EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Tra la vita e la morte, la différance. A proposito di La vie la mort di Jacques Derrida

di Francesco Vitale

La recente pubblicazione del seminario La vie la mort[1], tenuto da Jacques Derrida tra il 1975 e il 1976, potrebbe segnare in maniera decisiva l’interpretazione dell’intera opera del filosofo franco-algerino e il suo avvenire. È almeno la tesi che sostengo in Biodeconstruction. Jacques Derrida and the Life Sciences[2], testo in cui propongo una reinterpretazione della decostruzione alla luce di quanto emerge da questo seminario, e cioè la necessità della decostruzione dell’opposizione tra la vita e la morte quale matrice che orienta e struttura la tradizione del pensiero Occidentale in chiave metafisica. È infatti in questa prospettiva che si muove Derrida, fin dal titolo, in cui, tra “la vita” e “la morte”, non vi è alcun segno di congiunzione, o di altra articolazione, che potrebbe implicitamente ratificare la distinzione e quindi l’opposizione tra due termini presupposti come di per sé autonomi e l’uno dall’altro indipendenti:

Che cosa ho fatto annunciando questo seminario con il titolo «La vita-la morte», vale a dire, sostituendo con un trattino o con una spaziatura senza trattino o un trattino senza parola, con un silenzio marcato, la e che in generale pone la morte con la vita, l’una all’altra giustapposta o più sicuramente opposta?  Il rapporto di giustapposizione o di opposizione, il rapporto di posizione, la logica della posizione (dialettica o non dialettica), sarà forse ciò che precisamente viene messo in questione quanto a la vita la morte. facendo saltare la e non ho voluto anticipare che la vita e la morte non formino una dualità, che non siano l’una l’altro dell’altra, ma che questa alterità o questa differenza non sia dell’ordine di ciò che la filosofia chiama opposizione (Entgegensetzung), doppia posizione di due, l’uno contro l’altro, nel senso in cui, per esempio in Hegel, il concetto di posizione e la posizione del concetto, l’auto-posizione e l’opposizione formano gli schemi motori della dialettica e di una dialettica che procede essenzialmente come un pensiero molto potente della vita e della morte; e soprattutto nel senso in cui l’opposizione, la contraddizione (dialettica o meno) è il processo del passaggio di un opposto nell’altro, dell’identificazione rilevante l’uno nell’altro.[3]

Nelle prime battute del seminario, la filosofia hegeliana viene chiamata in causa quale compiuta espressione della concezione della vita che orienta la tradizione filosofica in chiave metafisica, e cioè sulla base dell’opposizione tra la vita e la morte. Tra la Filosofia della Natura e la Scienza della Logica, la morte appare solo come il limite della vita naturale, biologica, e quindi quale momento che, attraverso la sua «Aufhebung», permette il passaggio dialettico alla vita dello Spirito e quindi la determinazione della «vita» quale primo momento, immediato e naturale, dell’«Idea assoluta»; secondo l’ultimo sillogismo della Scienza della Logica infatti: «solo l’idea assoluta è l’essere (Sein), vita imperitura (unvergängliches Leben), la verità che si sa (sich wissende Wahrheit) ed è tutta verità (und ist alle Wahrheit)»[4]. Per Derrida, si tratta piuttosto di liberare la morte naturale dalla sua semplice esteriorità ed opposizione rispetto alla vita, e quindi dalla sua conseguente rimozione metafisica, per riconoscere nella sua ineluttabile necessità, l’irriducibile condizione di possibilità della vita (e quindi di impossibilità della «vita» così come è stata concepita all’interno della tradizione onto-teologica o semplicemente metafisica), in virtù della quale deve essere considerata come interna alla vita, e quindi necessaria alla sua determinazione quale differimento differenziante (différance) della/dalla morte. In questa prospettiva, Derrida si apre la strada verso la tematizzazione della nozione di «sopravvivenza» che lo impegnerà nei lavori più recenti, da Spettri di Marx ai seminari dedicati a La bestia e il sovrano[5].

Tuttavia Derrida non si limita a decostruire la tradizione della cosiddetta «filosofia della vita», fino ad affrontare la questione del cosiddetto «biologismo» di Nietzsche, attraverso la lettura di Heidegger; in questo seminario, Derrida si confronta per la prima e unica volta con un testo scientifico, all’epoca molto autorevole, e che aveva suscitato l’attenzione anche di Foucault e Deleuze: La logica del vivente (1970) di François Jacob, premio Nobel per la medicina nel 1965, insieme a Jacques Monod e André Lwoff, per le scoperte relative al meccanismo della sintesi proteica implementata dal DNA e soprattutto per la definizione del «programma genetico», condizione dell’eredità genetica e quindi dell’evoluzione. Scoperte ancora oggi ritenute decisive per la determinazione dello stesso statuto scientifico delle scienze della vita, finalmente emancipate dai condizionamenti ereditati dalla tradizione filosofica, ed in particolare dalla «teleologia». Questa, a partire dalla sua definizione aristotelica, fino a Kant e Bergson, è sempre stata il dispositivo concettuale attraverso il quale la filosofia ha interpretato la genesi del vivente ma in un orizzonte metafisico inaccettabile per le scienze moderne: da un lato perché  l’idea di una finalità quale causa della natura o di una parte di essa (la vita) implica la necessità di presupporre un’intenzionalità ordinatrice al di là della natura (Dio), dall’altro perché l’idea che una condizione futura possa essere la causa finale di ciò che la precede contraddice il principio della causa efficiente, l’unico valido per le scienze moderne essenzialmente meccaniciste.

