore e di scambio, collocando le singole potenziali esperienze di transazioni materiali sotto l’ombrello dell’astrazione; quali – in particolare – la fotografia, che riguarda più significativamente una fase della storia della cultura occidentale in cui cominciava a delinearsi una nuova realtà sensibile, costruita socialmente grazie alla mediazione della riproduzione immateriale dei luoghi, delle cose e delle persone.

Da questo punto di vista, il periodo critico di trasformazione che caratterizza la recente introduzione delle tecnologie digitali è connesso al fatto che, da questo momento in poi, non necessariamente troveremo una corrispondenza tra la rappresentazione (l’immagine-digitale) di un determinato oggetto materiale e l’oggetto stesso. Ovvero, un’immagine (e lo spazio-tempo dell’esperienza cui essa rimanda) comincia ad assumere uno statuto assolutamente indipendente dalla realtà fisica connessa alle categorie spazio-temporali tradizionali. Il dibattito su questi temi ha ovviamente origini lontane nella riflessione epistemologica occidentale, e non a caso ha subito una svolta considerevole a partire dall’ampliarsi delle controversie sugli effetti sociali corrispondenti alla nascita del cinema, per poi trasferirsi all’ambito della televisione, dei videogiochi e degli altri nuovi media elettronici.

Una serie di autori, ai quali non si può non riconoscere, molto spesso, una certa tonalità apocalittica, hanno insistito sugli effetti confusionali derivanti dall’esposizione alle immagini elettroniche, parlando di “scomparsa della realtà”, di “fusione” tra realtà e finzione, e così via. Al di là dei giudizi su queste posizioni, alcuni spunti di riflessione possono risultare assai significativi, come quando viene sottolineato il fatto che, nella dimensione microscopica dello schermo, la realtà finisce per subire quella che – rifacendoci a Simmel – si potrebbe definire una sorta di abbreviazione prospettica. «Il mondo si avvicina, ma perde le tonalità emotive, la forza d’urto, infine anche il sapore».[34] Il mondo reale viene visto come attraverso uno schermo; mentre la realtà simulata appare sempre più prossima, vicina, vera, concreta. I grossi urti del mondo esterno e l’angoscia che essi possono produrre tendono ad essere ridimensionati, riportandoli all’esperienza mediata e tutto ciò che accade al di là dello schermo appare in fondo soltanto verosimile: assomiglia alla realtà ma non è reale.

 

6) Per una sociologia del tempo

Norbert Elias, in uno dei suoi ultimi scritti,[35] richiamava l’attenzione degli studiosi di scienze sociali sulla necessità di dover affrontare più analiticamente lo sviluppo socio-naturale degli esseri umani, enfatizzando in tal senso la centralità – talvolta considerata troppo superficialmente, se non addirittura trascurata – del processo di emancipazione simbolica che ha consentito all’uomo, nel corso di un lungo processo di civilizzazione, di rendersi indipendente dalle costrizioni dettate dal mondo della natura.

Lo studio della capacità tecnica umana di creare simboli e di comunicare attraverso di essi, che può essere considerata un risultato unico della cieca inventiva della natura, avrebbe potuto fornire secondo Elias un’immagine socio-biologica più adeguata sia alla comprensione delle caratteristiche comunicative dell’uomo, sia alla comprensione della formazione dei simboli come processo di sintesi progressiva.

In altri termini, il grande sociologo tedesco era interessato a stabilire nella sua ricerca le modalità di esistenza dei simboli come strumenti appresi di comunicazione, in modo diacronico e nell’ambito di un quadro evolutivo che contemplasse lo sviluppo sociale come sua continuazione a un livello più alto. L’idea di fondo è quella per cui ogni concetto deve sempre essere considerato come impregnato di tracce derivanti da precedenti stadi di sviluppo sociale, ragion per cui ogni rappresentazione simbolica finisce per costituire – appunto – una sorta di sintesi progressiva[36] rispetto ad una fase precedente di esistenza umana.

