EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Tessere la tela del (non) senso. La fotografia, lo sguardo, la fascinazione.

di Marinella Ciamarra

 

Non voglio dimostrare niente, voglio solo mostrare. Se dovessi descrivere il mio rapporto con la fotografia, questa felliniana è una citazione che mi viene in mente. Però è probabile che non è vero che voglia solo mostrare. Forse, il verbo corretto è raccontare. Per anni ho cercato di raccontare le emozioni attraverso le parole. Con il giornalismo, con la scrittura creativa. Poi, da qualche tempo ho scoperto che la comunicazione può avvenire anche attraverso immagini. Hai fatto la scoperta dell’acqua calda, direbbe mio padre. Certo, so da sempre che le immagini comunicano.

Amo il cinema. Amo le arti visive. Intendo che ho scoperto che la mia di comunicazione può avvenire attraverso le immagini. Che posso esprimere me stessa attraverso di esse. E, non so perché, visto che non ho particolari competenze tecniche, è una cosa che ad istinto mi viene anche naturale. L’occhio di cui si dice in gergo. Ho l’occhio.

Per cosa? Non lo so. Non ancora in maniera definita, forse. Fotografo ciò che può raccontare una storia. E’ l’idea della narrazione che mi stimola. La fabulazione, scomodando Bergson. La facoltà dell’uomo di inventare raffigurazioni fantastiche per proteggersi dalla paura della morte. Ma no, forse Bergson è lo spunto. Non prediligo il racconto fantastico. Sulla morte, chissà. In fotografia è la realtà che mi attrae.

Mi piace raccontare storie reali attraverso le immagini. La fantasia è successiva. La fantasia è di chi guarda la foto e ci vede ciò che vuole. Ma partendo dalla realtà. Dai luoghi (o non luoghi) che prediligo. Dalla strada. Dai mercati. Dalle periferie. Dalle metropoli. Dalla gente. Dagli sguardi. Lo sguardo del fotografo che incontra lo sguardo del soggetto. Sguardi che si incrociano, sguardi che si perdono, sguardi rubati, sguardi persi, sguardi indifferenti, sguardi opposti.

E’ singolare che quando parli agli animali, loro ti guardano negli occhi. Dritto dritto.

Anche se sarebbe più logico fissare la provenienza del suono, che è la bocca. E invece un cane ti guarda dritto negli occhi. E sembra quasi che riesca a leggerti dentro. A cogliere le parti nascoste di cui non vai fiero, magari. Perché il cane è un essere puro. Forse la camera riesce a restituire un po’ di quell’istinto della natura. Ti fa porre delle domande. Ti spinge a cercare delle risposte. Ti chiede di sentire l’altro da te. E, attraverso di lui, ti chiede di sentire te stesso. Anche nelle proprie contraddizioni. Nelle proprie ambiguità. Nel disagio. Nelle incoerenze o assurdità.

La fotografia, forse, rispetta l’assurdità dei fatti e di se stessi anche in quelle immagini dove in apparenza non c’è nulla che attiri l’attenzione.

Ma fotografare è anche, alla fine, cercare nelle cose quello che uno ha capito con la testa.

Una bella foto è l’immagine di una idea, diceva Terzani.

Però, forse, non è solo ciò che si è capito con la testa, attraverso lo studio, l’analisi.

E’ anche ciò che si sente con il cuore. E’ lo sguardo del cane che ti fissa gli occhi e non la bocca.

E’ l’istinto di ciò che si ha dentro. E’ la materializzazione della propria sensibilità.

E’ un ritratto duplice alla fine. I soggetti, dei Dorian Gray in bianco e nero, tonalità che prediligo.

La camera, uno specchio. Che riflette i frammenti di tante esistenze, la propria, le altrui, che vanno a comporre un puzzle dai pezzi indefiniti. La fotografia, per me, è un mosaico di vita vissuta, sognata, percepita che si spezza e ricompone. E tesse una tela. Che contribuisce a dare un senso.

A cosa, devo ancora scoprirlo.

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