di Alessandra Santoro[1]
Apparso per la prima volta in Germania nel 1953, è stato finalmente tradotto in italiano da Daniele Nuccilli il volume più significativo dell’opera del filosofo e avvocato tedesco Wilhlem Schapp (1884-1965).[2]
Noto come uno dei membri più autorevoli dei circoli filosofici di Monaco e Gottinga, Schapp può essere universalmente riconosciuto per aver intrapreso il tentativo di fondazione di una vera e propria “filosofia delle storie” la cui struttura ontologica si erige sul cosiddetto irretimento dell’uomo in storie, una concezione originale che in un primo momento rimase inosservata al grande pubblico.
Reti di storie costituisce il primo volume di una trilogia nella quale il tema dell’irretimento viene declinato in diversi modi e applicato a diversi ambiti del sapere. L’impianto concettuale dell’opera di Schapp si intreccia principalmente con due istanze di pensiero che hanno fortemente determinato lo spirito dell’autore: lo storicismo di Dilthey, da cui riprende i caratteri peculiari della pluralizzazione del concetto di storia, e la fenomenologia di Husserl, il maestro dal quale gradualmente Schapp si emancipò, criticandone in particolare la svolta idealista con l’intento di localizzare il concetto husserliano di eide all’interno delle storie.
L’opera, infatti, ruota attorno all’assunto fondamentale secondo cui la totalità dei processi conoscitivi si fonda sulle storie. La percezione della realtà vissuta dal soggetto è determinata dal suo essere irretito in storie di cui l’uomo è il centro dinamico, il punto di coesione. Ogni cosa, quindi, s’inscrive nella sua storia, la cui esistenza determina la trama contestuale in cui il mondo prende forma.
L’elemento istoriale si afferma a spese anche del linguaggio: ogni preposizione, secondo il filosofo tedesco, ha senso solo all’interno di una narrazione che essa contribuisce a intessere. Il mondo, dunque, non può essere inteso come esclusivamente composto di materia e di oggetti: da una parte, esso deve includere necessariamente l’acquisizione della prospettiva dell’irretimento, dall’altra, deve elaborare delle connessioni, delle “reti di storie” tra gli uomini. Queste, a loro volta, si rivelano principalmente attraverso le cose e, più nello specifico, attraverso quelle che Schapp definisce le cose-per, ossia le intenzioni e gli scopi resi manifesti, come oggetti prodotti dall’uomo, che s’incontrano con le caratteristiche del mondo esterno.
In questo modo le storie sembrano costituire il fenomeno originario dell’essere dell’uomo e del mondo, le “cose prime” in cui storie individuali e collettive formano un’unità indissolubile. Tutti gli accadimenti vengono perciò collocati all’interno di un orizzonte di senso costituito anch’esso da un antefatto (una pre-storia) e da un prosieguo (una post-storia), irretiti a loro volta in singole storie.
Partendo dal presupposto della natura connettivale delle narrazioni, la ricerca dell’essenza di ogni atto appare dunque a Schapp come un irrigidimento della dinamica dell’esser-irretito, poiché essa si configura come uno sprovveduto tentativo di circoscrivere ciò che per essenza è relazionale.
L’affinità delle sue idee con il bagaglio concettuale della fenomenologia classica, non impedirà a Schapp di installare successivamente una distinctio phenomenologica, in particolare dalla filosofia della coscienza husserliana che, secondo Schapp, si configurerebbe come un tentativo di individuare uno stato di cose e di epurarlo da qualsiasi forma di dubbio, rischiando così di perdere di vista quello che resta il fondamento basilare di qualsiasi conoscenza: l’irretimento. Nel momento in cui si enuncia una proposizione che descrive uno stato presente che coinvolge un soggetto – sottolinea il filosofo – se si vuole verificarne l’esattezza, non si può dunque prescindere dal contesto, da ciò che la precede e la circonda, vale a dire dalla storia, o dalle storie, che ne accompagnano e direzionano il senso.[3]
Ed è proprio prendendo spunto da questa riflessione che Schapp introduce lo studio delle cosiddette storie universali, ovvero l’insieme delle grandi narrazioni e dei miti che coinvolgono l’umanità in tutta la sua interezza.