A tal proposito lo stesso Elias sosteneva che, per poter affrontare adeguatamente l’evidenza empirica, sarebbero assolutamente necessari dei modelli multidimensionali delle società umane. «La difficoltà consiste nel fatto che gli scienziati sociali, e in particolare i sociologi, sono ancora prigionieri di una teoria scientifica filosofica che ha avuto inizio con Cartesio ed è stata rafforzata dai fisici dell’epoca. A quello stadio non c’era bisogno di modelli teorici multidimensionali. Tutti gli oggetti della fisica, cioè secondo molti filosofi tutti gli oggetti, sembravano appartenere ad un medesimo e unico livello di integrazione».[37]

In sostanza la sociologia avrebbe bisogno non soltanto di sviluppare la percezione e la rappresentazione simbolica in termini processuali, ma anche e soprattutto di orientare la propria ricerca nella piena comprensione del fatto che gli eventi devono essere collocati in una sequenza di livelli di integrazione differenti.

C’è un esempio molto semplice, ma soprattutto molto chiaro, al quale amo spesso rifarmi, che forse riuscirà a rendere meglio il senso dei concetti finora espressi: «Supponiamo che io stia visitando una città che non conosco, con la pianta della città in mano. In questo caso non ho alcun problema nel distinguere tra due diversi modi di esistenza. Le strade, le case, le piazze possono essere classificate come realmente esistenti. La pianta della città è una rappresentazione simbolica di quella realtà. In questo caso non è necessario dubitare della corrispondenza tra simbolo e realtà. (…). Non è irragionevole concettualizzare la relazione esistente tra una città ed una sua mappa come una relazione tra qualcosa che esiste veramente e la sua mera rappresentazione simbolica».[38] Per quanto suggestiva, è però la riflessione ulteriore che di seguito propone Elias a rivelare tutta la sua straordinaria acutezza e profondità teorica: «Come merce – egli scrive – le mappe appartengono allo stesso livello di realtà della città che rappresentano. Come rappresentazioni simboliche della città, esse si pongono allo stesso tempo al di fuori della città. Ci si deve poter distanziare dalla realtà fisica della città per poter disegnare o utilizzare queste mappe; si deve, in altri termini, ascendere mentalmente a un livello di sintesi superiore a quello dell’esistenza hic et nunc della materia».[39]

Come si può notare uno degli aspetti fondamentali che emerge dalle riflessioni del sociologo tedesco concerne proprio il fenomeno della corrispondenza tra sfere di realtà diverse. Tale diversità – viene suggerito – non andrebbe letta tanto nei termini di contrapposizione tra un mondo reale e “altri” mondi fantastici, quanto in base al grado di sintesi raggiunto dai simboli presenti all’interno di ognuno di essi in relazione agli altri. Si tratta, in ultima analisi, della riproposta di una visione dell’universo inteso come un sistema di corrispondenze che trova le sue radici – come ci ricorda Octavio Paz – in una tradizione molto antica e radicata, trasmessa dal neoplatonismo rinascimentale e dalle sette e dalle correnti ermetiche e occultiste del XVI e del XVII secolo, per giungere attraverso complessi percorsi fino ai giorni nostri.[40]

Se queste riflessioni conservano comunque una certa validità per il modello comunicativo basato sull’immagine analogica, le cose cambiano ulteriormente – anzi, come accennato, subiscono una sferzata decisa – quando orientiamo le nostre riflessioni sull’immagine (e l’immaginario) digitale. Cominciamo infatti a trovarci qui di fronte non a realtà basate sulla “rappresentazione di…” qualcosa, ma a realtà che non trovano corrispondenza alcuna se non in se stesse (o in altre rappresentazioni digitali). È l’universo dei mondi paralleli creati attraverso la mediazione dei computer, che trovano ad esempio una loro straordinaria modalità esperenziale negli odierni programmi di simulazione elettronica.[41]

[1] Henry Gee, La specie imprevista. Fraintendimenti sull’evoluzione umana, il Mulino 2016, pp.175-176.

[2] Cfr. Frans de Waal, Il bonobo e l’ateo, Raffaello Cortina, Milano 2014.

[3] Norbert Elias, Saggio sul tempo, il Mulino, Bologna 1986.

