EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Si tratta di una “struttura generale dell’esperienza”

di Silvano Petrosino

A me sembra che la riflessione derridiana si sia imposta negli anni sempre più chiaramente come un pensiero dell’evento; più precisamente: come un pensiero che ha inteso pensare e salvaguardare uno spazio affinché un evento, se e quando avviene, possa ancora avvenire, possa liberamente avvenire. A tale riguardo è lecito chiedersi come sia possibile prepararsi all’evento, come sia possibile prepararsi con rigore ad accogliere l’evento – evento che proprio in quanto tale è sempre altro, è sempre evento dell’altro – senza che questa preparazione e questa attesa finiscano per impedire l’arrivo di ciò che potrebbe arrivare.  Ecco la grande questione che ultimamente il pensiero di Derrida solleva, ma anche la grande questione che travaglia dall’interno questo stesso pensiero; infatti, non è forse vero che proprio l’attesa dell’evento e la preparazione alla venuta dell’altro rischiano sempre di trasformarsi nel principale ostacolo all’incontro e all’accoglienza di un simile venire? Quando si attende ci si rivolge inevitabilmente sempre da una parte e così non ci si accorge che spesso l’atteso, se arriva, arriva da tutt’altra parte.

Intervenendo sull’idea di «Europa», ma soprattutto sul concetto di «pensiero» (dunque di «filosofia» e di «logica») che con essa sempre si accompagna, è lo stesso filosofo francese a descrivere lo stile o la performance a cui la propria riflessione si sforza di restare fedele:

É la logica, la logica stessa, che qui non voglio criticare. Sarei anzi pronto a sottoscriverla: ma con una mano sola, l’altra la riservo per scrivere o cercare qualcos’altro, forse fuori dall’Europa. Non solo per cercare, al modo della ricerca, dell’analisi, del sapere e della filosofia, quello che già si trova fuori dall’Europa, ma per non tracciare anticipatamente una frontiera davanti all’a-venire dell’avvenimento, a ciò che viene, a ciò che può darsi e che può darsi che venga da tutt’altra sponda[1].

«Non tracciare anticipatamente una frontiera davanti all’avvenire dell’avvenimento», forse è proprio questa, in ultima istanza, la  definizione più rigorosa del concetto derridiano di «écriture»; forse la scrittura in Derrida, ma soprattutto la scrittura di Derrida (cioè i suoi testi, le sue questioni, le sue letture, i suoi neologismi, il suo modo di pensare e di scrivere, più in generale: la sua opera all’opera), è proprio questa traccia che nel porsi – e per pensare bisogna sempre scrivere e così porsi – spera, sogna, lavora, inventa, costruisce, decostruisce, spiazza, sposta e fa di tutto per non imporsi, vale a dire per non chiudere con il suo stesso porsi e così prepararsi ad accogliere, invece di escludere tracciando «anticipatamente» una frontiera davanti al suo av-venire, ciò che, eventualmente, viene?

«Viens!»: un’invocazione sempre più frequente negli ultimi lavori di Derrida.  «Vieni!»  rivolto all’altro, all’evento dell’altro, «vieni!» come parola d’ordine, se così si può dire, di un pensiero dell’evento, come il termine pivot attorno al quale si raccoglie l’esercizio di una razionalità dell’evento. Alla copula «è» si affianca, ma così anche si oppone, l’invocazione «vieni!»: si tratta per Derrida di elaborare un pensiero del «vieni!», di esercitare una riflessione, di mettere all’opera una scrittura che, invece di tracciare anticipatamente una frontiera davanti all’evento dell’altro, sappia prepararsi alla sua venuta senza trasformare questa stessa preparazione in una sua esclusione. Tale scrittura, che fa di tutto per non rendere il suo necessario porsi in un imporsi, è quella che ad avviso di Derrida scrive «Vieni!».

Ora, il «vieni!», che fa di tutto per corrispondere a ciò che solo abusivamente si può definire una «logica dell’evento», impone, tra le altre cose (ad esempio, un ripensamento profondo della categoria di «performativo»), una temporalità diversa da quella che si raccoglie attorno al valore di presenza. Tale temporalità – temporalità dell’evento, dell’evento dell’altro e dell’altro in quanto evento – coinvolge sia un passato che non è più il passato di un presente (più precisamente, per utilizzare una felice espressione di Lévinas, un passato che non è mai stato presente[2]), sia un futuro che non è più il futuro di un presente (più precisamente, un av-venire  che non è più un futuro).