Tali narrazioni sembrano costituire l’orizzonte ultimo verso cui convergono le singole storie e che contribuiscono a definire tutta l’opera di Schapp come un’ontologia inclusiva, al cui interno ogni cosa assume un senso solo nel contesto e nelle connessioni cui le grandi narrazioni danno vita.
Il riferimento alle grandi narrazioni rende possibile quella che il filosofo tedesco ipotizza essere una vera e propria costruzione della teoria universale del co-irretimento. Esse appaiono come l’unica chiave di accesso alla comprensione del mondo del passato; un mondo che diventa penetrabile esclusivamente grazie ai grandi poemi epici di Omero ed Esiodo, modelli narrativi secondo Schapp indispensabili per descrivere la dinamica del co-irretimento di più individui o entità in una storia collettiva. Ogni singola vicenda è agganciata a un orizzonte pre-comprensivo del divenire storico, in cui collettività e individualità si co-implicano.
Le grandi storie, i miti, le religioni sembrerebbero in tal modo costituire una sorta di cornice all’interno della quale ogni singola storia assume la sua forma. Allo stesso tempo essa sarebbe irretita in una narrazione collettiva che ne traccia gli infinti orizzonti istoriali. Ci troviamo così di fronte a un tipo di narrazione che Schapp definisce onniestensiva, tra noi e chi ci ha preceduto. Essa tesserebbe la trama ontologica grazie alla quale sarebbe possibile delineare ogni forma di comprensione del mondo. Una sorta di modello, “schema di condotta” o di “parabola” – così definita dallo stesso filosofo – formulata linguisticamente in forma narrativa, che conferma la perpetua necessità di rispondere alle richieste di senso e di significato che fatalmente costellano le singole esistenze individuali.
L’aspetto paradigmatico delle storie nel pensiero schappiano intende evidenziare il modo in cui questo “grumo narrativo”, inteso come il nucleo cruciale delle storie, avvolga ogni sorta di dimensione della realtà (vita quotidiana, sogno, scienza, religione, follia), il che ci impegnerebbe a considerare la cosiddetta “filosofia delle storie” come una quarta rivoluzione del pensiero dopo quelle di Talete, Bacone e Kant.
Come tra i primi in Italia ha fatto notare Gianfranco Pecchinenda,[4] il successo della ricezione che oggi questo straordinario autore sta cominciando ad avere a livello internazionale e multidisciplinare, può sicuramente essere dovuta, oltre all’innegabile originalità della sua proposta, anche al suo coraggioso tentativo di provare a entrare in contatto diretto con il lettore per provare a costituire una sorta di laboratorio teorico[5] in cui dare vita ad una riconfigurazione dell’intero bagaglio del sapere umano in una chiave narrativo-istoriale.
Wilhelm Schapp,
Reti di storie.
L’essere dell’uomo e della cosa
Mimesis , 2017
[1] Alessandra Santoro è PhD in Sociologia e Ricerca Sociale all’Università Federico II di Napoli e membro dell’Atelier di Ricerca Funes – sezione Wilhelm Schapp (https://funes.altervista.org/sezione-wilhelm-schapp/).
[2] Schapp W. (2017), Reti di Storie. L’essere dell’uomo e della cosa (a cura di D. Nuccilli), Mimesis, Milano.
[3] Nuccilli D. (2017) «Nota critica a Wilhelm Schapp, Nachlass Bd. 1, Auf dem Weg einer Philosophie der Geschichten». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia. https://mondodomani.org/dialegesthai/
[4] Pecchinenda G. (2018), L’essere e l’io. Fenomenologia, Esistenzialismo e Neuroscienze Sociali, Meltemi, Milano.
[5] https://funes.altervista.org/sezione-wilhelm-schapp/