[4] Ci riferiamo essenzialmente al prevalere nella vita quotidiana di un tempo che possiamo definire “concreto”, in quanto contrapposto ad una concezione temporale che si verrà via via imponendo nell’Europa moderna, caratterizzata da un livello di astrazione simbolica notevolmente maggiore Aron J. Gurevic, Le categorie della cultura medievale, Einaudi, Torino 1983, p. 97.

[5] Cfr., per approfondimenti, Le Goff J., Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977.

[6][6] Oscar Cullmann, Cristo e il tempo, il Mulino, Bologna 1965; Eric Voegelin, La nuova Scienza politica, Borla, Torino 1980.

[7] Situazione, ovviamente, agevolmente generalizzabile a tutti i principali paesi occidentali.

[8] Roger Sue (2001), Il tempo in frantumi. Sociologia dei tempi sociali, Dedalo, Bari, p. 165.

[9] Ibid., p. 169.

[10] Witold Rybczynski (2003), Aspettando il weekend. Cinquemila anni di sabati e domeniche, Instar libri, Torino.

[11] Ibid., pp. 190-194.

[12] Sue (2001), p. 167.

[13] Rybczynski (2003), pp. 184-186

[14] Daniel Cohen (2001), I nostri tempi moderni. Dal capitale finanziario al capitale umano, Einaudi, Torino, p. XI e p. 119.

[15] Thomas Hylland-Eriksen (2003), Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, elèuthera, Milano.

[16] Per una brillante ed accurata analisi storico-sociologica del processo di presentificazione, cfr. Francois Hartog (2003), Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Seuil, Parigi.

[17] David Lyon (2002), Gesù a Disneyland. La religione nell’era postmoderna, Editori Riuniti, Roma, p 184.

[18] Citato in Hylland Eriksen (2003), p. 149, corsivo mio.

[19] Hylland Eriksen (2003), p. 14.

[20] Raffaele Simone (2003), La mente a punto, Laterza, Roma-Bari, p. 104.

[21] Alberto Oliverio (2003), Memoria e oblio, Rubbettino, Soveria Mannelli, p. 64.

[22] Jeremy Rifkin (2000), L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, pp. 249-250.

[23] Gianfranco Pecchinenda(2003), Videogiochi e cultura della simulazione, Laterza, Roma-Bari.

[24] cfr. Filippo La Porta (2004), L’autoreverse dell’esperienza. Euforie e abbagli della vita flessibile, Bollati Boringhieri, Torino.

[25] Gunther Anders (1992), L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino.

[26] Giorgio Agamben (2001), Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino, p. 5

[27]Si tratta di un fenomeno peraltro molto studiato nell’ambito della sociologia della memoria (cfr., tra gli altri, Antonio Cavicchia Scalamonti, La lotofagia. O del desiderio di dimenticare, Ipermedium libri, Napoli 2007).

[28] Paolo Jedlowski (1989), Memoria, esperienza e modernità, Franco Angeli, Milano, p. 23.

[29] ibid., p. 22.

[30] Marquard (1991), p. 124

[31] Antonio Cavicchia Scalamonti-Gianfranco Pecchinenda (1996), La memoria consumata, Ipermedium libri, Napoli, pp. 53-54.

[32] Odo Marquard (1991), Apologia del caso, Il Mulino, Bologna, p. 125.

[33] Cit. in La Porta (2004), p. 111.

[34] Concato (2001), p. 203.

[35] Norbert Elias (1998), Teoria dei simboli, il Mulino, Bologna.

[36] Concetto che non a caso viene da Elias preferito a quello più abituale e statico di “astrazione”.

[37] Elias (1998), p. 215.

[38] Ibid. p. 32.

[39] Ibid., pp. 32-33.

[40] Octavio Paz (1974), Los hijos del limo, Anagrama, Barcellona, p. 10.

[41] Si tratterebbe, in altri termini, di quella tradizione culturale che, nell’ambito degli studi sulla letteratura, viene definita “semantica dei mondi possibili” (cfr., ad esempio, Thomas G. Pavel (1992), Mondi di invenzione. Realtà e immaginario narrativo, Einaudi, Torino.

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