L’idea di un passato che non è mai stato presente e di un av-venire che non è più futuro, è ciò che si impone a Derrida come una vera e propria necessità logica: all’interno di una razionalità dell’evento – laddove la novità di quest’ultimo emerge per sua natura come indeducibile, non programmabile, imprevedibile, inimmaginabile, ultimamente, arriva ad affermare Derrida come impossibile – il passato non può più essere concepito come ciò che è stato presente, così come l’av-venire non può più essere concepito come ciò che si identifica con il futuro. Di conseguenza:

L’invenzione dell’altro, venuta dell’altro, non si costruisce certo come un genitivo soggettivo (ma neppure come genitivo oggettivo), anche se l’invenzione viene dall’altro. Il quale, infatti, non è, pertanto, né soggetto né oggetto, né un io, né una coscienza né un inconscio. Prepararsi a questa venuta dell’altro è ciò che si può chiamare decostruzione. La quale decostruisce appunto questo doppio genitivo (…) Inventare sarebbe perciò «saper» dire «vieni» e rispondere al «vieni» dell’altro[3].

«Saper dire “vieni”», tentare di «saper dire “vieni” e rispondere al “vieni” dell’altro», in ultima istanza cercare di pensare/scrivere un «vieni!» all’altezza della sua stessa invocazione, ecco ciò in cui l’opera di Derrida si trova impegnata: questo è il suo tentativo,  la sua opera, è in questo che la sua opera all’opera.

Tuttavia, prima di concludere questo brevissimo intervento, vorrei fare un accenno ad uno dei due termini della tradizione attraverso i quali il filosofo francese si è sforzato di precisare il suo pensiero proprio in relazione a quella temporalità dell’evento «definita» da un passato che non è mai stato presente e da un avvenire che non coinciderà mai con il futuro. I due termini in questione sono messianico e chora: all’interno della quale e dunque al suo passato mai presente e al suo av-venire non futuro. Ripartiamo dalla nostra questione: come è possibile prepararsi all’evento? Come è possibile pensare e nominare ciò che per eccellenza non può, ma soprattutto deve mai essere immaginato e prefigurato? Derrida risponde:

Dato che bisogna dire tutto in due parole, diamo due nomi alla duplicità di queste origini. Perché qui l’origine è la duplicità stessa, l’una e l’altra. Nominiamo queste due fonti, pozzi o piste ancora invisibili nel deserto. Prestiamogli due nomi ancora «storici», là dove un certo concetto di storia diventa a sua volta inappropriato […] Primo nome: il messianico, o la messianicità senza messianismo. Sarebbe l’apertura all’avvenire o alla venuta dell’altro come avvento della giustizia, ma senza orizzonte d’attesa e senza prefigurazione profetica [corsivo mio, S.P.]. La venuta dell’altro può sorgere come un evento singolare solo là dove non vede venire alcuna anticipazione (…) Il messianico si espone alla sorpresa assoluta (…) Si tratta di una “struttura generale dell’esperienza” [corsivo mio, S.P.]. Questa dimensione messianica non dipende da alcun messianismo, non segue alcuna rivelazione determinata, non è la prerogativa di alcuna religione abramica (anche se qui devo continuare, «tra di noi», per essenziali ragioni di lingua e di luogo, di cultura, di retorica provvisoria e di strategia storica di cui parlerò più avanti, a darle i nomi segnati dalle religioni abramiche). Un invincibile desiderio di giustizia si associa all’attesa. Per definizione, questa non è, e non dev’essere, assicurata da nulla: nessun sapere, nessuna coscienza, nessuna prevedibilità, nessun programma come tale. La messianicità astratta appartiene sin dall’inizio all’esperienza della fede, del credere o di un credito irriducibile al sapere e di una fidatezza che «fonda» ogni rapporto con l’altro nella testimonianza [corsivo mio, S.P.] […] L’opportunità di questo deserto nel deserto […] è che, nello sradicare la tradizione che la reca, nell’ateologizzarla, questa astrazione liberi, senza disconoscere la fede, una razionalità universale e la democrazia politica che ne è indissociabile»[4].

