di Gianfranco Pecchinenda
Riflessioni a partire dal saggio di Michael Tomasello, Dalle lucertole all’uomo. Storia naturale dell’azione, Raffaello Cortina, Milano 2023
La ricerca sulla storia naturale dell’azione, in generale, è motivata dal tentativo di rispondere a due questioni di fondo. La prima è la seguente: date le caratteristiche biologiche del suo organismo, qual è il grado di libertà dell’agire umano? Detto in altri termini: l’azione umana è prevalentemente determinata dalla biologia oppure esistono margini di scelta tali da poter parlare di un libero arbitrio fondato sulla psicologia individuale?
Michael Tomasello, un vero e proprio pioniere della psicologia evoluzionista, affronta in questo suo ultimo lavoro tale questione con grande originalità e rigore metodologico, riuscendo ancora una volta a evidenziare quanto una tale dicotomia, oltre ad essere inutile, possa oramai considerarsi scientificamente superata.
Più nello specifico, lo studioso americano focalizza in questo caso la sua attenzione sul concetto di agentività, attribuendogli un valore euristico particolarmente significativo, al punto da considerarlo una sorta di spartiacque tra un approccio biologico e uno psicologico al comportamento.
Invece di interrogarsi sulla complessità dei comportamenti animali e umani, l’attenzione dei ricercatori andrebbe a suo avviso orientata al controllo che i singoli attori mantengono nel corso delle loro attività: “Il comportamento delle formiche, dei ragni e delle api – egli scrive – non sembra sotto il controllo dell’individuo, persino quando questi animali stanno eseguendo qualcosa di molto complesso; il controllo è della loro biologia evoluta. Dal canto loro, i primati e i mammiferi, anche quando stanno facendo qualcosa di relativamente semplice, sembrano prendere decisioni attive e informate, decisioni controllate, perlomeno in qualche misura, dall’individuo”.
Tale concetto – ritiene Tomasello, a seguito di un vasto e ininterrotto programma di ricerca almeno ventennale sull’argomento – è quello che maggiorente caratterizza e distingue gli animali agentivi dotati di una “psicologia” e quelli che, pur evidenziando comportamenti complessi, non sembrano possederla.
Data questa premessa, il progetto presentato in questo lavoro tende a ripercorrere il probabile percorso evolutivo che potrebbe aver condotto alla formazione di quel tipo particolare di agentività che caratterizza l’essere umano. A tal fine, Tomasello individua quattro tipi principali di agentività psicologica – quattro architetture organizzative riguardanti la presa di decisioni e il controllo comportamentale nel singolo “individuo” – rappresentativi di importanti antenati dell’essere umano: l’agentività diretta a uno scopo negli antichi vertebrati; l’agentività intenzionale negli antichi mammiferi; l’agentività razionale nelle antiche grandi scimmie; e l’agentività socialmente normativa negli antichi umani.
Prima di procedere, chiariamo che, secondo Tomasello, un agire “psicologico” è quello di un organismo che non si limita a rispondere a stimoli ambientali ma dirige (o addirittura pianifica) attivamente le proprie azioni verso obiettivi, e per farlo presta attivamente attenzione alle situazioni del caso. Tale definizione include, evidentemente, un certo grado di flessibilità comportamentale, determinato da decisioni informate su ciò che funzionerà meglio in circostanze situazionali mutevoli.
L’attenzione alle circostanze situazionali che Tomasello riserva alla sua analisi, pur evidenziando l’interdisciplinarietà della sua prospettiva, sembra però orientare l’interesse delle sue tesi verso settori della ricerca (come quella sociologica) rispetto alle quali la terminologia e i riferimenti dello studioso rischiano talvolta di apparire piuttosto ingenui e limitati.
“L’ipotesi evolutiva – scrive Tomasello – è che, quando gli individui si confrontano regolarmente con situazioni di incertezza, se la cava meglio chi di loro opera in modo agentivo, valutando con flessibilità la situazione del momento e prendendo una decisione informata dalle circostanze rilevanti qui e ora per poi controllare e autoregolare l’esecuzione del comportamento mentre si svolge”.
Una tale ipotesi, se da un lato applica efficacemente gli strumenti teorici dei modelli ricavati dalla scienza cognitiva e dai classici modelli cibernetici di azione diretta a uno scopo basati sui principi del controllo a feedback, dall’altra sembra sottovalutare l’enorme (e a mio avviso utilissimo) contributo che potrebbe derivare dal confronto con il patrimonio teorico elaborato negli ultimi due secoli dalla ricerca sociologica classica (si pensi ai modelli della sociologia dell’azione di Max Weber) e – soprattutto – dalla fenomenologia e dalla sociologia storico-processuale di autori come Norbert Elias.
Per provare a spiegare meglio le motivazioni di una tale critica, è necessario rifarsi alla seconda questione cui facevo riferimento nell’introdurre questa mia riflessione. Se la prima – l’analisi fondata sul confronto determinismo biologico/determinismo psicologico – sembra risolversi molto efficacemente per quanto riguarda i primi tre modelli organizzativi considerati (ovvero quelli riguardanti i vertebrati, i mammiferi e le grandi scimmie), quando si passa al quarto modello, relativo agli esseri umani, non si può a mio parere evitare di affrontare anche la fondamentale questione relativa non più alla dicotomia biologia-psicologia (individuale), ma a quella tra biologia e cultura.
