di Gianfranco Brevetto
Il quarto shock è quello del virus. Dopo le sferzate di Copernico, Darwin e Freud, la pandemia ha messo l’umanità a nudo. Ci troviamo di fronte a cambiamenti individuali e collettivi che non risulteranno facili. Dobbiamo imparare a interrogarci sul mondo, sapendo che, come diceva Popper, il mondo naturale intorno a noi perisce. Sebastiano Maffettone, nel suo ultimo libro (Il quarto shock. Come un virus ha cambiato il mondo, Luiss University Press) affronta queste tematiche a viso aperto. Ha accettato di discuterne con noi, iniziando da un tema centrale e attuale: l’etica pubblica.
– Parlare di etica pubblica, oggi, è porsi al centro delle vicende, sanitarie e politiche, che siamo chiamati a vivere . Ed è proprio con un richiamo a questo tema che lei introduce il suo ultimo e stimolante libro. Qual è, in sintesi, il significato di etica pubblica, termine di cui spesso si abusa?
– L’etica pubblica è la moralità delle istituzioni. E dipende da quello che i tedeschi chiamano Wechselwirkung uno scambio reciproco. In poche parole, se i governanti sono persone serie e si comportano bene, i cittadini più facilmente faranno lo stesso e viceversa. Dipende in parte dai politici e molto dalla cittadinanza. L’etica pubblica è il momento centrale di questo scambio, le istituzioni si reggono sulla fiducia, l’etica si basa sulla capacità delle persone di internalizzare le norme e di renderle proprie, senza bisogno della coercizione. Nel libro per sottolineare questo punto parlo del famoso dilemma del prigioniero, in cui si narrano i risultati di atteggiamenti non collaborativi. L’etica pubblica è un modo per fuggire a questo dilemma. Interiorizzare la norma significa aver rispetto di quello che è stato istituzionalizzato, un rispetto che si guadagna nel tempo con la fiducia.
L’etica pubblica è , da un lato, la valutazione del grado di compliance, dell’adeguamento delle persone alle istituzioni e, dall’altro, l’invito a rendersi più partecipi, a non ragionare in termini di noi (i cittadini) e loro (la politica).
– Ho accanato prima al periodo in cui ci troviamo, un tempo difficile, segnato dalla pandemia con i relativi strascichi di non poco conto. Per molti di noi è la prima volta che si ha la sensazione della presenza di regole che gestiscono il nostro quotidiano in modo cogente. Quali i risvolti nel rapporto tra governati e governanti? Siamo di fronte a reali cambiamenti del nostro vivere?
-Una premessa. Diffuso è il mito che cittadini siano sempre migliori, l’idea è quella che i politici siano scadenti mentre noi siamo virtuosi, mentre è ovvio che i primi sono più o meno come noi. Non ci possono essere governi scadenti se non ci sono cittadini che li votano. Gandhi sostenne che non ci può essere l’autonomia del paese senza l’autonomia morale e politica delle persone. E questo non vale solo per l’India. Se formi cittadini e imprese sane, tutta la società civile sarà sana. Occorre smettere di considerare la politica come un qualcosa di terzo, la politica siamo noi e la società civile deve essere rappresentata e meritare di essere rappresentata bene. Ovviamente questo è un assunto normativo, cioè io non sto descrivendo ma sto indicando come dovrebbe essere. Secondo me la pandemia ha offerto un’occasione d’oro per migliorare noi stessi e la società in cui viviamo. La consapevolezza che c’è qualcosa che non va nel modello usuale è ampiamente condivisa. Che ci sia la consapevolezza però non vuol dire che noi cambieremo. Abbiamo capito che c’è bisogno di un mutamento e questa non è una cosa banale. Sicuramente abbiamo compreso che una svolta ci vuole, una svolta in direzione duplice della persona e della società. Il vero problema è quello che riusciremo a fare in realtà. Ma questo ora non lo sappiamo. Hegel diceva che la filosofia è come la nottola di Minerva, un uccello che vola dopo il tramonto, che arriva sempre dopo. Cosa cambierà effettivamente lo sapremo solo tra un po’. Quello che è certo, come si diceva, è che la consapevolezza di un cambiamento necessario, come accadde dopo la Guerra, esiste.