Derrida mostra come in realtà sia ingenua la pretesa emancipazione delle scienze della vita dalla filosofia, come di fatto l’eredità della tradizione filosofica pesi ancora, per quanto inavvertita come tale, sul discorso scientifico, condizionandone le basi concettuali, a partire dalla stessa definizione di ciò che caratterizza la vita, e cioè la capacità di «riproduzione», la stessa che ne aveva dato Hegel. L’idea stessa, sostenuta da Jacob, che la morte sia intervenuta in un secondo momento nel corso dell’evoluzione, intaccando dall’esterno la riproduzione virtualmente infinita dei batteri ‒ considerate come le forme di vita più antiche ‒ e aprendo la strada a forme di vita più complesse, sembra riprodurre la concezione hegeliana della morte quale altro dalla vita, ad essa opposta. Soprattutto, Derrida mostra quanto sia illusoria la pretesa emancipazione della biologia dalla teleologia: la nozione di «programma genetico», elaborata a partire dalla nozione cibernetica di «programma», nella misura in cui statuisce la presenza nel DNA di istruzioni codificate in grado di dirigere la genesi e la costruzione dell’organismo vivente fin nel minimo dettaglio, fino a prescriverne la morte, risolve sì il problema dell’intenzionalità finalistica, necessariamente presupposta in qualsiasi processo determinato secondo un fine, ma lascia del tutto inalterato il funzionamento del meccanismo teleologico. Il fine, presente all’origine nella forma di istruzioni codificate, continua ad esercitare il suo ruolo di responsabile esclusivo del processo di costruzione dell’organismo, escludendo così qualsiasi interferenza dell’ambiente sia interno (l’ambiente cellulare che ospita il DNA) che esterno; secondo questa logica, il fattore ambientale può intervenire solo per via indiretta, senza intaccare direttamente il «programma genetico» e cioè sul piano della selezione che interviene non sul «programma genetico» dell’individuo ma sulle popolazioni. Così concepito, il «programma genetico» svolge precisamente la funzione della teleologia: garantire lo sviluppo immanente del processo (vivente) e quindi la possibilità della sua conoscenza esaustiva, riducendo l’alterità contingente (l’ambiente) a condizione secondaria e fattore accidentale.

Al contrario, secondo Derrida, la mutazione, condizione irriducibile della variazione genetica e quindi dell’evoluzione, non può essere solo casuale e legata ad errori di trascrizione del codice genetico nel corso della sua replicazione, la sua possibilità deve essere intrinseca allo stesso codice genetico, implicando la sua apertura all’alterità e quindi la possibilità che quest’ultima possa produrre mutazioni. La cosa che ritengo straordinaria è che questa ipotesi, che all’epoca sarebbe stata tacciata di lamarkismo[6], è oggi largamente condivisa nell’ambito delle scienze della vita ed in particolare nel campo dell’«epigenetica» che studia gli effetti dell’ambiente sul «programma genetico» e sulla sua trasmissione ereditaria, arrivando a riconoscervi un fattore essenziale dell’evoluzione[7]. Con questo straordinario risultato non si esaurisce la ricchezza e la densità di questo seminario, e tuttavia, dimostrando, sia pure a posteriori, la validità e l’efficacia dell’argomentazione decostruttiva rispetto al discorso scientifico, permette di avanzare l’ipotesi che il dialogo tra scienze e decostruzione possa rivelarsi efficace sull’uno e sull’altro fronte. Un’ipotesi che vale la pena verificare per l’avvenire tanto della decostruzione quanto delle scienze.

  

 

 

[1] J. Derrida, La vie la mort. Séminaire (1975-1976), Paris, Seuil, 2019. Edizione italiana tradotta e curata da Francesco Vitale in pubblicazione presso la casa editrice Jaca Book di Milano: La vita la morte. Seminario (1975-1976), Jaca Book, 2021.

[2] F. Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and the Life Sciences, Albany, SUNY Press, 2018. Marguerite Derrida mi aveva autorizzato a leggere e lavorare su questo seminario, conservato presso l’Archivio Derrida all’IMEC di Caen, prima della sua pubblicazione.

[3] J. Derrida, La vie la mort. Séminaire (1975-1976), Paris, Seuil, 2019, p. 19. La traduzione è tratta dall’edizione italiana in pubblicazione presso la casa editrice Jaca Book di Milano.

[4] G. W. F. Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, rev. di C. Cesa, Roma-Bari, Laterza, 1996, t.II, p. 935.

[5] La bestia e il sovrano. Vol.1 (2001-2002), Jaca Book, 2009; La bestia e il sovrano. Vol.2 (2002-2003), Jaca Book, 2010.

[6] Geoffrey Bennington mi ha confermato che questo è il motivo della mancata pubblicazione di questa parte del seminario.

[7] Per una rassegna di questi studi cfr. R. C. Francis, Epigenetics: the Ultimate Mystery of Inheritance, New York, W. W. Norton & Company, 2011.

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