Se, a dire il vero, Tomasello sembra riconoscere l’emergere di una vera e propria svolta epistemologica connessa alla comparsa dell’agentività umana, è poco chiaro perché non riservi la necessaria attenzione a quello che – ripeto – mi sembra un bagaglio di conoscenze in possesso delle scienze sociali che avrebbe potuto essergli particolarmente utile per evitare alcune ingenuità terminologiche, prima tra tutte quella che concerne il delicato processo di individualizzazione.
Come è noto – anche a seguito delle ricerche di autori come Gino Germani, Antonio Cavicchia Scalamonti o lo stesso Norbert Elias – il concetto di individuo è molto difficile da definire e comprendere se non lo si riferisce ad una determinata epoca storica e a contesti socioculturali molto più complessi di quelli considerati da Tomasello. Ma, soprattutto, non si può rischiare di confondere le caratteristiche di quello che è un articolato processo storico-culturale (che prevede l’acquisizione, affatto lineare e progressiva, in termini evoluzionisti, di qualità assai complesse come il sentimento di interiorità, unicità e autonomia) con una non meglio precisata “individualità” psicologica.
Per schematizzare la fonte di una tale perplessità, potrebbe ad esempio essere utile ricorrere alla distinzione introdotta negli anni Cinquanta dal fenomenologo tedesco Wilhelm Schapp tra l’essere umano considerato in quanto appartenente ad una specie e l’essere umano la cui necessaria socialità lo rende innanzitutto partecipe a una stirpe. Per Schapp l’individualità andrebbe sempre considerata all’interno di storie che compaiono nel mondo in un modo ben “circostanziale e circostanziato”. Questo riferimento alle circostanze narrative è infatti proprio ciò che spiega la differenza tra Gattung (il concetto biologico di specie con cui si fa riferimento ad una “categoria”) e Geschlecht (la stirpe, con cui si intende la progenie, ovvero il numero di singoli e particolari discendenti che si presentano nella storia a partire dalla comparsa di una specie determinata, attraverso il succedersi delle generazioni, in quello che Schapp definisce il loro orizzonte comune).
Ogni riferimento a concetti complessi come, ad esempio, quello di individuo, può insomma avere senso solo con riferimento a una storia.
Tomasello, in verità, non ignora del tutto l’eventuale importanza della questione che, per semplificare, definiremo “socio-culturale”. Tuttavia, egli sembra considerarla con una certa sufficienza. Quando ad esempio scrive, citando Harari, che gli esseri umani hanno costruito una realtà fatta di entità fittizie, come le nazioni, come gli dèi, come il denaro, come le aziende, l’autore si affretta a precisare quanto un tale termine (realtà fittizia) sia riferito al fatto che tale realtà esiste solo a seguito di un accordo umano.
Proprio come se potesse darsi una realtà indipendente da quella scaturita dall’attività culturale, prodotta dall’interazione umana attraverso una continua e incessante dialettica processuale.
Come altro potrebbero esistere le rappresentazioni cognitive oggettive e i valori morali oggettivi umani di cui parla Tomasello, se questi non venissero costruiti attraverso la condivisione di una cultura comune a coloro che vi partecipano?
La sua tesi, secondo cui gli organismi sanno dirigere e controllare in modo flessibile le proprie azioni se, e soltanto se, la “psicologia” che li muove è organizzata agentivamente, sotto forma di un controllo a feedback, non concede a mio avviso la necessaria importanza al ruolo determinante e umanamente specifico proprio della finzione e dei suoi derivati mimetici.
Il fatto che esista una realtà oggettiva, infatti, non significa che essa non possa essere anche fittizia, anzi.
Se è vero che qualunque organismo, compreso l’essere umano, è effettivamente motivato ad agire allo scopo di sopravvivere e riprodursi, è altrettanto innegabile che l’essere umano, oltre ad agire può anche fingere o immaginare di agire.
In questo momento mi trovo seduto di fronte al tavolino del mio studio, provando a scrivere queste stesse note che, chi leggerà, starà vedendo scorrere sotto i propri occhi. Se, nel frattempo, mi venisse voglia di un caffè, mi alzerei dalla sedia e mi dirigerei verso la cucina. Date le specifiche circostanze in cui mi trovo, nonostante la forte motivazione dettata dal mio desiderio organico, mi limito però a visualizzare soltanto il mio gesto (immaginario) di alzarmi e andare a prepararmi un caffè (immaginario, ahimè, anch’esso).
Dunque, mi vedo nella mia mente mentre mi sollevo dalla sedia e mi avvio lungo il corridoio che conduce alla cucina. Mi vedo mentre riempio d’acqua il contenitore della caffettiera e accendo il fornellino, poi mentre verso il liquido nero nella tazzina e la avvicino alle labbra. Immediatamente dopo, mi osservo anche di spalle mentre riattraverso la porta dello studio e mi rimetto a sedere. Eccomi qua. Rieccomi qua.