– Lei mette in evidenza la forte dipendenza del sociale dal naturale. Ci dice che, oggi, la separazione tra la società e la natura non ha più senso. In questa esigenza di cambiamento lei pensa che ci sia bisogno di un altro umanesimo?
– Da poco sono diventato presidente della Fondazione Giordano Bruno, il quale sosteneva come la natura non è una cosa ma è qualcosa di vivo. Bruno lo aveva già capito. Il suo punto di vista, se pur datato, è molto interessante e affascinate anche oggi,. Ma anche pericoloso. Vi è il rischio che si sviluppi in una direzione anti scientifica, come accadde nei filosofi romantici, con una filosofia della natura parallela alla scienza. In quella che Foucault chiamava l’âge classique , corrispondente grosso modo al 1600, si era formato un paradigma fortissimo, quello di Galilei e Cartesio in cui la natura era una cosa completamente inanimata, che si poteva studiare solo in termini di fisica teorica. Questo paradigma fu vincente e ottenne più risultati di quello rinascimentale. Il paradigma dell’âge classique ha vinto sull’altro e ha ridotto la natura a: una cosa inerte. Quello che occorrerebbe fare è di fuggire dagli estremi, a cominciare da quello tipico del Romanticismo, in cui la scienza tradizionale viene negata in nome del vivente. Senza però dimenticare che è errato anche un paradigma galileano-cartesiano, in cui la biologia viene ridotta a genetica e la genetica a fisica. Bisogna integrare l’aspetto analitico del secondo con quello che tiene cura del vivente del primo.
– La filosofia quali appigli, quali indicazioni, quali sentieri può fornirci per questa auspicabile integrazione?
– Io penso che, filosoficamente, ci siano le premesse di quella soluzione intermedia cui mi riferivo dapprima. Kant nella Critica del giudizio, con la sua idea di organismo e di finalità, ci offre una mediazione tra i due paradigmi e, secondo me, è lì che occorre cercare per trovare una fusione tra riduzionismo e atteggiamento antiscientifico, per esempio tra biologia e genetica. La genetica è la riduzione della biologia a fisica. La natura, invece, non si può ridurre a qualcosa che somigli allo studio degli astri, la natura è composta di organismi viventi, come noi, che non possono essere abbandonati a un mondo di desertificazione del vivente. Questi organismi devono essere trattati non come cose ma similmente alle persone, ovviamente senza abbandonare la forza del paradigma analitico, questa é la difficoltà. Questo tipo di conciliazione io la vedo, come ho detto, nel Kant della Critica del giudizio. Ma anche Kant ci arriva per gradi. Nel suo libro dedicato alla religione, ci dice che tra la conoscenza fenomenica, le scienze naturali, e la conoscenza profonda, quella noumenica dell’etica, c’è una mediazione. Non sono due binari che non si incontrano mai. E la mediazione è data dalla finalità del mondo organico.
– Torniamo alla pandemia, alle sue implicazioni, alle sue incertezze, come farvi fronte sul piano pratico?
– La pandemia ci ha mostrato come noi affrontiamo i fenomeni naturali con eccessiva riduzione di complessità. Io penso che occorrano gruppi interdisciplinari per affrontare i tanti problemi globali di oggi, come la pandemia, ma anche altri come quelli dell’ambiente e della finanza. Occorre dunque l’umanesimo, ma insieme alla technicality. Due poli filosofici sono oggi indispensabili. Uno è l’intelligenza collettiva: se ci fosse un nuovo Leonardo questo non sarebbe una persona ma un gruppo, un gruppo unito non dalla competenza specifica monodisciplinare. Invece di questa, penso a un gruppo in cui sono tutti bravi nell’affrontare un problema complesso, in cui ognuno mette la sua competenza e la media con quella degli altri . L’altro polo è quello della resilienza della natura, la natura è uno spazio di autonomia vitale .
– Tra le proposte che lei affronta nel libro vi è anche quella del superamento della scissione tra etica e conoscenza, tra etica ed economia. In questi ultimi decenni sembra invece che sia accaduto il contrario, si pensi ad alcune teorie di esaltazione di una certa visione della managerialità.