Mi limito in questa sede ad insistere solo su un punto. Come si è visto, nell’introdurre il nome «messianico» e l’idea di «messianicità senza messianismo» allo scopo di far emergere la stessa «struttura generale dell’esperienza», Derrida precisa che quanto qui è in gioco non è una prerogativa di alcuna religione abramica, anche se poi egli si dice costretto a ricorrere ad un tale lessico da «essenziali ragioni di lingua e di luogo, di cultura, di retorica provvisoria e di strategia storica». Ecco un punto che meriterebbe una lunga disamina: in che senso bisogna intendere il nesso che lega le «essenziali ragioni» ad una «retorica provvisoria»? Non è forse solo all’interno di «una tradizione greco-ebraico-cristiana» che è possibile pensare, immaginare o alludere al «messianico», fosse anche «senza orizzonte di attesa e senza prefigurazione profetica», come fattore essenziale alla costituzione stessa di una «razionalità universale»? Da questo punto di vista «l’invincibile desiderio di giustizia» che sempre accompagna una tale «messianicità astratta» non è forse l’eco per eccellenza di quello stesso logos biblico che risuona, ad esempio, anche nell’insistente rinvio derridiano al concetto e all’esperienza della testimonianza? Perché, dunque, «sradicare», ateologizzare, la «tradizione» (religiosa) che rende pensabile e dicibile sia questa idea di esperienza che questa idea di testimonianza? Forse perché non sarebbe riuscita a mantenersi all’altezza di ciò ch’essa stessa ha reso pensabile e dicibile? Forse perché idea di «Dio», e del teologico in generale, che la abita si dimostrerebbe non all’altezza della purezza del messianico difeso dal filosofo francese? Ma è proprio così? O forse è solo un’idea di «Dio» come ciò che «chiude» e «mette fine» ad essere inadeguata ma al tempo stesso anche del tutto estranea alla tradizione biblica? Sradicare una simile idea di Dio perché costringerebbe necessariamente ad ateologizzare anche il logos biblico dato che in esso tale idea non è affatto presente? Il confronto con Derrida non può che continuare[5].

[1]    J. Derrida, L’Autre cap, Minuti, Paris 1991, trad. it. di M. Ferraris, Oggi l’Europa, Garzanti, Milano 1991, p. 47.

[2]    L’importanza di tale riferimento all’interno dell’opera di Derrida non può essere in alcun modo sottovalutato; esso non a caso è esplicitamente presente fin dalla conferenza su «La différance» del 1968: «Un passato che non è mai stato presente, questa formula è quella con la quale Emmanuel Lévinas, seguendo delle vie che non sono certo quelle della psicoanalisi, qualifica la traccia e l’enigma dell’alterità assoluta: l’altro. Almeno in questi limiti e da questo punto di vista, il pensiero della dif-ferenza implica tutta la critica dell’ontologia classica intrapresa da Lévinas» (ora in Margini – della filosofia, trad. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, pp. 27-57, citazione pp. 49-50).

[3]    J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1977, trad. it. di R. Balzarotti, Psyché. Invenzioni dell’altro, Vol. I, Jaca Book, Milano 2008, p. 58.

[4], J. Derrida, «Fede e sapere, Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione», in AA.VV., La religione, Laterza, Bari-Roma 1995, pp. 3-73, citazione pp. 19-20. In un’altra occasione Derrida ha affermato: «Una messianicità senza messianismo non è un messianismo indebolito, una forza diminuita dell’attesa messianica: è un’altra struttura, una struttura dell’esistenza (…) Essa non ha più alcun rapporto essenziale con ciò che possiamo intendere con messianismo, vale a dire almeno due cose: da un lato, la memoria di una rivelazione storica determinata, che sia giudaica o giudaico-cristiana, e, d’altra parte, una figura relativamente determinata del messia. La messianicità senza messianismo esclude, nella purezza della sua struttura, queste due condizioni. Non che occorra, a mio avviso, rigettarle, necessariamente denigrare o distruggere le figure storiche del messianismo, ma esse non sono possibili che sul fondo universale e quasi trascendentale di questa struttura del “senza messianismo”» (J. Derrida, Marx & Sons, PUF/Galilée, Paris 2002, pp. 70-71).

[5] Per quanto mi riguarda ho iniziato a misurarmi con tale questione in «Derrida e la religione», Humanitas, 2007 (n° 2), pp. 293-313.

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