Basta una breve descrizione come questa, relativa ad un gesto relativamente semplice ed abitudinario, per rendere l’idea dell’enorme complessità sottesa alle nostre azioni e delle difficoltà di ogni impresa finalizzata ad analizzarla in termini comparativi con altre specie viventi.
Quando, nel corso della sua straordinaria analisi del processo di civilizzazione, Norbert Elias si era cimentato in una tale impresa, aveva indugiato spesso sulla necessità di dover affrontare più analiticamente lo sviluppo socio-naturale degli esseri umani, enfatizzando in tal senso la centralità – talvolta considerata troppo superficialmente, se non addirittura trascurata – del processo di emancipazione simbolica che ha consentito all’essere umano di rendersi, progressivamente, sempre più indipendente dalle costrizioni dettate dal mondo della natura.
Lo studio della capacità tecnica umana di creare simboli e di comunicare attraverso di essi, che può essere considerata un risultato unico della cieca inventiva della natura, avrebbe potuto fornire, secondo Elias, un’immagine sociobiologica più adeguata sia alla comprensione delle caratteristiche antropologiche dell’essere umano sia alla comprensione della formazione dei simboli come processo di sintesi progressiva. In altri termini, il grande sociologo tedesco era interessato a stabilire le modalità di esistenza dei simboli come strumenti appresi di comunicazione, in modo diacronico e nell’ambito di un quadro evolutivo che contemplasse lo sviluppo culturale come sua continuazione a un livello più alto.
L’idea di fondo era quella per cui ogni concetto deve sempre essere considerato come impregnato di tracce derivanti da precedenti stadi di sviluppo sociale, ragion per cui ogni rappresentazione simbolica finiva per costituire – appunto – una sorta di “sintesi progressiva” (concetto che non a caso veniva da Elias preferito a quello più abituale e statico di “astrazione”) rispetto ad una fase precedente dell’esistenza umana.
A tal proposito lo stesso Elias scriveva: “Sono necessari modelli multidimensionali delle società umane al fine di affrontare l’evidenza empirica”. La difficoltà consiste nel fatto che gli studiosi sono ancora prigionieri di una teoria scientifica filosofica che ha avuto inizio con Cartesio ed è stata rafforzata dai fisici dell’epoca. A quello stadio non c’era bisogno di modelli teorici multidimensionali. Tutti gli oggetti della fisica, cioè secondo molti studiosi tutti gli oggetti, sembravano appartenere ad un medesimo e unico livello di integrazione. In sostanza – concludeva Elias – gli studiosi dovrebbero non soltanto sviluppare la percezione e la rappresentazione simbolica in termini processuali, ma anche e soprattutto orientare la propria ricerca nella piena comprensione del fatto che gli eventi devono essere collocati in una sequenza di livelli di integrazione differenti.
Se è vero, insomma (come sostiene la biologia contemporanea, cui lo stesso Tomasello fa giustamente riferimento), che il nostro corredo biologico è estremamente mutevole ed elastico e che si nutre anche grazie all’interazione con l’ambiente, al punto tale da poter essere plasmata dalle nostre esperienze di vita, non si vede perché l’analisi di tali esperienze debba essere ridotta a pochi elementi schematici e non possa essere presa in considerazione in tutta l’enorme complessità di cui è portatrice.
Una volta acquisita l’importanza del contributo di ricerche come quelle di Tomasello alla ricerca sul comportamento animale in generale, la mia impressione – in conclusione – è che qualunque teoria dell’azione che sia riferita anche all’essere umano non possa prescindere dal considerare il tema antropologico per eccellenza, che è quello della coscienza: la coscienza individualizzata del tempo (la memoria), dell’invecchiamento e, soprattutto,della morte.
Se consideriamo la categoria della stirpe, anziché quella della specie, non possiamo evitare di notare che l’essere umano, a partire da un determinato momento storico, non è stato più mosso dalla necessità (biologicamente determinata) di sopravvivere e riprodursi, ma dal desiderio di evitare la morte (diventata intanto un concetto culturale legato al processo di individualizzazione). Si tratta di due fenomeni totalmente diversi, il secondo dei quali è strettamente connesso proprio all’immaginario, alla finzione e all’autoinganno.
È la scoperta della morte intesa come fine dell’esistenza che ha reso possibile la nascita dell’individuo (e la psicologia individualizzata) e non viceversa.
Il processo dialettico su cui si fonda l’azione umana – che la fenomenologia esistenzialista ha saputo rivelare e interpretare con particolare efficacia, soprattutto in relazione alla conoscenza di senso comune – sarà stimolato, a partire da allora, dal riconoscimento non soltanto di una logica razionalmente o normativamente orientata, ma anche dal sentimento (talvolta anche solo dal sospetto o dall’intuizione) della paradossale assurdità dell’applicazione di una qualunque logica di fronte all’ineluttabile e definitiva “realtà” della propria morte.
Michael Tomasello,
Dalle lucertole all’uomo. Storia naturale dell’azione,
Raffaello Cortina, Milano 2023