– L’idea è che il manager dovrebbe farsi supportare, come dicevo, da una squadra interdisciplinare e in cui ci sia anche un’umanista. Alla Luiss abbiamo lanciato un programma di digital humanities. Non si può rinunciare al digitale , ma deve essere non regressivo e invasivo, mettiamoci dentro l’etica, la politica, il diritto, la storia. Questo tipo di consapevolezza si sta diffondendo…. In questo periodo siamo invasi dai dati, sono il nuovo petrolio, ma i dati non parlano da soli ci vuole chi li interpreta. Penso che un bravo interprete possa essere, ad esempio, qualcuno che ha studiato filologia romanza, non uno specialista di algebra non standard. Ci vuole gente abituata a confrontarsi con problemi concreti di interpretazione.
– A compimento di un interessante ragionamento sul valore, tema caro all’etica, all’economia e all’estetica, lei ci propone la visione dello stesso come unità organica. Cosa significa?
– Che il tutto vale più dell’insieme delle parti. Non si tratta di una semplice somma ma c’è qualcosa in più, come avviene in una famiglia piena di affetti o in un’orchestra che suona bene. Io credo che il modello sia sempre quello della terza critica di Kant, l’idea di qualcosa che sia analitico ma anche umanistico insieme, non separato. Questo concede quel surplus alla mera somma delle parti: una sorta di mistero del ben riuscito che non riusciremo mai a tradurre in formule. Per fortuna i veri capolavori non sono costruiti a tavolino.
– Le cronache ci dicono che il coronavirus, con i suoi annessi e connessi, sta mettendo sotto stress la stabilità di molti sistemi liberaldemocratici. Esiste veramente questo un rischio in questo senso?
– Io direi che le grandi crisi, come questa dovuta alla pandemia, accentuano dei percorsi che sono già in atto. Sicuramente si sta rafforzando un pericolo che già era nell’aria. Prima la liberaldemocrazia era un’aspirazione di tutti, ora paesi importanti, come Polonia, l’Ungheria, la Russia, sembrano allontanarsene. Prima il modello prevalente era un misto di capitalismo e liberaldemocrazia, ma non lo è più da parecchi anni. Io spero e credo che ne usciremo fuori più forti attraverso quei cambiamenti a cui accennavo prima. Occorre maggiore consapevolezza che siamo noi che dobbiamo guidare il processo, non siamo pecore guidate da un pastore e ci dobbiamo autoguidare verso situazioni migliori.
– La pandemia, tra l’altro, ci ha messo anche a diretto contatto con la morte. Ne ha messo in discussione la sacralità in vari modi, ha toccato una dei momenti più intimi della nostra esistenza. Cosa ha significato per noi?
– Quando la morte si espande vi è la sensazione che la specie sia a rischio. Se uno pensa alla fine concreta dell’umanità, comprende che gli altri sono indispensabili anche nella nostra stessa formazione. Come tutti io ho desideri che vanno oltre la mia vita, queste aspirazioni non sono solo personali o famigliari, ma riguardano anche:: l’intera umanità, come la lotta al cancro, la pace, e via dicendo. Che senso avrebbero queste speranze e questi desideri, sia quelli personali che quelli collettivi, se l’umanità non ci fosse più? Se l’umanità scomparisse, anche noi non avremmo più senso, gli altri sono un elemento essenziale della nostra identità.
– Non si rischia, in questo modo, di affidare la sopravvivenza del nostro io, ad un futuro del quale non abbiamo certezze, ad una visione escatologica?
– Io direi trascendente, spirituale. Provi a chiudere gli occhi e pensare alla scomparsa della specie umana. Noi siamo i nostri desideri, le nostre speranze, le nostre volontà. Queste speranze si basano molto sugli altri , che essi siano vicini o lontani. Io sento questo senso di appartenenza alla specie umana, a volte me ne dispiaccio altre ne sono orgoglioso. In fondo, siamo meno egoisti di quanto crediamo.
Sebastiano Maffettone
Il quarto shock
Come un virus ha cambiato il mondo
2020, Luiss University Press